Storie originali > Soprannaturale > Fantasmi
Ricorda la storia  |      
Autore: Melanto    19/09/2009    5 recensioni
Il cimitero era un via vai assoluto di gente come non se ne vedeva nemmeno nella piazza del paese il giorno del Santo Patrono.
C’era da dire che era anche il 2 Novembre. Quale cimitero non veniva preso d’assalto il 2 Novembre?
Era sempre così: quattro gatti per tutto il resto dell’anno, e poi pellegrinaggio in massa il Giorno dei Morti. Amen.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Norge'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Documento senza titolo

Questa storia partecipa al Pigiama Party di Fanworld ed ha la stessa ambientazione di “Violet” e lo stesso protagonista, il fantasma Norge.

Generazioni

A Zio Filucciello

Il cimitero era un via vai assoluto di gente come non se ne vedeva nemmeno nella piazza del paese il giorno del Santo Patrono.
C’era da dire che era anche il 2 Novembre. Quale cimitero non veniva preso d’assalto il 2 Novembre?
Era sempre così: quattro gatti per tutto il resto dell’anno, e poi pellegrinaggio in massa il Giorno dei Morti. Amen.
Ormai c’ero abituato.
A me non è che cambiasse la vita… pardon, la morte, tanto Camilla non si sarebbe fatta vedere ugualmente. Erano svariati anni che non veniva a trovarmi nemmeno nella ricorrenza a me dedicata, ed avevo imparato a prenderla con una certa filosofia.
E poi lo diceva sempre Pietro: “Ma son giovani! Non hanno tempo, lascia perdere. Con la vita frenetica che c’è adesso, vuoi pure che si facciano quattro passi al cimitero?”. Come dargli torto.
Però, seduto alla mia lapide, il 2 Novembre aveva un certo non so che ai miei occhi per cui, seppur da me non venisse nessuno, a fine giornata restavo ugualmente soddisfatto quando mi mettevo a rimirare gli sgoccioli del tramonto. Era una sensazione che avevo chiamato ‘buona malinconia’ perché, anche se mi lasciava lì a pensare e meditare su tutta la mia esistenza terrena, non mi toglieva il sorriso dalle labbra.
Mi rilassava scoprire che, in fondo, non tutti erano pervasi dalla frenesia di cui parlava Pietro, e li vedevi aggirarsi con vasi e fiori di molteplici tinte tra le tombe silenziose, alle loro orecchie, ma che brulicavano di aspettative.
Qualcuno lo sentivi parlare e raccontare di questo o quell’amico/conoscente/parente. I fantasmi ridacchiavano e commentavano a loro volta, annuivano con severità e bestemmiavano, come il Brunello.
Ormai lo chiamavamo ‘L’Appuntamento del 2’.
Tommaso, il fratello di Brunello, veniva regolarmente il Giorno dei Morti e quando lo vedevamo spuntare dal vialone, sapevamo già di dover metter mano al calendario per segnare quanti e quali Santi avrebbe tirato giù il nostro Fiorentino DOC alle ultime notizie. Gli irriducibili della schedina, quelli che, in vita, non si erano mai saltati una-domenica-una, facevano anche il TotoBestemmia.
E poi qualcuno piangeva, le madri di solito, quando si fermavano davanti a chi era morto troppo presto e nella maniera peggiore. Le si vedeva lì, compite, a carezzare la superficie lucida della foto senza un solo lamento o una sola parola. Ma che piangevano si vedeva benissimo.
In questi casi i giovani non si facevano mai vedere, ma nessuno di noi – noi più anziani – aveva mai avuto nulla da ridire; in fondo, a chi avrebbe mai fatto piacere vedere la propria madre piangere senza poterle dire una ed una sola parola, farle una carezza o rassicurarla?
Uno dei pochi che restava lì alla tomba era Enrico, eterno diciassettenne. Sua madre piangeva tutte le volte che veniva a trovarlo, e il 2 non faceva eccezione. L’ultima volta che era venuta, lui era lì al solito posto che scuoteva il capo e gesticolava animatamente.
«Ne' mà!» l’ho sentito borbottare «Si m’annaffi a’ tomba, nunn’è che risorgo!». Ma lei aveva continuato a piangere e lui aveva abbozzato un sorriso carico di affetto.
Il cimitero era anche questo.
Era l’incontro di tante generazioni, di bambini che salutavano i nonni; di nonni che salutavano i figli; di madri e padri, nipoti e amici. Di vivi e morti. Di ricordi.
E a me lasciava un senso di tranquillità e appagamento tutto suo, una strana soddisfazione; come una caramella gustata piano e fino alla fine, la bocca ancora impastata del suo succo dolce.
Poi c’erano i più piccoli, che sfrecciavano tra le lapidi rincorrendosi in quel labirinto infinito e intricato.
«Quello è il mio nipotino!» squittiva Irene, tre tombe più in là «Guarda come è veloce! Diventerà un atleta.» e sbatteva le ciglia, trasognante.
E tutti i miei compagni di cimitero, il 2 Novembre, si mettevano in tiro, sfoderavano il vestito ‘buono’ e restavano ad aspettare. In fondo, era divenuta quella la nostra ‘festa di paese’. Molti di loro ricevevano visita svariate volte all’anno, ma c’era anche chi rivedeva i vivi solo per quel giorno.
Come Raffaele.
Oggi era già pronto fin da prima che aprissero i cancelli. Anche se sapeva che la sua visita sarebbe arrivata solo nel pomeriggio, lui era rimasto alla lapide, con l’uniforme della polizia, assieme a Michelangiolo smagliante nella sua divisa da aviere.
Ventitré e ventuno anni, erano solo dei ragazzi. O, come li chiamava sempre Pietro, ‘la gioventù’. E sì che dalla Seconda Guerra Mondiale erano passati decenni.
Forse, il mio apprezzare questo incontro generazionale, questo ricircolo vitale che, a modo suo, faceva sentire più vivi anche noi, lo dovevo proprio a Raffaele.
Era avvenuto svariati anni fa; mentre rincasavo da un torneo di canasta, avevo visto Filù seduto alla lapide a leggere il giornale. Mancava qualche giorno al 2 Novembre.
«Buonasera, Filù.» avevo detto, avvicinandomi, e lui aveva ricambiato il mio sorriso con un solare: «Ehilà, mastro Norge!»
«Posso farti qualche minuto di compagnia?»
«Come no! Accomodatevi.»
E ci eravamo spostati in una delle panchine che costeggiavano il vialone.
Avevo sempre apprezzato la sua educazione tipica del Sud, anche se il più giovane tra i due ero io, ma lui era morto prima di me e questo gli aveva fatto mantenere un rispetto particolare.
«Ho visto che hai dato una sistemata alla lapide.» avevo ripreso, indicandola con un cenno del capo, e lui aveva seguitato a sorridere soddisfatto.
«Sì, mastro No’. Aspetto visite.» lo aveva detto con una luce negli occhi che faceva quasi tenerezza e così mi ero arrischiato a porgli quella domanda che più volte mi era passata per la mente.
«Ma chi sono le ragazze che ti vengono a trovare?» avevo riso appena «Un po’ troppo giovani per essere fidanzate dal cuore infranto.»
Aveva riso anche lui. «Ma no, mastro Norge! Sono le mie nipoti nipote!» poi si era corretto «Le nipoti di mia sorella.». Si era stretto nelle spalle «Sapete, i miei fratelli o sorelle, se non sono morti anche loro, o sono troppo vecchi o sono troppo lontani per venire fin qui. E i nazisti mi hanno ucciso prima che potessi farmi una famiglia. Per questo considero loro un po’ come se fossero anche mie nipoti, e poi mi chiamano ‘zio’. Mi vengono a trovare a ogni Novembre, e nella loro mente mi parlano e dicono sempre che sarebbero state felici di conoscermi, che avrei avuto tanto da raccontare». Filù aveva sospirato, rilassandosi contro la spalliera e sollevando lo sguardo al cielo. «Ed è una cosa bella, perché anche se non ci hanno mai conosciuto, le nuove generazioni non sempre si dimenticano di noi. Il tempo non si ferma davvero solo perché ci hanno sepolto o perché avrò sempre ventitré anni, ma continua a girare nei ricordi che loro trasmetteranno a chi li seguirà.»
E quel suo sorriso, convinto e positivo, mi aveva dato calore, per quanto materialmente il caldo e il freddo non esistessero più per me.
Era come dire che noi non finivamo con la terra che ci ricopriva o con il cemento che ci murava nei loculi, noi continuavamo, perché il ricordo viveva per noi.
E l’intenso via vai che seguitava a consumarsi davanti ai miei occhi era un assiduo rafforzare quella convinzione, rendendola piacevole e caricandola di serenità. Poi, quando spuntarono le nipoti di Raffaele dal vialone, sorrisi.
Vidi Filù alzarsi in piedi per dar loro il benvenuto e loro fare una carezza alla foto di ceramica.
Sì, il 2 Novembre aveva una sua piacevolezza di fondo che potevo vedere in gesti piccolissimi, un sorriso, una visita, il cambio di un fiore, una chiacchiera al vento. Il succo della ‘buona malinconia’ che avrei gustato alla fine del giorno.
Ma non potevo immaginare che, quell’anno, sarebbe stato diverso. Non fino a quando il bambino biondo arrestò la sua corsa proprio davanti alla mia lapide. Il tempo di leggere il nome e poi gridare: «L’ho trovato, mamma!»
E sua madre apparve alla mia vista col passo affrettato e carica di roba, ma la riconobbi all’istante.
«Camilla?» ovviamente, lei né mi vide né mi sentì.
«Diego! Quante volte ti ho detto che devi abbassare la voce, siamo al cimitero!»
«Sì, mamma.»
E quello era mio nipote.
L’ultimo ricordo che avevo di lui era di un mostriciattolo che a stento si reggeva in piedi, ed ora parlava e correva come un missile.
E… e cavolo! Non avevo messo il vestito ‘buono’ e la mia tomba era un disastro!
«Papà!» Camilla sbottò con le mani ai fianchi dopo aver appoggiato il mazzo di fiori a terra «Questa tomba è un disastro!»
Appunto.
«Non mi aspettavo visite!» borbottai di rimando.
«Scommetto che la mamma non si fa viva da secoli.»
«Ma se non è venuta nemmeno al funerale, figurati se veniva il Giorno dei Morti.» sospirai, vedendola armeggiare con uno straccio, mentre Diego gironzolava per le tombe tra i commenti divertiti dei miei amici.
Mi aveva portato degli iris, belli come quelli che coltivava sua madre, e capii che in fondo non importava che la mia lapide fosse uno sfacelo e che non mi fossi messo in ghingheri, l’importante era che lei fosse lì, a ricordarsi di me, a tramandare il ricordo a mio nipote, a rendermi vivo per la nuova generazione.

“Filù, Filù
O’ tiemp ch’è stato no’ ttuorna chiù.
O’ tuono e’ nu’ sparo,
nu’ chiant amaro
e chell ca’ eri, nun si’ stato chiù,
Filù, Filù.
Ma tu no’ ttemè,
si pure no' ttuorna
i' nun m'o' scuord

e o’ tiemp ch’è stato m’o’ puort cu’mmè,
Zi’ Filucciè.”

“Filù, Filù
Il tempo che è stato non torna più
il tuono di uno sparo,
un pianto amaro
E quello che eri, non sei stato più,
Filù, Filù.
Ma tu non temere,
seppur non ritorna,
io non lo dimentico
e il tempo che è stato me lo porto con me,
Zio Filucciè”

 

**FINE**

 

   
 
Leggi le 5 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale > Fantasmi / Vai alla pagina dell'autore: Melanto