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Autore: SilvanaFreesound    29/03/2024    10 recensioni
La Golden Week è giunta al termine così come l'ultima partita di allenamento tra i corvi del Karasuno e i gatti del Nekoma.
Kuroo attacca bottone con il biondo difensore numero undici.
NdA: questa storia partecipa alla challenge WIP SPRING indetta nel gruppo Facebook Komoreby Community - Fanfiction Italia
Genere: Erotico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Kei Tsukishima, Tetsurou Kuroo
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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“Che razza di conversazione sarebbe questa?”

Sbotta inorridito il biondo centrale del Karasuno udendo Hinata e Inuoka emettere ad alta voce versi incomprensibili mentre saltano ripetutamente a gambe all’aria un po’ come strambi pupazzi a molla che scattano inquietanti all’apertura delle scatole giocattolo.

“Hai ragione! - il capitano del Nekoma lo sorprende improvvisamente alle spalle fino a farlo trasalire - E’ vero, quei due sono proprio infantili. E tu invece? Non sei anche tu un primino come loro? Un po’ di spensieratezza non ti guasterebbe.”


Chi cazzo era ‘sto stronzo?

Come cazzo si era permesso a irrompere nei suoi pensieri, aggrovigliati, contorti e indistricabili come irti cespugli di rovi?

Ok, quel tizio irritante con la lingua affilata come un rasoio è uno del terzo, un suo senpai, quindi di due anni appena più grande, un divario di poco conto che non lo legittima di certo ad impicciarsi di affaracci che non lo riguardano, specie se si tratta dei suoi di affaracci.

Chi cazzo era per dirgli cosa doveva o non doveva fare?

Come doveva o non doveva vivere?

Manco sua madre e suo fratello avevano osato così tanto.

E lui in fin dei conti era contento così, trincerato nel silenzio ovattato della sua camera maniacalmente in ordine - con tutte le sue cose esattamente al loro posto, là dove devono stare - sterile e bianca come una stanza d’ospedale.

Trascorreva le sue giornate monotone - casa, scuola, studio e volleyball, tutto com’è giusto che debba andare, tutto sotto controllo - eclissandosi dal resto del mondo, protetto da enormi cuffie da musica, scudo impenetrabile da issare sulle orecchie alla vista del primo rompiscatole che si aggirasse nei paraggi, con un cagnolino scodinzolante dal muso ricoperto di lentiggini a suo fianco, inseparabile, sempre presente, sempre fedele.

Un animaletto da compagnia che lo venera e lo complimenta per tutto ciò che fa, che si metterebbe a pecora ad un suo schiocco di dita se solo lo volesse, pronto ad assecondare ogni suo recondito desiderio carnale.

Scopare con Yamaguchi o meglio, scopare Yamaguchi: capitava di pensarci, soprattutto mentre gli toccava tenere a bada le fastidiose erezioni mattutine, archiviando quella fantasia proibita al cessar di ogni smania.

Sapeva tante cose di Tadashi: che adorava le patatine fritte per esempio, quelle luride dei fast food, strette e lunghe, a bastoncino.

Parliamoci chiaro: Kei non ha mai avuto una predilezione particolare per la roba salata, diciamo che non ha un buon rapporto col cibo in generale.

E’ più uno sweet tooth: se potesse, sceglierebbe di stare ore ed ore seduto in un caffè a leggere libri e riviste scientifiche sorseggiando del buon tè accompagnato da una grossa fetta di torta, preferibilmente guarnita con panna e frutta fresca a volontà.

E invece finisce puntualmente per accontentare il suo amico quando con la sua voce squillante e argentina gli si para davanti chiedendogli con occhi pietosi e languidi da cucciolo smarrito:


“Ci andiamo a mangiare le patatine?”


E’ uno spettacolo vedere ogni volta Tadashi sprizzare di felicità da tutti i pori non appena gli viene servita la sua porzione fumante.

E’ lui che di solito si prodiga nel preparare meticolosamente il piatto delle salse per tutti e due: appunta i gomiti sul tavolo, intreccia le dita sotto il mento, un sorriso genuino e disarmante gli appare d’un tratto illuminandogli il volto.

Rimane così, sospeso in effimera beatitudine a fissare incantato il suo amico occhialuto mentre infilza le patatine con la forchetta, intingendole nella maionese quanto basta per insaporirle e stemperarne il calore.

Kei solleva mollemente lo sguardo in sua direzione un attimo prima di addentarle.


“Non mangi?”


La sua domanda è vana e un filo retorica perché sa benissimo che a Yamaguchi non piacciono le patatine calde e croccanti, appena scolate dall’olio bollente.

Lui le mangia dopo, con calma, le fa riposare pazientemente soffiandoci su di tanto in tanto con la sua boccuccia deliziosa, fino a che non diventano fredde e flosce.

Sapeva che aveva una passione smisurata per i Pokemon (casa sua poteva essere tranquillamente adibita a museo considerato il numero sterminato di figures e gadgets a tema disseminate nella sua stanzetta) e da poco per i manga yaoi, collezione che ultimamente aveva visto crescere nella sua libreria, maldestramente occultata dietro vecchie enciclopedie.

Di lui sapeva pure che la scuola non gli piaceva per niente: Yamaguchi in realtà non era un secchione, a detta di sua madre da piccolo preferiva bighellonare in giro a combinar marachelle fino al calar del sole piuttosto che stare con la testa sui libri.

Ma poi un bel giorno aveva incontrato Tsukki al parco vicino casa: Tsukki che da solo era intervenuto senza remore in sua difesa.

Merito della sua soverchiante presenza fisica e con un paio di battute al vetriolo, in quattro e quattr’otto aveva sgominato quella banda di piccole canaglie che lo stava bullizzando.

Un nuovo eroe era comparso magicamente in quello sperduto paesello di campagna: un eroe bambino, come quelli che si leggono nei fumetti, senza mantello però, con gli occhiali al posto della maschera.

Doveva essere andata per forza così.

Col tempo era riuscito a diventare suo amico, il suo migliore amico, nemmeno lui sa precisamente come ciò sia potuto accadere.

Una folgorazione: d’ora in poi Tadashi si sarebbe impegnato più che poteva nello studio, lo doveva fare per riuscire a stare al suo passo, per essere meritevole della sua amicizia.

Lo avrebbe seguito in tutto e per tutto, appoggiando le sue scelte pur di continuare a stare con lui.


“Casa mia o casa tua?”


Era questa la domanda che attendeva a fine giornata con fremente trepidazione: stare insieme a Tsukki nella tranquillità e intimità delle loro camerette, soli, gomito a gomito, parlando, scherzando, ridendo, condividendo la merenda oltre che timori, dubbi e sogni di fanciulli.

E infine sapeva che Yamaguchi era innamorato cotto di lui, che lo amava con tutta l'anima, che nutriva questo sentimento profondo sin dalle elementari.

In fondo Kei era un bravo ragazzo, non era cinico né spietato - anche se spesso si divertiva ad apparire così agli occhi della gente - ed ora che certi impulsi iniziavano ad affiorare perfino in lui, offuscandogli la mente, alimentandone gli appetiti, approfittare spudoratamente del suo migliore amico, il suo unico amico, sarebbe stata indubbiamente la mossa più ignobile di questa terra.

Peccato perché, a dirla tutta, Tadashi ha proprio un gran bel culo, bisogna dargliene merito: lo ha notato da poco, da quando ha iniziato a prendere sul serio la pallavolo, allenandosi in quei servizi flottanti che ha imparato da Shimada-san.

Quando si mette in posizione, allineando le punte dei piedi in modo che siano parallele al bordo del campo, mentre tiene la palla ben salda vicino al petto rimanendo straordinariamente concentrato, ecco, in quell’attimo in cui il suo corpo è in tensione così come i suoi glutei, Tsukishima non può fare a meno di immaginarselo nudo, di pensare a quanto sarebbe bello ed eccitante afferrare da dietro i suoi fianchi ossuti ed osservare i suoi muscoli dorsali guizzanti, spruzzati da una moltitudine di piccole efelidi, muoversi avanti e indietro assieme ai suoi capelli volutamente incolti, scompigliandoli ad ogni affondo dentro le sue natiche glabre.

Vivere la vita semplicemente, individuando poche priorità senza che nessuno gli pesti i calli, senza false illusioni è ciò che Kei vorrebbe farsi bastare perché desiderare qualcosa di razionalmente irrealizzabile comporta solo penose frustrazioni e inutili sofferenze.

E lui non ci pensa proprio a fare la fine di quello sfigato di suo fratello.

Forse l’unico che sino ad ora gli aveva tenuto testa, dandogli in qualche modo filo da torcere, ancor prima di quello spaccone irriverente di Tokyo, era stato suo padre, quando era piccolo.

Forse, non ne è sicuro al cento per cento, è solo una sua intuizione basata su quello che una volta aveva sentito dire a sua madre in una delle tante discussioni con Akiteru, origliando per puro caso, fermo dietro la porta della cucina.

Se Kei-chan si comportava in modo così altero e scostante non era tutta colpa sua, che era solo questione di DNA, che lui aveva lo stesso carattere spigoloso di suo padre: taciturno, ritroso, misantropo, impassibile, riflessivo, alla costante ricerca di una spiegazione razionale, come se ogni cosa avesse origine, sviluppo e fine unicamente nella ragione (carattere, non caratteraccio: la signora Tsukishima stava attenta a non denigrare il suo ex marito anche se poteva avere più di un motivo per farlo).

Un padre: ce l’aveva avuto anche lui, un padre.

Una figura altissima, un fisico asciutto e nevrile, onde bionde, morbide, incorniciate da occhiali dalla montatura scura e severa, braccia chilometriche e mani grandi, calde ed avvolgenti, pochi flash, ricordi fin troppo lontani dai contorni così sfocati, sbiaditi e inconsistenti da apparirgli oramai del tutto evanescenti.

Come diavolo si chiamava quel numero uno del Nekoma?

Capitano, ah sì, Kuroo, ecco come lo chiamavano quegli stramaledetti gatti.

Il suo nome di battesimo chissà qual era, non che la cosa avesse poi così tanta importanza, dopotutto.

Che poi Kuroo in giapponese significa nero, nero come il suo folto ciuffo corvino – tenuto su da una collaudata alchimia di lacca e pasta modellante - nero come il suo sguardo spavaldo, i suoi occhi, lucidi e scuri come pece bollente, nero come l’universo che ti risucchia inesorabilmente e ti fa vagare in eterno, in totale balia della sua forza misteriosa e oscura, senza poter esercitare un briciolo di resistenza, senza poter imporre il benché minimo volere.

Ora che questa associazione gli era rimasta impressa nella mente, il suo nome Tsukishima non se lo sarebbe più scordato neanche a volerlo.

Come se ciò non bastasse ci pensavano quei neko metropolitani a ricordarglielo, invocandolo continuamente in campo nel pieno svolgimento delle azioni.

Dispensare consigli, poi?

A uno come lui?

Come se non avesse abbastanza sale in zucca.

Fino a prova contraria è l’unico della sua squadra che ha capito realmente come stanno le cose: la pallavolo è solo un club sportivo, bisogna frequentarlo, fa parte del programma scolastico e Kei non ha alcuna intenzione di vedersi abbassare la media per le assenze o per aver battuto troppo la fiacca durante gli allenamenti.

E poi “mens sana in corpore sano”, è sempre stata una sua convinzione, un po’ di movimento non può che giovare alla salute, si sa che lo sport favorisce la crescita e lo sviluppo armonico dell’organismo.

In ogni caso sempre meglio che stare chiuso in casa, col culo spiaccicato sul divano a rincoglionirsi, friggendosi il cervello davanti la TV o la playstation ad ingurgitare cibo spazzatura.

Da qui però ad ammazzarsi di volley come forsennati, vivendo solo di pallavolo, senza pensare agli studi e al futuro che incombe è da pazzi incoscienti o meglio, da completi idioti.

Tra tutti forse solo Sua Maestà Osama Kageyama potrebbe vagamente avere qualche chances di proseguire seriamente la carriera pallavolistica facendone nel tempo una professione, se solo la piantasse di essere così dispotico ed egocentrico e si mettesse una buona volta a disposizione degli altri.


“Prendere la vita con leggerezza sarebbe la cosa più giusta da fare per uno della tua età.”


Ci sa proprio fare quello sbruffone invadente, sa perfettamente come catalizzare l’attenzione con quel suo modo di fare provocatorio e ammaliante al tempo stesso.

Chissà se avrà modo di incontrarlo di nuovo, di rivedere ancora una volta quel sorriso beffardo e seducente e quegli occhi impertinenti e inquisitori che lo inchiodano e lo spogliano vivo rivelando ogni sua più segreta debolezza.

Il divario tra le due squadre è enorme e il Karasuno allo stato attuale è troppo debole per sperare di approdare ai nazionali.

Significherebbe battere tutte le altre della prefettura di Miyagi, avere la meglio su colossi come il Dateko, il Sejou e la Shiratorizawa, tanto per cominciare.

Impensabile.

Ci vorrebbe un miracolo, uno di quelli buoni.

Si potrebbe andare a Tokyo, magari in trasferta, sempre che il prof. Takeda riesca ad organizzare altre amichevoli.

Realisticamente: servono un botto di soldi.

Difficile.

Improbabile.

Meglio levarci mano.

Chissà se quel ficcanaso indisponente è mai stato con un ragazzo, se quando bacia chiude gli occhi, se sa aspettare con pazienza il momento giusto o se è il classico tipo irruente che ci mette subito la lingua.

Chissà se quando fa il filo, è quel genere di persona asfissiante che ti riempie di fiori, cioccolatini e paroloni d’amore o se invece preferisce una passeggiata in silenzio al chiar di luna, dita intrecciate e teste rivolte su verso il cielo ad ammirare il firmamento stellato.

Chissà se a letto ci sa fare davvero, se gli va di provare cose o è uno di quei tediosi martelli pneumatici senza fantasia come quelli che si vedono nei porno.


“No, mi dispiace, non è questo il mio modo di fare. - Scocca stizzito il biondo occhialuto - Non è nel mio stile.”


Strizza gli occhi, sospira altezzoso dandogli le spalle mostrando finto disinteresse, la mano tesa verso l’alto in segno di saluto e si dilegua: strategia vincente per non finire irrimediabilmente tra le grinfie di quell'insistente gattaccio di città.

E’ meglio così.

Tokyo-Sendai, quattrocento chilometri di distanza, ore e ore perse tra binari di treni, mille milioni di messaggi, chat e videochiamate.

Troppa fatica.

Troppe incomprensioni.

Troppi “ti amo” e “mi manchi, scemo” da sussurrare a telefono.

Troppe promesse da mantenere.

Troppe promesse non mantenute.

Troppe seghe.

Troppo strazio.

Una storia condannata sul nascere.

Meglio lasciare il mondo così com’è.

Meglio non vedersi più.

Perché una cosa è certa: loro due non si vedranno mai più.


 

**********



“Ehi tu, Karasuno, sì, tu con gli occhiali. Ti andrebbe di fare qualche muro con noi?”


Rieccolo.

Di nuovo lui.

E’ tardi.

Troppo tardi.

E’ buio pesto.

Un bagno caldo e una buona dormita è quello che ci vuole.

Allenarsi fino allo stremo non fa bene per niente.

A che serve tutto questo sbattimento?

D’altronde dall’oggi al domani non si può certo migliorare.

Ancora da faticare.

Ancora da saltare.

Ancora da sudare.

Varca l’ingresso della palestra numero tre.

Non gliela sta mica dando vinta.

Dopotutto lui è un centrale.

Potersi esercitare con assi di questa portata è un’occasione unica, da cogliere al volo.

Quando gli potrebbe ricapitare?

E poi a un campagnolo come lui?

Stavolta non sarebbe più scappato.

Stavolta non gliel’avrebbe fatta passare.

Stavolta questa soddisfazione non gliela avrebbe concessa.

La battaglia della discarica potrebbe essere più vicina di quanto pensa.


 

ANGOLO DELL’AUTRICE.


Salve a tutti!

Rieccomi con una Kuroo/Tsukki calda calda, appena sfornata.

Sì perché questa è una Kuroo/Tsukki, sui generis, pur tuttavia, a suo modo è una Kuroo/Tsukki.

Erano due anni e mezzo che non scrivevo di loro.

Sinceramente non credevo che sarei riuscita a scrivere qualcosa su questa ship affascinante: tanti fogli di carta “virtuali” appallottolati e gettati dietro la schiena, idee originali pressoché zero.

Ad un tratto una folgorazione: perché non partire dal primo scambio tra i due al termine della loro prima partita di allenamento, durante la Golden Week?

Kuroo col suo fare provocatorio punta proprio Kei, sceglie lui tra i tanti del Karasuno (e già da questo primo approccio dovrebbe partire la fantasia sfrenata di noi shippatori seriali) lo aggancia, lo stuzzica e gli tiene testa al punto che il biondo occhialuto, messo alle corde, non può fare altro che dileguarsi (Kei non è molto abituato agli scontri diretti).

Uno spunto a mio avviso molto interessante per raccontare di uno Tsukishima adolescente alle prese con il suo corpo che cambia, che diventa ogni giorno più esigente, della sua sessualità sempre più definita.

Uno Tsukishima che ha le idee confuse: Yamaguchi lo fa stare bene, lo segue e lo appoggia incondizionatamente, si prende cura di lui (mio headcanon) ed è pure attraente.

Ma ecco irrompere nella sua vita l’aitante capitano del Nekoma che come un fulmine a ciel sereno lo sconvolge mettendo in discussione la sua semplice e monotona esistenza: carismatico, invadente, sbruffoncello, terribilmente sexy il quale con la sua lingua impertinente gli sbatte in faccia la cruda verità, senza filtri.

Yamaguchi o Kuroo?

Yamaguchi è un porto sicuro in cui attraccare, lo asseconda in tutto ciò che fa, lo mette su un piedistallo, lo fa sentire così tanto importante da sentirsi legittimato a zittirlo ogni due per tre per un nonnulla.

Kuroo ha una forte personalità, è un leader, dice le cose come stanno, va dritto al punto anche se si tratta di argomenti scomodi, si diverte nel suscitare reazioni, è uno che con il suo modo di fare e di porsi non passa inosservato.

Due personaggi dai caratteri diametralmente opposti.

Come si fa a decidere?

Vi è mai capitato nella vita di essere presi in egual modo da due o più persone per motivi diversi e non sapere chi scegliere?

A me sì e devo dire che è stato un periodo della mia vita molto sofferto.

Mi scuso con voi lettori nel caso in cui questo scritto sembri un po’ confusionario: in parte è dovuto alla mia intenzione di raccontare i pensieri di Tsukki alternati a sprazzi del suo vissuto, per quanto riguarda il resto sapete già che sono impedita a scrivere ahahahhahah

L’importante è nella vita metterci sempre il cuore come faccio io.

Speriamo che lo capisca anche Tsukki.

Dedico questa fic a tutti gli amanti della ship che, spero, mi perdoneranno se di tanto in tanto c’è qualche leggera (ma solo un po’) interferenza di Tsukki/Yama.
 

Vi ringrazio per essere giunti fin qui, per il sostegno prezioso che costantemente mi dimostrate e vi lascio con un caloroso arrivederci.

 

 


 


 

   
 
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