“Nessun crimine è
ammissibile in guerra,
a meno che non sia necessario.”
CAPITOLO 3
OLTRE IL LIMITE
«Stai scherzando, spero!» gridò Philippe
all’indirizzo del povero messaggero. «Ripeti quello che hai detto!»
«Purtroppo è tutto
vero, Signor Conte. Una forza nemica ha attaccato all’improvviso il villaggio
di Todlen due ore fa, alle prime luci dell’alba. La
guarnigione che difendeva il villaggio è stata colta completamente alla
sprovvista.»
«Ma come accidenti
hanno fatto? Il Passo di Gael è ancora bloccato, e
nessuna delle piazzeforti ha segnalato nulla! Da dove diavolo sono passati?»
«In quanti erano?»
chiese Victor
«Non lo so, Mio
Signore. Ci sono piombati addosso all’improvviso, mentre io stavo dormendo. Non
li abbiamo neanche sentiti arrivare. Si sono avventati sui miei compagni come
belve scatenate. Li hanno letteralmente sbranati. Poco prima che il villaggio
cadesse il Capitano mi ha ordinato di venire a fare rapporto, e temo di essere
l’unico sopravvissuto.»
«È proprio come
temevo.» disse funereo Lefde
«Che intendi
dire?»
«Trentamila uomini
sono troppi, anche per assediare un forte ben protetto come questo.
Quell’esercito non è qui solo per riconquistare Grote
Muren. Intendono marciare contro Eirinn.»
Una simile
prospettiva fece gelare il sangue a Victor e a suo zio, mettendoli di fronte al
peggiore scenario possibile; avevano intrapreso quella campagna per
riconquistare le terre dei loro antenati, e ora rischiavano di perdere le
proprie.
Le piazzeforti che l’esercito di Eirinn
aveva costruito per proteggere la strada verso Grote Muren potevano resistere a comuni assalti degli eserciti
convenzionali, ma non c’era niente che potessero fare per opporsi ai cannoni.
E per essere certi
che non potessero coordinare le difese o supportarsi a vicenda Daemon aveva
ordinato ai suoi luogotenenti Septimus, Jack e Richard di attaccare le tre
fortezze nello stesso momento, in un assalto coordinato che non aveva lasciato
scampo.
In realtà nessuno
dei tre aveva preso materialmente parte alla battaglia, perché nel mentre
Daemon aveva raccomandato a ciascuno di loro di trovare dei bravi subalterni a
cui demandare le operazioni sul campo, limitandosi a coordinare le operazioni
stando in mezzo agli uomini senza però rischiare troppo.
«Un sottufficiale
o un soldato possono essere sostituiti facilmente.» aveva detto loro Daemon
quando avevano protestato per questa decisione. «Ma un ufficiale, o peggio
ancora il comandante di un’intera divisione, sono insostituibili.»
Poteva sembrare un
discorso cinico, considerare una vita più preziosa di un’altra, ma tutti e tre
avevano passato abbastanza tempo in guerra da aver capito che la morte di un
comandante significava spesso anche quella di molti degli uomini sotto il suo
comando. Era quindi necessario che i generali fossero sempre al sicuro, perché
dalle loro decisioni dipendevano le vite di chi non poteva o voleva decidere al
loro posto.
Poche cannonate
erano bastate per fare a pezzi i terrapieni e le palizzate di tronchi, e gli
assalti frontali con il supporto dell’artiglieria e degli arcieri avevano fatto
il resto.
L’attacco
coordinato era iniziato da meno di tre ore quando un messaggero entrò nella
tenda di comando per fare rapporto al resto del Consiglio di Guerra.
«Anche la terza piazzaforte
si è arresa.»
«Quante perdite
abbiamo subito?»
«In tutte le
divisioni poco meno di un centinaio, Messer Daemon.»
«Poteva andare
molto peggio senza i cannoni.» disse Adrian «Lefde è
davvero all’altezza della sua fama. Anche con il poco tempo a disposizione e
quelle due palle al piede al seguito è riuscito comunque ad approntare delle
difese considerevoli.»
Oldrick non sembrava a
suo agio, grattandosi la zucca pelata con evidente fastidio: «Non mi va che i
miei cannoni vengano usati senza che ci sia io a gestirli.»
«L’attacco
coordinato era indispensabile.» rispose Daemon. «Non potevamo permettere alle
tre piazzeforti di supportarsi l’un l’altra. Ma tranquillo, riavrai presto il
tuo comando dell’artiglieria.»
«Quindi ora
punteremo direttamente a Grote Muren?»
chiese Scalia
«Naturalmente.»
«Ammetto che la
cosa non mi entusiasma.» disse Adrian. «Con tutta la fatica che ci è costata la
sua sistemazione.»
«Forse non sarà
necessario. Voglio dire, dopo questa ulteriore sconfitta potrebbero persino
decidere di ritirarsi.»
«Che si ritirino è
praticamente certo, soprattutto se come penso la nostra manovra nelle retrovie
ha avuto successo. Senza più niente a fargli da copertura e con le linee di
approvvigionamento interrotte sarebbero pazzi a non farlo. Anche perché il
forte è pensato per sostenere una guarnigione di qualche migliaio di soldato,
non certo un intero esercito.»
«Potremmo provare
a muoverci immediatamente, magari con un po’ di fortuna potremmo impedire loro
di allontanarsi.» disse Oldrick
«Anche se il
nostro attacco è stato improvviso e molto rapido sarei sorpreso se qualcuno non
avesse fatto in tempo a lasciare le piazzeforti.» osservò Adrian «Stesso
discorso per gli attacchi alle retrovie. No, io penso che o si stanno
preparando a ripiegare o l’avranno persino già fatto.»
«Il problema è che
avranno sicuramente lasciato qualcuno al forte per tenerci occupati e
rallentarci il cammino, così da avere più tempo possibile per riorganizzarsi.»
Daemon sorseggiò
un po’ di caffè, respirando a fondo come a voler cercare di distendere i nervi:
«Inviate messaggeri a tutte e tre le divisioni. Devono raggrupparsi e
prepararsi a ripartire. Entro stasera dobbiamo essere sotto le mura del forte.»
«Lasciare il forte!?» esclamò Victor
«Non abbiamo altra
scelta, Mio Signore. Questo forte poteva essere utile per coordinare le nostre
operazioni, ma non è sufficiente per garantire una difesa adeguata. Non al
nostro intero esercito perlomeno. E ora che il nemico ci ha attaccati anche
alle spalle sarebbe folle rimanere qui ad aspettare di essere accerchiati.»
«Ti rendi conto di
quello che stai proponendo? Dovremmo lasciare quella marmaglia libera di
invadere il nostro Paese?»
«Lo so anch’io che
si tratta di una decisione difficile, e mi dispiace di doverlo fare. Ma
l’alternativa sarebbe restare qui ad aspettare di morire di fame, e intanto il
nemico potrebbe ancora dilagare per Eirinn tenendoci nel mentre chiusi in
questa tomba.»
Dal momento che
Philippe non sembrava propenso a dargli retta Lefde
non ebbe altra scelta che ricordargli fin da subito il documento che il giovane
Granduca aveva appena firmato.
«Sono costretto a
rammentarvi che Sua Eccellenza mi ha affidato il comando assoluto
dell’esercito. Questo significa anche che l’ultima parola sulle operazioni da
seguire spetta a me, anche qualora non siate d’accordo con le mie decisioni.»
Philippe si
aspettava che Victor si opponesse, invece ancora una volta il ragazzo si mostrò
insolitamente collaborativo, cessando ogni ulteriore obiezione.
«Avete sentito il
comandante? Prepariamoci a ripiegare.»
«Ma…»
«Vi ringrazio, Mio
Signore.»
«Ma tieni sempre a
mente quello che ti ho detto. O la testa di Haselworth infilzata su una picca
abbellirà l’ingresso del palazzo, o al suo posto ci sarà la tua.»
Si iniziò quindi
ad allestire subito tutto il necessario per la partenza; ma proprio quando si
pensava che le cose non potessero andare peggio arrivò la notizia che tutte e
tre le piazzeforti erano cadute, e che il nemico si stava ormai preparando a
marciare verso il forte.
«La situazione è drammatica.
È probabile che le truppe che hanno attaccato le retrovie non siano in numero
sufficiente da impensierirci, ma non possiamo offrire la schiena al nemico in
questo modo. Sarebbe come invitarlo a saltarci addosso.»
«Quindi cosa si
fa?» chiese provocatoriamente Philippe
«Non abbiamo
scelta. Qualcuno deve restare qui a coprirci la ritirata.»
Abel, che
attendeva in silenzio in un angolo della stanza, fece subito un passo avanti.
«Generale. Con il
Vostro permesso, vorrei offrirmi volontario.»
Quasi che si
aspettasse la reazione del suo secondo, Lefde non ci
provò neanche a tentare di dissuaderlo.
«Conosci i rischi,
vero? Nella migliore delle ipotesi sarete catturati, nella peggiore…»
«Farò tutto quello
che sarà necessario, Generale. Senza di voi, Eirinn non avrà alcun futuro.»
Era passato
talmente tanto tempo dall’ultima volta che Lefde
aveva combattuto che aveva dimenticato quanto odiasse la sensazione che gli
provocava l’essere costretto a vedere giovani soldati come Abel mandati a
morire al suo posto.
Alla fine si
decise di lasciare a Grote Muren
un presidio di seicento soldati, quanti bastavano per garantire la protezione
del forte per almeno una settimana.
Ma anche se ora
c’era in gioco la salvezza del loro Paese il Generale non poteva accettare
l’idea che quel ragazzo dall’avvenire così brillante, affidatogli direttamente
da un caro amico, andasse incontro alla morte senza alcun motivo.
Così attese che
fossero loro due da soli, quando ormai era tutto pronto per la partenza.
«Cinque giorni.
Cinque giorni sono quello che ci serve per oltrepassare Mablith
e attestarci su nuove posizioni. Tu devi promettermi che resisterete ad ogni
costo, ma anche che alzerete bandiera bianca e vi arrenderete all’alba del sesto
giorno.»
«Ma, Generale…»
«Ti prego,
figliolo. Anni fa ho dovuto comunicare a tua madre la morte di tuo padre. Non
voglio doverle comunicare anche la tua.»
Abel aveva sognato
per tutta la vita di potersi dimostrare all’altezza di suo padre, un uomo che
era vissuto ed era morto senza mai venire meno al codice della cavalleria che
regolava la vita di ogni vero nobile di Eirinn.
Ma ciò nonostante
promise di obbedire all’ordine, e quando, qualche ora dopo, il resto
dell’armata ebbe lasciato il forte, radunò tutti i suoi compagni per prepararli
allo scontro.
«Soldati. Nei
prossimi cinque giorni combatteremo la battaglia più importante di tutta la
vostra vita. È vitale che questo forte resista per cinque giorni all’avanzata
nemica. Se dovessimo cadere prima di allora, l’esercito nemico potrebbe
prendere i nostri compagni alle spalle e infliggere loro gravi perdite. Questo
dovrebbe darvi un’idea di quale sia la posta in gioco. Entro queste mura, e
nell’arco dei prossimi giorni, si deciderà il destino della nostra patria. Il
destino di Eirinn. Il che significa che in questo stesso momento quel destino è
riposto unicamente in voi e nel vostro coraggio. So che quasi tutti vi siete
offerti volontari per questo incarico, e quindi sono più che sicuro che ognuno
di voi sia determinato a fare il proprio dovere fino alla morte. E sarei un
bugiardo se vi dicessi che in questo momento le nostre possibilità di
sopravvivenza sono alte. Di sicuro le notizie circa la benevolenza che il
comandante nemico riserva a coloro che si arrendono, o peggio ancora che
scelgono di unirsi a lui tradendo la propria patria siano giunte anche a voi.
Ma proprio perché mi fido di ognuno di voi so che non prenderete nemmeno in
considerazione questa possibilità. Noi combatteremo. Noi resisteremo.
Spenderemo fino all’ultima goccia di sangue se necessario. E se il destino
infine deciderà di chiamarci a sé, moriremo con la convinzione di aver fatto
fino all’ultimo il nostro dovere. Per Eirinn!»
«Per Eirinn!»
Almeno, pensò Abel
dinnanzi ai suoi uomini nuovamente motivati, avrebbe potuto contare su compagni
fidati e pronti a tutto.
Non intendeva
venire meno alla promessa che aveva fatto, ma avrebbe tenuto duro comunque fino
alla fine.
O almeno, questa
era la convinzione a cui lui e tutti gli altri cercavano di aggrapparsi, e che
venne messa a dura prova nel momento in cui l’esercito nemico fece infine la
sua comparsa all’orizzonte, propagandosi a macchia d’olio e avvolgendo in poco
tempo il forte in un abbraccio senza via di scampo.
Abel aveva
ordinato di issare la bandiera del Granducato in cima all’edificio principale
del forte cosicché tutti, amici e nemici, potessero vederla.
«Sono davvero
tanti.» disse Yvette, la sua vice nonché vecchia amica, osservando assieme a lui
dalle mura i nemici allestire l’accampamento.
La cosa più
spaventosa, naturalmente, erano i cannoni, che ad ogni battaglia sembravano
aumentare di numero, e che ora erano talmente tanti da occupare da soli
un’intera collinetta.
Sia Abel che
Yvette erano troppo giovani per poter aver preso parte alle dispute di confine
con l’Unione al fianco dell’Impero come i loro genitori, ma più in generale
prima d’ora non si era mai visto un qualsiasi esercito fare un uso così
massiccio dell’artiglieria, riuscendo oltretutto a migliorarla così tanto per
efficienza e praticità.
Si pensava che i
cannoni fossero troppo ingombranti, imprecisi e pericolosi per poter avere una
qualche utilità superando catapulte, trabucchi altre armi d’assedio, eppure
questo Daemon era riuscito in poco tempo a farne un’arma affidabile e temibile,
capace di decidere le sorti di una battaglia.
«Che ci provino
pure.» disse Abel tentando di ostentare sicurezza. «Pianta a stella, mura basse
e inclinate, fondamenta rinforzate. Useremo le migliorie che hanno apportato al
forte contro di loro.»
Dopo qualche ora
dall’arrivo del nemico un cavallo bianco uscì dall’accampamento e percorse al
trotto la terra di nessuno fin sotto le mura sventolando una bandiera bianca.
«Soldati di Eirinn!
Siamo qui per reclamare quello che appartiene al nostro popolo! Siete
completamente circondati! Ma non vogliamo spargere sangue innocente! Ammainate
la vostra bandiera, arrendetevi ora e vi do la mia parola che sarete trattati
con il massimo rispetto!»
«Voi siete qui per
invadere la nostra terra!» fu la pronta risposta di Abel. «E combatteremo fino
all’ultimo uomo per impedirvelo!»
«Non abbiamo
voluto noi questa guerra, né siamo stati noi ad iniziarla! Gli unici che dovete
biasimare solo gli stessi che vi hanno ordinato di restare qui a farvi uccidere
mentre loro si mettevano in salvo! Non è nostra intenzione reclamare quello che
non ci appartiene, ma proprio come voi siamo pronti a tutto pur di difendere la
nostra patria! Avete tempo fino a domani all’alba per arrendervi, altrimenti
attaccheremo!»
Quando di lì a breve il sole tramontò, la
vastità dell’esercito che cingeva d’assedio Grote Muren divenne ancor più evidente e minacciosa nella forma
di una vera e propria foresta di fuochi accesi tutto intorno al forte.
Oltre al campo
principale i ribelli avevano allestito anche un gran numero di piccoli
accampamenti e posti di guardia per chiudere ogni possibile via di fuga, e
forse era proprio per incutere timore che avevano deciso di accendere tutti
quei falò.
E come promesso,
al sorgere del sole, l’assalto ebbe inizio.
I cannoni ribelli
scatenarono contro il forte una pioggia di proiettili, che pur non riuscendo ad
apportare danni significativi alle spesse mura nuove di zecca furono il
preambolo all’arrivo della fanteria.
L’attacco arrivò
da varie direzioni e fu molto violento, ma chiunque avesse riprogettato e
ricostruito quel forte aveva fatto in modo che si potesse percorrere i
camminamenti sulle mura in modo veloce ed agevole.
In questo modo per
Abel fu facile concentrare i suoi uomini di volta in volta nei punti in cui
maggiormente serviva, mentre dalla apposite postazioni situate a distanze
regolari e ben protette da ulteriori barriere le catapulte e le altre armi
d’assedio scaricavano senza sosta palle infuocate e dardi contro gli
assalitori.
Ogni tanto il
giovane rivolgeva i propri occhi all’orizzonte, e ogni volta poteva scorgere in
lontananza una figura in sella ad un cavallo, appostata sul colle più alto e
circondata da un piccolo esercito di mostri grandi e grossi, che da distanza di
sicurezza osservava lo svolgersi della battaglia tramite uno strano tubo che
rifletteva i raggi di sole.
Il primo giorno
l’assalto venne respinto, e così il secondo.
Al terzo giorno
invece sembrò che il muro di cinta esterno dovesse cedere da un momento
all’altro sotto il peso incessante delle cannonate, ma alla fine seppur ad un
prezzo considerevole gli assediati ebbero nuovamente la meglio, e al calare del
sole erano ancora padroni dell’intera fortezza.
Ma anche quando le
armi tacevano e la notte si impadroniva della valle non c’era pace per Abel e i
suoi uomini, che oltre alla tensione dovevano sopportare anche il profumo a dir
poco invitante che proveniva dagli accampamenti nemici e che faceva contorcere
lo stomaco. Un modo pietoso ma anche parecchio subdolo per spingere qualcuno a
mettere in discussione la propria risolutezza.
Yvette, che poteva
sfilare ad un uomo la corazza senza che questi se ne accorgesse, si offrì di
andare a compiere un’esplorazione oltre le mura, nella speranza di reperire
informazioni e magari pianificare qualche sabotaggio.
«Potrebbe essere
molto pericoloso.»
«Pericoloso? Ti
ricordo che siamo chiusi dentro un forte, assediati da un intero esercito. E
comunque, chi tra noi due era il migliore quando da bambini giocavamo a
nascondino? Fidati, me la caverò.»
Anche se era il
suo superiore non c’era modo per Abel di vincere in un confronto dialettico con
Yvette, così alla fine le diede il permesso di andare.
Con il favore
delle tenebre la ragazza scivolò silenziosa come un gatto lungo la terra di
nessuno, e rubata un’uniforme riuscì ad intrufolarsi senza problemi nel
principale accampamento nemico.
Nell’aria c’erano
allegria e buonumore, tutti cantavano e mangiavano come se fossero stati nel
bel mezzo di una festa piuttosto che di un assedio.
Allora, pensò,
erano vere le voci secondo cui non esistevano distinzioni in base alla razza;
c’erano uomini e mostri che mangiavano e conversavano insieme attorno ai falò, ufficiali
mostri con subalterni umani e viceversa, e persino una giovane chierica che
impartiva benedizioni a chiunque le chiedesse, umani e mostri che fossero.
«Ehi tu!»
Quando sentì quel
vocione alle sue spalle per un attimo pensò di essere stata colta sul fatto.
«Parli con me?»
chiese alla persona che l’aveva chiamata, una ragazza a prima vista della sua
stessa età con lunghi capelli marroni, corna e coda di drago e la pelle
ambrata.
Non sapeva come si
chiamasse, ma Yvette ricordò di averla vista più volte durante le battaglie
tentare di aprirsi la strada verso il forte, incurante delle frecce che le
piovevano addosso.
Il satiro e la
piccola yeti che sedevano con lei non sembravano passarsela troppo bene,
tenendosi entrambi le pance gonfie e gemendo di dolore.
«Ci hanno appena
portato questo grosso cinghiale dalle cucine, ma a quanto pare questi due sono
già sazi, e io non penso di poterne mangiare un altro tutto da sola. Ti
andrebbe di farmi compagnia?»
«Ma, veramente
io…»
«Avanti, non fare
complimenti. Lo hanno persino farcito con le castagne.»
Temendo che un
rifiuto avrebbe potuto risultare sospetto Yvette alla fine accettò l’invito,
anche perché il pensiero di poter finalmente mangiare della carne dopo tanti
giorni non le dispiaceva per niente.
«Non ti ho mai
vista. Sei nuova?» le chiese la ragazza-drago tra un boccone e l’altro
«Io… sì. Mi sono
appena arruolata.»
«Ah, sei una
coscritta. E da dove vieni?»
«Da Basterwick.»
«Sapevo che mio
fratello… volevo dire, che il Comandante ha ordinato di arruolare quante più
persone possibili per questa spedizione. Ma se ha ordinato di arruolare anche persone
giovani come te significa che è determinato ad andare fino in fondo.»
«Dunque,
invaderemo davvero il Granducato?»
«Non ci hanno
lasciato scelta. Noi non abbiamo fatto del male a nessuno. Vogliamo solo vivere
in pace, essere liberi e padroni della nostra vita. E se per riuscirci dobbiamo
combattere, siamo pronti a farlo. Nessuno di noi vuole tornare ad essere uno
schiavo.»
«Sì, lo capisco.
Non ho mai condiviso la pratica della schiavitù, e trovo legittimo che gli
schiavi rivendichino il loro diritto alla libertà. Però, invadere un’altra
nazione…»
«Anche io avevo
qualche dubbio. Ma mio fratello dice che se non lo facciamo loro continueranno
ad essere una minaccia. Dobbiamo far capire a tutti quale sarà il prezzo da
pagare per chi ci attaccherà. Ma Daemon dice anche che è pronto a fermarsi in
qualunque momento se i nostri nemici smetteranno di minacciarci, quindi sta a
loro decidere se farlo o meno.»
«Però, se invadiamo
la loro terra è difficile che possano riconoscere le nostre rivendicazioni. Del
resto l’abbiamo appena visto, un’aggressione ne genera sempre un’altra.»
Al che la
ragazza-drago si grattò la testa sbuffando rumorosamente.
«Io non ci capisco
niente di queste cose. Ma tutti noi ci fidiamo di Daemon e del suo giudizio. Se
lui dice che facendo così avremo la pace, non abbiamo motivo per non credergli.
In fin dei conti, fino ad ora ci ha sempre guidati nel modo migliore.»
Un improvviso
schiamazzare spinse Yvette a girarsi, giusto in tempo per scorgere il passaggio
di un giovane dallo sguardo magnetico salutato a gran voce da tutti quelli che
incontrava, ai quali rispondeva con sorrisi e cenni del capo.
«È lui?» chiese
«Proprio lui. Il
mio fratellino.»
«Non ho mai visto
un generale muoversi con tanta disinvoltura tra i suoi uomini, per di più senza
una scorta. Non ha paura che possano esserci degli assassini?»
«Qui tutti daremmo
la vita per lui. Se qualcuno provasse a toccarlo non vivrebbe abbastanza a lungo
per pentirsene. E poi mio fratello sa difendersi benissimo anche da solo.»
Quando Daemon se
ne andò Yvette usò una scusa per allontanarsi a sua volta, seguendolo di
nascosto fino alla tenda di comando dove lo attendevano un vecchio soldato con
la benda, un uomo-cavallo, un leone, e un biondino dagli occhi di ghiaccio.
Provare a
sgattaiolare all’interno era fuori discussione, ma per sua fortuna il piantone
era così stanco che non si accorse di lei, permettendole di scivolare in una
zona buia e mettersi in ascolto.
«Si può sapere dov’è finito Septimus?
Sapeva di questa riunione.»
«Sta ancora
facendo il calcolo delle perdite.» rispose Richard «Finora la sua divisione è
quella che ha pagato il prezzo più alto.»
«D’accordo, allora
inizieremo senza di lui. Qual è la situazione?»
«Fino a questo
momento abbiamo avuto quasi duecento morti, e più del doppio dei feriti.» disse
Jack «Purtroppo come temevamo l’artiglieria non si sta rivelando di grande
aiuto, mentre di contro i nemici hanno imparato subito a servirsi dei sistemi
difensivi del forte.»
«Quale ironia.»
disse Adrian. «Ci siamo dannati tanto per rendere Grote
Muren imprendibile e ora la cosa ci si ritorce
contro.»
«È chiaro che
abbiamo sottovalutato la risolutezza del nemico.»
«Questa storia potrebbe
costarci parecchi uomini.» disse Oldrick. «Se li
prendiamo per fame prima o poi dovranno cedere.»
«Non sappiamo
quante scorte Lefde e Victor abbiano lasciato lì
dentro. Per quanto ne sappiamo potrebbero resistere per settimane. Mi spiace
dirlo, ma a questo punto un giorno guadagnato vale molto di più di qualche
centinaio di caduti.»
In quel momento
Septimus fece finalmente la sua comparsa.
«Era ora. Ti
stavamo aspettando.»
«Scusa il ritardo
Daemon, ma la situazione era più seria di quanto pensassi.»
La benda che gli
avvolgeva la testa rendeva evidente che tutte le intimazioni affinché evitasse
di mettersi eccessivamente in pericolo erano rimaste inascoltate, ma Daemon
ormai sembrava essersi rassegnato alla cosa e non disse nulla.
«Quanti caduti hai
avuto alla fine?»
«Centodue. E non
siamo riusciti a portare nemmeno un soldato in cima alle mura o l’ariete nei
pressi delle porte. Che novità ci sono riguardo a quelle nuove armi di cui ci
avevi parlato?»
«Dovrebbero
arrivare in serata, o al più tardi domani mattina.»
«A questo punto
forse conviene aspettare che siano qui.» disse Richard. «Se quello che ci hai
detto è vero dovrebbero essere in grado di chiudere la questione.»
«In realtà non
avrei voluto farne uso. Come vi ho accennato sono armi molto pericolose e distruttive.
Un loro utilizzo potrebbe nuocere alla nostra immagine, che deve essere il più
possibile immacolata se vogliamo che la popolazione di Eirinn non ci sia
ostile.»
«Se perdiamo
troppi uomini però potremmo essere comunque costretti a usarle in seguito.»
«Sono d’accordo
con Adrian.» disse Richard «A volte è necessario forzare la mano per ottenere
un risultato. Non dico di spazzarli via, ma forse fargli capire che non abbiamo
paura di usare le maniere forti potrebbe bastare a farli finalmente arrendere.»
Daemon camminò per
un po’ avanti e indietro, guardando ora la mappa ora i suoi consiglieri.
«D’accordo, faremo
così. Se il convoglio arriverà stanotte, domani useremo le nuove armi per
aprirci la strada fino alla conquista del muro esterno, quindi cesseremo
l’attacco. Se sono furbi a quel punto si arrenderanno piuttosto che restare
chiusi lì dentro a farsi massacrare.»
Un’improvvisa
esplosione, come non se n’erano mai sentite, interruppe la riunione, e la sua
onda d’urto fu così potente da far tremare la tenda. Usciti all’esterno, Daemon
e gli altri videro un’alta colonna di fiamme e fumo levarsi in lontananza, in
una zona separata del campo.
«Daemon!»
«Scalia! Che è
successo?»
«Uno dei depositi
di polvere da sparo è esploso. Stiamo cercando di contenere l’incendio.»
«Quanto è grave?»
«Ci sono almeno
tre morti e decine di feriti. Abbiamo anche perso alcuni cannoni.»
Tutti convennero
che non poteva essersi trattato di un incidente, visto che tutti sapevano
quanto fosse pericolosa la polvere da sparo e come fosse assolutamente proibito
tenere fuochi accesi nei pressi dei depositi.
«Siamo stati
sabotati.» disse Oldrick «Faccio subito perquisire il
campo.»
«Sarebbe inutile.
Se ne saranno sicuramente già andati. Per fortuna le nuove armi non erano ancora
arrivate. Ma aumentate la sorveglianza attorno agli altri depositi e agli altri
luoghi sensibili.»
«Sì, Daemon.»
«Sono tenaci,
bisogna dargliele atto. Ma domani gli faremo capire che il tempo dei giochi è
finito.»
«Ho sentito il botto fino a qui.» disse
Abel al ritorno dell’amica «Presumo che tu c’entri qualcosa, giusto?»
«Avrei voluto fare
di più, ma per poco non mi hanno scoperta. Temo che al massimo otterremo di
ridurre un po’ la potenza dei loro cannoni.»
«È già qualcosa.»
Yvette però non
sembrava contenta dei risultati raggiunti, e se ne restava appoggiata alla
parete a fissare il pavimento con aria pensierosa.
«Qualcosa non va?»
«Staremo davvero
facendo la cosa giusta?»
«Stiamo difendendo
la nostra patria da un’invasione. Che cosa c’è di più giusto e nobile di
questo?»
«Loro non ci
avrebbero attaccati se non lo avessimo fatto noi per primi. Il loro comandante
non sembra una cattiva persona. Finora ha sempre mostrato compassione per tutti
coloro che ha incontrato. Forse se avessimo cercato di parlare invece di
ricorrere subito alle armi…»
«Non sta a noi
prendere queste decisioni. Abbiamo dei governanti che si occupano di queste
cose. In quanto soldati noi siamo tenuti a eseguire i loro ordini.»
«Eppure gli
abitanti di questa provincia non hanno avuto dubbi quando hanno deciso che chi
li governava non era degno del ruolo che ricopriva. Ora che comandano loro, l’Eirinn
Occidentale sembra più prospera e felice che mai. Poi arriviamo noi e gli
diciamo che no, devono tornare ad essere ciò che erano prima. È giusto secondo
te?»
Al che Yvette
scostò una ciocca dei suoi lunghi capelli castani, rivelando le orecchie
leggermente appuntite e coperte da un sottile strato di morbida pelliccia.
«La mia trisavola
era una mezzosangue, e i miei antenati sono originari di Basterwick.
Se fossero rimasti qui quando questa provincia è stata ceduta all’Impero, forse
anch’io sarei stata una schiava. Posso davvero dire che se fosse stato così ora
non mi troverei in mezzo a loro?»
Anche Abel a quel
punto abbassò lo sguardo, dilaniato tra ciò che sentiva intimamente e ciò che
gli diceva il suo orgoglio di soldato.
«Solo altri due
giorni. Ho promesso al Generale che avremmo resistito per cinque giorni.
Dopodiché, se lui mi garantirà di non fare del male ai civili, ci arrenderemo.»
Yvette accolse la
notizia quasi con sollievo.
«Allora cerchiamo
di dare il meglio di noi stessi in questi ultimi due giorni.»
Il giorno dopo però l’attacco sembrò non
arrivare, nonostante il nemico avesse preso posizione come al solito a poca
distanza dal forte in assetto di guerra.
Abel, Yvette e
tutti gli altri difensori radunati sulle mura non sapevano cosa pensare, almeno
fino a quando non videro i ribelli portare in prima linea otto strani cannoni,
piccoli di dimensioni ma molto più grossi di quelli che usavano abitualmente.
Li portarono
vicino, molto più vicino di quanto non facessero di solito, -così tanto che con
giusto qualche metro in più sarebbero finiti nel raggio d’azione degli arcieri–
puntandoli non in direzione del forte ma verso l’alto.
«Non ho mai visto
niente del genere.» disse Abel
«Devono essere le
nuove armi di cui parlavano.»
Di sicuro i
proiettili dovevano essere molto più pesanti del normale, tanto da dover essere
portati e infilati all’interno da due soldati contemporaneamente per mezzo di
una catena provvista di tenaglia.
Quando furono
tutti caricati, una specie di asta di legno a forma di L con un peso al centro
venne messa all’interno di ciascun cannone da alcuni addetti che fecero dei
segni ai serventi perché alzassero ancora di più il tiro. Quindi, dopo che
ebbero finito, l’asta di legno fu rimossa e vennero accese due micce, una per
il cannone e una per il proiettile.
«Attenzione, si
preparano a sparare!»
Lo scoppio fu più
simile ad un fuoco d’artificio che ad una cannonata, producendo colonne
fiammeggianti che salite nel cielo ricaddero con una parabola sui ballatoi
delle mura.
Ma la cosa più
spaventosa fu che nel momento in cui toccarono il suolo i proiettili produssero
vere e proprie esplosioni, sparando in ogni direzione letali raffiche di
piccoli proiettili, fiamme e detriti che fecero decine di morti.
«Presto, mettetevi
tutti al riparo!» gridò Abel inviando tutti verso le casematte
Ben protette dallo
sbarramento dei propri cannoni le truppe ribelli avanzarono rapidamente in
direzione del forte portando scale, rampini e anche un ariete.
Il fuoco era così
intenso che gli assediati furono letteralmente intrappolati nei rifugi fino a
quando i cannoni non dovettero cessare il fuoco per evitare di colpire i propri
alleati; e a quel punto ormai i ribelli erano praticamente ai piedi delle mura.
«Respingiamoli!
Tutti in posizione, lanciate fino all’ultima freccia!»
Ma evidentemente i
ribelli avevano sottovalutato la forza di volontà dei loro nemici; la loro
resistenza fu brutale e all’ultimo sangue, senza cedere di un passo, con il
risultato che nonostante tutto gli attaccanti non riuscirono ad aprirsi la
strada, subendo nel corso della prima ondata un tale numero di perdite che il
loro assalto finì per perdere d’impeto.
Sembrava quasi che
Abel e i suoi potessero davvero farcela ancora una volta, almeno fino a quando
il giovane generale nemico, vedendo i suoi uomini ad un passo dalla rotta, non
decise di scendere in campo a sua volta per spronarli.
«Non arretrate!»
gridò correndo a prendere personalmente l’ariete «Continuate ad attaccare!
Ormai ci siamo quasi!»
Spronati dal suo
esempio e infervorati dall’incessante carica suonata dai trombettieri i ribelli
reagirono, ritrovando il coraggio e riprendendo l’assalto in maniera più coesa.
«L’ariete è qui
sotto! Presto sfonderanno la porta!»
«Non c’è altra
soluzione… ritirata, ritirata! Ripiegare nella cinta interna!»
I ribelli però
ormai erano indemoniati, e quando si capì che il portone non avrebbe resistito
a lungo la ritirata si tramutò in una fuga disperata verso la salvezza.
Abel e Yvette
cercavano di mantenere l’ordine, ma persino loro si fecero per un attimo
prendere dal panico quando i ribelli fecero infine irruzione da ogni dove
mentre l’evacuazione verso il forte interno era ancora in corso, perennemente
spronati dai loro capo che guidava l’assalto.
A quel punto,
Yvette fece la prima cosa che le venne in mente per demoralizzare il nemico.
«Dammi
quell’arma!» strillò strappando la balestra ad un compagno in fuga.
Prese la mira al
meglio che poteva e scoccò.
Neanche Ivanon, il leggendario arciere delle Guerre Sacre, avrebbe
saputo fare di meglio; il dardo colpì proprio al centro del petto trapassando
la corazza, e il comandante nemico cadde al suolo con gli occhi sbarrati senza
quasi accorgersi di cosa fosse successo.
«Il Generale
Septimus è stato ferito!»
A quel punto
c’erano solo due possibilità: o i suoi uomini andavano nel panico e fuggivano o
si scatenavano per vendicarlo.
Per fortuna di
Abel, Yvette e i loro uomini a verificarsi fu la prima opzione; i soldati
ribelli usarono il poco autocontrollo rimastogli per erigere un muro di scudi
attorno al loro comandante, e appena questi fu portato via iniziarono a ripiegare
fino a ritirarsi del tutto.
Questo tuttavia
non migliorò la situazione generale; la cinta esterna era ormai perduta, e con
le perdite subite nel corso di quell’attacco era impensabile sperare di poterla
riprendere.
Ma in realtà ciò
che toglieva ad Abel e Yvette ogni goccia di ottimismo era la sensazione di
aver appena fatto qualcosa di cui si sarebbero presto pentiti.
Quando Daemon entrò nella tenda-ospedale
aveva uno sguardo che nessuno ricordava di avergli mai visto addosso, e che
divenne se possibile ancor più fosco nel momento in cui raggiunse il giaciglio
di Septimus.
Il cerusico aveva
estratto la freccia e applicato i medicamenti, lasciando il posto a Sylvie e
alle sue arti magiche quando si era capito che la medicina convenzionale non
poteva fare altro.
«Come sta?»
«È stato molto
molto fortunato.» disse Oldrick «Se non fosse stato
per la corazza di ragno la freccia gli avrebbe trapassato il petto.»
«Lady Sylvie,
ditemi che se la caverà.»
«È presto per
dirlo, purtroppo. Il polmone è perforato, e suo cuore batte a malapena. Posso
solo infondere la mia magia dentro di lui mentre tento di curare la ferita, ma
dipenderà tutto dalla sua forza di volontà.»
In quel momento il
ragazzo aprì debolmente gli occhi, incrociando subito quelli del suo migliore
amico.
«Daemon…» disse
allungando la mano tremante verso di lui
«Sono qui,
Septimus. Non muoverti. Sei gravemente ferito.»
«Mi… mi dispiace.
Io… non ho resistito… ho fatto di nuovo di testa mia…»
«Te l’ho sempre
detto che sei un gran testardo. Ma è merito tuo se abbiamo preso il muro
esterno. Quindi ora riposa. La tua parte l’hai fatta. Ora lascia che ce ne
occupiamo noi.»
Septimus abbozzò
un sorriso prima che la stanchezza e soprattutto il dolore, insopportabile
malgrado gli anestetici, non lo facessero svenire.
«Oldrick.»
«Sì?»
«Convoca tutti.»
La notizia di quanto accaduto a Septimus
si sparse nel campo prima ancora che venisse convocata la riunione del
Consiglio di Guerra.
Le notizie erano
incontrollate e contraddittorie, anche perché l’accesso alla sua stanza era
proibito a chiunque; l’unica cosa che si sapeva era che fino a quando Lady
Valera fosse rimasta nella tenda voleva dire che Septimus era ancora vivo.
C’erano rabbia e
frustrazione e nell’aria, nonché un senso generale di rivalsa, e non solo perché
da sempre mirare deliberatamente ai comandati era considerata un’azione vile e
disonorevole: Septimus era un buon generale, un soldato valoroso, ma
soprattutto un compagno di bevute e un amico affidabile.
E tra tutti
nessuno sembrava più ansioso di dispensare la giusta vendetta per l’accaduto di
Daemon, che per la prima volta aveva negli occhi non la luce della guida, ma il
fuoco inesauribile della rabbia.
Eppure nessuno,
neanche chi lo conosceva meglio, avrebbe mai potuto immaginare cosa avesse
deciso di fare per mettere fine una volta per tutte all’assedio.
Dopo che ebbe
finito di parlare, sembrò quasi che un vento gelido avesse spazzato l’interno
della tenda congelando ogni cosa.
«E questo è tutto.
Mi auguro che sarete tutti d’accordo con me.»
Paradossalmente
era Scalia la più sconvolta di tutti: «Daemon, io… Io capisco perfettamente
come tu ti senta. Anche noi siamo arrabbiati e volgiamo vendicare Septimus. Ma
quello che tu proponi è… non trovo un’altra espressione, Daemon, è spietato.»
«Per una volta la
penso come lei.» disse Adrian.
«Chi commette
un’azione del genere deve essere pronto a pagarne le conseguenze.»
«Un conto è
esigere una doverosa vendetta, ma qualcuno potrebbe pensare che questo sia
troppo. E onestamente non me la sentirei di dargli torto.»
«Hai sempre agito
in modo assennato e basandoti sulla ragione, Daemon.» disse Jack. «Non smettere
adesso. In tutte le scelte ci vuole criterio, lo dici spesso.»
«Al diavolo il
criterio. A volte è necessario mandare dei segnali.»
«Septimus è anche
amico nostro.» disse Oldrick. «E anche noi vogliamo
che i nostri nemici paghino per quello che gli hanno fatto, però…»
Daemon si alzò
dalla sedia con tale violenza da far quasi ribaltare il tavolo.
«Non ho più
intenzione di perdere un singolo soldato in questa maledetta valle! Ho cercato
di essere ragionevole! Ho offerto loro in più occasioni una resa onorevole e
l’hanno rifiutata! Adesso basta!»
Qualcuno dei
presenti quasi non credette che quello fosse lo stesso Daemon che avevano
sempre conosciuto.
Difficile dire
perché a quel punto nessun’altro levò una parola di protesta, né tentò
ulteriormente di opporsi alla sua decisione.
Una cosa però era
certa; quella fu la prima volta in cui tutti, nessuno escluso, ebbero paura di
lui.
Quella notte, un messaggio rimbombò come
un tuono in tutta la valle, un messaggio che non lasciava spazio
all’interpretazione.
L’assalto finale
sarebbe cominciato alle sei in punto, e sarebbe andato avanti fino alla
completa obliterazione del nemico, o fino a quando la bandiera di Eirinn che
sventolava in cima al forte non fosse stata ammainata.
Inutile dire che
quella notte per gli assediati fu lunghissima e drammatica.
I soldati erano
divisi; qualcuno voleva arrendersi ritenendo di aver già fatto ben più di
quanto chiunque avrebbe potuto aspettarsi da loro, qualcun altro –la
maggioranza– voleva invece continuare a battersi.
Si discusse, ci si
accapigliò, si sfiorò la rissa; Yvette sapeva di essere la responsabile
dell’improvviso cambio di atteggiamento dei ribelli, ma la sua proposta di
offrirsi come vittima sacrificale per placare le ire del nemico in cambio di
una resa senza ulteriori spargimenti di sangue trovò l’opposizione di tutti.
In fin dei conti,
ci si diceva, aveva fatto l’unica cosa che si potesse fare per salvare la vita
dei suoi uomini, e non c’era onore che tenesse quando in ballo c’era la
sopravvivenza.
Alla fine si
decise di resistere fino a mezzanotte, fino alla scadenza del quinto giorno; a
quel punto ci si sarebbe potuti arrendere e uscire dal forte a testa alta,
sapendo di aver fatto fino all’ultimo il proprio dovere.
Si aspettavano un
attacco più violento del solito, sospinto dall’esasperazione e dalla voglia di
vendicarsi; ma mai si sarebbero potuti immaginare quello che il comandante
nemico aveva preparato per loro.
La mattina dopo la
valle era sovrastata da un cielo plumbeo che annunciava pioggia, e un insolito
vento freddo proveniente da nord rendeva l’aria umida e pesante.
I nuovi cannoni
erano stati avvicinati fin quasi a sfiorare le mura esterne del forte; alle
loro spalle l’intero esercito ribelle assisteva quasi in formazione da parata,
come spettatori in procinto di assistere al più spaventoso degli spettacoli.
Daemon, che per
tutta la notte non aveva chiuso occhio, camminava avanti e indietro davanti a
tutti, tenendo le braccia incrociate dietro la schiena e controllando
continuamente l’orologio.
Da Scalia a Oldrick a Jack, perfino Adrian sembravano sperare con tutto
loro stessi che quella bandiera venisse finalmente ammainata. Ma ciò non
accadde; e allo scoccare fatale della sesta ora, negli occhi di tutti apparve
il più cupo sconforto.
Ma non in quelli
di Daemon.
«Fuoco.»
C’è una sola
parola in grado di descrivere ciò che al suo comando iniziò a piovere sulla
testa dei soldati di Eirinn; l’inferno.
Fu come se i
cancelli di Belion si fossero aperti sopra Grote Muren facendo piovere su di
esso una valanga di metallo, fuoco, sangue… e morte.
Un’esplosione ne
seguiva un’altra, e poi un’altra ancora, ad un ritmo incessante e quasi
inconcepibile; i cannoni non sparavano all’unisono, e questo, oltre a rendere
impossibile prevedere l’arrivo delle granate, risultava in un continuo
susseguirsi di colpi.
Neanche i rifugi
sulle mura poterono resistere a lungo contro un simile bombardamento, quindi
l’unica cosa da fare fu ritirarsi all’interno del torrione centrale.
Ci si aspettava
che a quel punto i ribelli sfruttassero il momento per avanzare rapidamente,
prendere il controllo anche della cinta esterna e quindi lanciare l’assalto
finale.
Invece no.
Continuarono a
sparare.
Ancora, ancora, e
ancora.
Per minuti, ore.
Sembrava che avessero deciso di radere quel posto al suolo con tutto quello che
c’era dentro.
«Non c’è speranza!
– Arrendiamoci! – Se restiamo qui ci seppelliranno tutti! – Non voglio morire!»
«Non cedete,
soldati! Dobbiamo resistere! Pensate alla vostra patria! Pensate alle vostre
famiglie! Non possiamo permettere che questo succeda anche a loro!»
«Abel, attento!»
Abel non si
accorse di nulla fino a quando non si sentì spingere violentemente via, un
attimo prima di vedere la sua migliore amica scomparire dietro un’intera
porzione dell’edificio che crollando su di lei riempì ogni cosa di rumore,
polvere e detriti.
«Yvette!»
«Capitano, dateci
degli ordini! – Capitano! – Che state facendo? – È inutile Capitano, è morta! –
Che cosa facciamo? – Capitano, attenzione!»
Il torrione centrale del forte era
robusto, forse la parte meglio fortificata e più resistente dell’intera
struttura.
Ma le nuove armi,
i mortai come li aveva chiamati Daemon, erano così potenti e distruttivi che
bastarono pochi colpi perché iniziasse a crollare su sé stesso.
Secondo Daemon
danneggiare il muro di cinta interno o lo stesso torrione erano danni
collaterali facilmente riparabili, soprattutto visto che le mura esterne invece
erano rimaste sostanzialmente intatte.
Ciò non toglie
però che ben presto più di qualcuno iniziò a domandarsi se fosse davvero
necessaria tutta quella ferocia.
Sapi sembrava sul
punto di piangere.
Scalia era così
nervosa da non riuscire a stare ferma.
Oldrick, Jack e Richard
erano ammutoliti.
Adrian e Natuli osservavano la scena con invidiabile distacco.
Qualcuno pensava
che tutto ciò fosse sbagliato, qualcun altro che fosse inevitabile, qualcun
altro ancora che anche quello significava fare la guerra.
Ma nessuno
disobbedì.
L’ordine era
chiaro, e prima di ritirarsi nella sua tenda Daemon ci tenne a ribadirlo: far
tuonare i cannoni fino a quando la bandiera non fosse stata ammainata.
E così l’attacco
continuò.
Incessantemente.
Inesorabilmente.
Pian piano, molti
soldati iniziarono a tornare verso gli accampamenti, chi per noia, chi perché
semplicemente incapace di sostenere una cosa del genere.
Al tramonto ormai
erano rimasti solo i serventi e pochi irriducibili.
La bandiera era
ancora lì, ridotta ormai ad uno straccio bruciacchiato attaccato all’asta per
un solo angolo, ma sventolava ancora.
Un colpo centrò
quello che restava del tetto del torrione, e la vista di quel pezzo di tela
bianco e blu scaraventato in cielo dall’esplosione spinse qualcuno a ritenere
che quello era troppo.
«Daemon.» disse
Adrian scostando quasi con timore i lembi della tenda.
Lui non si voltò
neanche a guardarlo, restandosene incurvato sul tavolo a studiare le sue mappe.
«Che c’è?»
«Credo che così
possa bastare.»
Seguì un
lunghissimo silenzio, rotto dal rimbombare incessante dei cannoni.
«D’accordo. Basta
così. Entro domani voglio una stima dei danni. Se trovate dei superstiti,
curateli.»
«Sarà fatto. Ah, a
proposito.»
«Sì?»
«Septimus è fuori
pericolo. Ho parlato adesso con Lady Valera.»
«… Ho capito. Puoi
andare…»
Adrian fece in
tempo a fare giusto qualche passo perché da dentro la tenda iniziasse a
giungere un improvviso baccano, simile a quello di una rissa da taverna,
intervallato da singhiozzi e urla rabbiose.
Nota dell’Autore
Salve a tutti e
Buona Pasqua!
Lo so sono un po’
in ritardo rispetto alla mia solita ora, ma tra i preparativi per la festa e il
cambio dell’ora mi sono ritrovato con tante cose da fare.
Rimediamo subito.
Questo capitolo è
parecchio lungo, ma non volevo spezzarlo, anche per via degli eventi importanti
che accadono al suo interno e che avranno un impatto importante sul prosieguo
della storia.
I prossimi due
invece saranno una sorta di esperimento, che potrebbero essere il preludio a
qualcosa di nuovo, ma la decisione al riguardo sarà esclusivamente vostra.
Ma ne riparleremo.
Per il momento
godetevi questo.
A presto!^_^
Cj Spencer