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Autore: Ederaria    31/03/2024    6 recensioni
Questa è una raccolta di one shot (a carattere leggero/comico) spin-off della mia long precedente “Quattro stagioni”. Dunque sono immesse in quell’universo narrativo e sono rivolte solamente a chi quella storia l’ha seguita e apprezzata (e, banalmente: la conosce).
Genere: Comico, Fluff, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Aziraphale/Azraphel, Crowley
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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***Raccolta di one shot spin-off di Quattro stagioni***

 

La partita

ovvero

Di come una sconfitta fece vincere tutti

 

 

“Anthony, ma ti vuoi spicciare? Ti ho chiamato dieci minuti fa!”

“Cazzo sì, scusa Agatha”.

Crowley si alzò con uno scatto dal divano per raggiungere immediatamente la signora Fell, la quale, sporta dalla soglia della cucina, aveva dipinta sul volto un’espressione blandamente seccata.

Prima che il violinista abbandonasse il suocero – Algernon – ed Aziraphale alla loro ennesima partita a scacchi, Crowley scambiò uno sguardo divertito con quest’ultimo come a dire “fammi andare altrimenti mi divora vivo”.

Era passato un anno da quella proposta di matrimonio, eppure, la data effettiva della celebrazione non era stata ancora stabilita. Al di là di un superficiale disaccordo in merito dato che Crowley avrebbe preferito un giorno d’autunno o d’inverno scelto a caso, mentre Aziraphale desiderava cadesse proprio nell’anniversario di una delle loro importanti ricorrenze – non che le ricordasse a memoria tutte quante, capirai, ma aveva il suo fido alleato a rammentargliele alla bisogna: il diario –, tergiversare sembrava fosse una cosa che stava bene a entrambi. Invischiati nella loro nuova routine di vita di coppia, nutrivano un segretissimo e latente timore – taciuto all’altro – che se avessero ufficializzato la cosa contrattualizzandola avrebbero perso la spontaneità e la leggerezza (di cui erano enormemente gelosi) alla base della loro relazione. Dopotutto, la promessa di sposarsi era, nella loro mente, già di per sé un matrimonio; un pezzo di carta non avrebbe sicuramente cambiato in meglio le cose.

Era estate e, come avrebbero probabilmente fatto eternamente, si erano recati a Tadfield per le ferie. Non era solo l’impegno verso i signori Fell a muoverli ma, oramai, tutti e due nutrivano per quel paesino un innegabile affetto; infatti, nell’ultimo anno, non ci erano andati solamente ad agosto e dicembre, ma, appena avevano potuto, si erano ritagliati diversi weekend di fuga da quella Londra rumorosa e perennemente affaccendata. Quando si trattenevano per oltre una settimana continuavano ad affittare il Jasmine Cottage; quando gli saliva l’improvviso bisogno di scappare, invece, si facevano ospitare dai signori Fell, i quali li accoglievano sempre con strabordante gioia.

Crowley aveva legato tanto e immediatamente con entrambi i genitori di Aziraphale. Del resto, non si poteva non amarli e, per di più, quella parte di lui alla perenne ricerca di figure genitoriali che mai si era dissolta del tutto sembrava finalmente avesse trovato pace. C’era stato un primo momento in cui le distanze imposte dalla buona educazione – anche solo di carattere linguistico, come quel darsi del lei impersonale o il cercare di adoperare un lessico meno colorito di quanto non amasse riempirsi la bocca solitamente – avevano avuto la meglio; ma, ben presto, era stato caldamente invitato – da Agatha soprattutto – a rilassarsi e ad abbandonare tutte le inutili convenzioni. In quella casa, varcando l’uscio, sembrava fosse richiesto di lasciar fuori i costrutti sociali e i modi affettati e fasulli di rivolgersi gli uni verso gli altri; al contrario, si sbraitava, si scherzava in modo anche volgare, ci si prendeva in giro e si rideva. Si rideva moltissimo. Soprattutto Agatha e Crowley ridevano di Aziraphale ogni volta che l’imbarazzo lo assaliva quando parlavano di lui e lo schernivano bonariamente per quelle sue – per loro sicuramente anomale – rigidità. A quanto pareva, tali rigidità al libraio dovevano essere state inculcate in parte dal nonno paterno e, in parte, da quei romanzi ottocenteschi tutti moine e formalità con cui era cresciuto: c’era anzi da stupirsi, rifletteva Crowley, che non gli avesse mai dato del voi quando scopavano.

“Sono pronti?” chiese Crowley entrando in cucina.

“E sono pronti sì! Pure belli che freddati. Assaggia, via!” esclamò la signora Fell indicando una teglia satura di biscottini fatti in casa.

Il musicista allungò una mano e ne prese uno. Il contrasto tra il sapore dell’uvetta e del cioccolato fondente dilettò immediatamente le sue papille gustative; la croccantezza dei cornflakes era un piacere per la masticazione. Dopo qualche secondo, però, un nuovo aroma gli si piantò sulla lingua.

“Cos’è che sento? C’è qualcosa di strano…” chiese con le sopracciglia contratte in uno sforzo di concentrazione.

“Granelli di sale grosso”, rivelò la signora Fell con un sorrisetto compiaciuto stampato in faccia, “Ti piace?”

“Da morire!”

“Come lo sapevo! Allora me li approvi?”

“Approvo, approvo” concluse Crowley ingoiando l’ultimo boccone.

Agatha si voltò verso la credenza per prendere un barattolo piuttosto capiente in vetro e cominciò a riempirlo con i biscotti.

“Allora, come già abbiamo detto la torta la faremo fare da un pasticcere, la voglio bellissima!”, ricapitolò la donna tutta convinta mentre Crowley, sospirando, si metteva a sedere in una delle sue posizioni più scomposte, “E al rinfreschino ci pensiamo io e Nina, così risparmiate”.

“Ma è prematuro, Agatha. Quante volte te lo devo dire che ancora non abbiamo fissato nemmeno la data?”

“Embè? A parte che non mi voglio trovare impreparata; metti caso che vi svegliate domani, vi gira bene e mi dite che vi sposate tra un mese, io so già cosa devo preparare! Ché da voi una roba del genere me l’aspetto pure: siete tutti scemi, che ne posso sapere io?”, Crowley ridacchiò, “Spero solo che Azra non ti abbia attaccato la sua pesaculite, se no questo matrimonio lo celebriamo l’anno del poi e il mese del mai!”

“Ma no, ma no”, si affrettò a rassicurarla Crowley, “È solo che… Ah, che ne so!”

Agatha infilzò i suoi occhi indagatori in quelli di Crowley per un istante ma, prima di fargli qualsiasi domanda, richiuse il barattolo ormai colmo andando a sistemarlo sul ripiano accanto all’angolo cottura e ripose la teglia vuota dentro al forno. Si accomodò anche lei, intrecciò le mani sopra al tavolo e, finalmente, parlò.

“Anthony… Me lo diresti se ci aveste ripensato, vero?”

“Non ci abbiamo ripensato”.

“Va tutto bene tra di voi?”

“Sì”, assentì Crowley pacato, annuendo. Poi sembrò ripensarci, un dubbio gli adombrò lo sguardo; si voltò un attimo verso la porta della cucina che aveva dietro di sé per essere sicuro Aziraphale non spuntasse improvvisamente e, avvicinandosi al volto della donna, quasi in un sussurro, aggiunse: “Credo sia questo il problema…”

“Hai paura che se vi sposaste per davvero le cose potrebbero cambiare?” chiese Agatha con lo stesso flebile tono di voce.

Un ampio sorriso sghembo dei suoi si aprì sulle labbra di Crowley. Della signora Fell era soprattutto questo aspetto che adorava: non c’era quasi mai bisogno le si spiegasse per filo e per segno nulla. Era una donna estremamente ricettiva e acuta e sembrava le bastasse fiutare l’aria per cogliere gli umori e i sottintesi di chi le stava accanto.

Il violinista si limitò dunque ad annuire.

“Tesoro, ma è il timore di tutte le coppie che scelgono di fare questo passo. Di quelle non cretine, almeno”, aggiunse mettendo su un’espressione altezzosa, di chi è conscio di saperne molto più degli altri, “E poi è molto più logico che questa paura ce l’abbiano i giovani: voi siete vecchi, che accidenti vuoi che vi cambi?”.

Crowley scoppiò a ridere e Agatha a sua volta, scaldata da quel suono. Dal canto suo, quello che amava di quell’Anthony era il fatto non si offendesse mai, che poteva dirgli tutto quello che le passava per la testa e nell’esatto modo in cui le frasi, nei suoi pensieri, prendevano forma. E poi anche che la risata di lui, quando esplodeva, sembrava contenere una gioia tutta particolare; riverberava con una forza indomita, come fosse un’incredibile energia per troppo tempo trattenuta…

Agatha non sapeva tutto della storia di Crowley, ma giusto quel tanto che bastava per comprendere perfettamente che la sua felicità non era quella degli idioti, quella degli inconsapevoli, degli ottusi. Tutt’altro: era un sentimento nato in chi aveva visto in faccia il dolore, in chi aveva imparato a camminare sottobraccio alla morte. E non era evidente solo perché Aziraphale le aveva rivelato, a un certo punto, della madre e del fatto che fosse ‘stato male’ per lungo tempo, no. Erano le rughe del suo volto a raccontare una storia, i suoni che gli scappavano dalle labbra a rivendicare oscurità e leggerezza al contempo, ma, soprattutto, erano gli occhi ad urlare sentimenti compositi: intensi, profondi, tanto disillusi quanto costantemente curiosi e aperti ad accogliere la meraviglia che continuavano a cercare pur rinnegandola. D’altro canto, quando il figlio le aveva accennato del triste passato del violinista, delle penose sorti che a sua mamma erano toccate – che Dio l’avesse in gloria! –, in lei si era svegliato un fortissimo senso di protezione e un impellente bisogno di accoglierlo, adottarlo quasi. E non per sostituirsi alla memoria di qualcun altro o illudersi stupidamente di poter da sola risanare un debito con la vita intera; quanto piuttosto per provare a restituirgli qualcosa che, purtroppo, in quella contingenza in cui era stato gettato non aveva avuto modo di conoscere. Ed era successo che, pur non dicendosi apertamente che Crowley vedeva in Agatha una madre, e Agatha in lui un figlio, entrambi ne erano comunque perfettamente consapevoli.

“Intendevo, Anthony”, continuò la signora Fell, “che per la società il fatto che siate sposati sarà sempre e solo una pura formalità di carattere burocratico. Per voi, invece, sarà solo un’ulteriore dichiarazione dell’impegno reciproco che già avete preso da tre anni a questa parte. Per il resto tu continuerai con le tue faccende musicali, lui continuerà ad annegare tra i libri che gli sono sempre tanto piaciuti; continuerete a fare quello che vi va, insieme o per conto vostro, e a scappare da Londra per venire qui quando vi girerà di farlo. Te lo prometto, non perderete nulla di quello che avete costruito. E non perché è il matrimonio che porta al guadagno, tutte stronzate!”, mosse la mano per aria come a scacciare una mosca che non c’era, “Lo dico perché conosco mio figlio, lo dico perché credo di conoscere te; per come vi vedo insieme e per come so essere la vostra vita in città. Siete proprio tu e lui che non perderete nulla, non una coppia in generale che alla fine sceglie di sposarsi. Sono stata chiara?”

“Come al solito, Agatha. Grazie” disse Crowley con sincera riconoscenza.

La signora Fell allungò una mano e strinse quella del musicista come a rassicurarlo ulteriormente.

In quell’esatto momento, Aziraphale spuntò dalla porta della cucina lievemente corrucciato, accompagnato dal padre, il quale, dietro di lui, dava vigorose pacche sulla schiena del figlio sogghignando.

“Avete finito?” domandò la signora Fell.

“Già, la solita deprimente disfatta” disse Aziraphale chinandosi verso Crowley e dandogli un bacio sulla testa a mo’ di saluto. Gli si mise dietro, rimanendo in piedi, e gli posò le mani sulle spalle. Crowley poggiò la testa sul ventre del compagno, senza accennare a volersi alzare ma, comunque, ricercando un ulteriore contatto.

“Non te la prendere, Azra”, lo esortò Algernon mettendosi a sedere all’altro capo del tavolo, “Gli scacchi non sono esattamente nelle tue corde, questo ormai dovresti saperlo. Troppo poco strategico, ti concentri maniacalmente sulla singola mossa e perdi di vista completamente il quadro generale”, poi si rivolse a Crowley, “E tu, Anthony? Quando mi farai l’onore di concedermi una partita?”

Il violinista ammiccò, ma non rispose. Agatha, senza che nessuno se ne accorgesse, prese a fissare meditabonda Crowley.

“Papà, lascialo in pace una buona volta!”, esclamò Aziraphale, “Anzi, sai che ti dico? È ancora presto: me la dai la rivincita? Sono sicuro che questa sarà la volta buona!”, si chinò un poco verso il volto di Crowley, “Ti dispiace, caro? Se vuoi rientrare basta che me lo dici”.

“No, va bene. Vi vengo a guardare volentieri. È sempre uno spasso vederti annaspare mentre cerchi di non far uccidere le tue canne fumarie”.

Aziraphale e Algernon si guardarono interdetti.

“Le mie canne fumarie sarebbero gli alfieri, Crowley?”

“Sì”, rispose il musicista alzando le spalle, noncurante, “Mi diverte chiamarli così”.

“Bene, allora. Andiamo!” esortò rialzandosi il signor Fell, rinvigorito dalla proposta di una nuova sfida.

Anche Crowley fece per tirarsi su quando Agatha lo bloccò sostenendo che prima aveva un altro paio di cose da dirgli.

“Ve lo mando a breve, voi cominciate pure” rassicurò la donna spingendo gli altri due fuori dalla cucina.

Rimasti nuovamente soli, la signora Fell tornò a sedersi accanto al genero.

Crowley restò in silenzio aspettando la donna gli rivelasse cosa aveva in mente; supponeva fosse una sorta di prosecuzione del discorso che stavano facendo prima che Aziraphale e suo padre entrassero nella cucina.

“Non te lo ha insegnato mai nessuno, vero?” chiese Agatha con tono dolce e occhi buoni.

“A fare cosa?” domandò a sua volta Crowley, confuso e incuriosito.

“A giocare a scacchi” precisò la donna.

Il volto del musicista si rabbuiò un poco e un sorrisetto amaro gli increspò le labbra. Abbassò lo sguardo, imbarazzato, e scosse il capo in segno di diniego.

“Te lo insegno io”, affermò la donna sicura, rimboccandosi le maniche della camicetta in plateale segno di impegno, “Domani mattina mi accompagnerai in paese con la macchina, diremo ad Azra che abbiamo delle faccende da sbrigare solo io e te. Ho il luogo adatto. Ti assicuro che alla fine della settimana, prima che ripartiate, sfiderai Algie. E lo batterai”.

Crowley rialzò il volto, spalancò gli occhi, radioso verso la donna.

“Sai giocare?”

“Se so giocare?”, nuovamente Agatha mosse la mano per aria nell’intento di scacciare non la sopracitata (e assente) mosca, ma la stupidità di quella domanda, “Anthony, non solo so giocare, ma sono anche piuttosto brava. Sicuramente molto più di mio marito. Di Azra manco a dirlo ché quello è proprio incapace”.

“E perché non fai mai le partite con loro?”

La donna assunse un’espressione ancora più bonaria e tenera.

“Beh, mi piace che abbiano una cosa che sia solo loro. Li lega tanto, li ha sempre legati, e a me basta questo”, la signora Fell si interruppe un momento per tirare un sospiro trasognato, poi continuò, “Sai, Algie non è mai stato un amante dei libri. Mio suocero era disperato perché non sapeva a chi avrebbe alla fine lasciato quella dannata libreria. Quando Aziraphale si è fatto grandetto, invece, gli è sembrato la risposta a tutti i suoi problemi dato quanto da subito ha dimostrato interesse. Algie non me lo ha mai detto apertamente, ma io lo so che temeva che la libreria li avrebbe divisi come aveva diviso lui e il padre. Era chiaro come il sole che ci stava male, che era preoccupato. Poi, un giorno, gli ho proposto di insegnare al figlio a giocare a scacchi e, così, hanno trovato un nuovo terreno di scambio e dialogo. Azra non è bravo per niente, ma adora fare le cose col padre; e Algie credo a volte si annoi tanto è facile batterlo, ma, allo stesso tempo, adora fare le cose col figlio. Perciò è così. È la loro cosa e a me piace resti tale”.

A Crowley si scaldò il cuore sentendo quelle parole, quelle premure. Poi, un dubbio gli fece contrarre le sopracciglia.

“Ma non sarebbe meglio allora io non entrassi in questa dinamica? Non vorrei rompere i coglioni…”

“Tesoro”, Agatha, come aveva fatto solo poco prima, allungò una mano verso il musicista ma, invece di stringergli le dita, gli diede uno schiaffetto sulla guancia, “Era un discorso rivolto a me, al ruolo di madre, mica a te! E poi noi due siamo culo e camicia, se gli scacchi ti piaceranno potresti legare anche meglio con Algie; se ti chiede ogni tanto di giocare è solo perché smania per creare con te un rapporto che sia vostro, indipendente da me e dal figlio. Per quanto scemo possa sembrare, la scacchiera è il modo in cui comunica con gli altri, manco fosse una tavoletta ouija! Va bene?”

Crowley indossò la sua faccia-da-sfida con il consueto sorrisetto obliquo.

“A che ora ti passo a prendere domattina?” chiese.

“Presto, 8.30. E preparati: non sarò gentile” ammonì la donna.

“Non mi sarei aspettato altro da te”.

Si strinsero la mano per sugellare l’accordo.

 

***

 

Sempre estremamente puntuale, Crowley accostò dinanzi al vialetto d’ingresso del cottage dei Fell all’orario pattuito. Non ci fu bisogno né che telefonasse, né che andasse a bussare dato che Agatha lo stava aspettando in veranda. Scorgendo la Bentley del genero, quest’ultima si affrettò a raggiungerlo ed entrò nella vettura. Sulle gambe posò una grossa busta di plastica che gracchiò quando se la sistemò addosso.

“Dove dobbiamo andare?” chiese Crowley.

“In centro, parcheggia accanto alla piazzetta. Alla sala da tè, hai presente? Il localino di fianco alla panetteria”.

Crowley annuì e riaccese il motore.

“Ma non è chiusa a quest’ora?” domandò ancora il violinista partendo alla volta del cuore di Tadfield.

“Per gli altri lo è. Non per me. Senti: cosa gli hai detto ad Azra? Giusto per regolarmi, eh, mica per impicciarmi”.

“Che avevo da fare con te. Non è che mi abbia fatto grandi domande, se devo essere sincero” rispose indifferente Crowley.

Ed era vero. Aziraphale non era quel tipo di compagno che chiedeva maniacalmente o pretendeva di sapere ogni minimo spostamento dell’altro. Qualche quesito glielo poneva, sì, ma insisteva solo se era strettamente necessario, se qualche tipo di preoccupazione gli si avvinghiava addosso; per il resto, come era sempre stato, si accontentava di quello che liberamente Crowley sceglieva di condividere con lui. Ad Aziraphale piaceva conservare quella sorta di alone di mistero che aveva sempre connotato la sua relazione col violinista, cosicché la sera, quando rincasavano nell’appartamento di Mayfair, avevano modo di raccontarsi e, anche, stupirsi. Era proprio lo stupore l’aspetto che sembrava entrambi avessero a cuore proteggere. Per di più, anche Aziraphale trovava irresistibile quel rapporto così bello che tra Crowley ed Agatha era nato e lo avrebbe assecondato sopra ogni altra cosa al mondo.

Crowley, finalmente, aveva trovato la famiglia che, pur non sapendolo, aveva sempre cercato.

Ci vollero a malapena cinque minuti per arrivare in centro, con la macchina era veramente un attimo. E se era Crowley a guidare, anche meno.

Il musicista e la suocera scesero dall’automobile e si incamminarono verso la sala da tè. Nella piazzetta – demarcata da un muretto basso in pietra e un paio di panchine disposte ai lati opposti dell’area circolare – non c’era anima viva. Il paesino sembrava ancora addormentato e nell’aria riverberava solo lo scalpiccio del loro passo sulla ghiaia.

Giunsero dinanzi la vetrina del locale. La saracinesca era mezza abbassata e, dall’interno buio, non arrivava alcun segno di vita.

Crowley non disse nulla. Si ficcò le mani nelle tasche dei jeans e attese. Cosa non lo sapeva, ma attese.

Agatha diede qualche botta alla vetrata.

Nulla.

Lo fece di nuovo, con più vigore.

Silenzio.

Sbuffando rumorosamente, spazientita, infilò una mano nella busta ed estrasse il suo telefono cellulare.

“Guarda te se quella sta a dormire. Ah, ma se è così mi sente! Glielo avevo detto che venivamo! Mi fa aspettare qui fuori, mannaggia alla miseria. Proprio da maleducati!”

Crowley a stento trattenne una risata. Non era da maleducati che lei avesse obbligato un’ignota donna ad aprire il suo esercizio molte ore prima del dovuto per i suoi comodi, in un momento in cui il paese tutto era ancora bellamente assopito, ma era maleducato la si facesse attendere. 

Prima che Agatha riuscisse effettivamente a trovare la voce corretta nella sua rubrica, al di là della vetrata una luce si accese e la serranda, cigolando fastidiosamente, cominciò a salire.

“Era ora!” esclamò la donna rificcando nella busta il telefono.

Li accolse una signora sulla settantina scarsa che dire fosse eccentrica è poco. Aveva un caschetto di capelli arancione intenso pettinato in un’acconciatura anni Venti. Folte ciglia finte e nere le adombravano uno sguardo ammiccante da cerbiatta sperduta, e sbatteva le palpebre in modo innaturalmente lento, come se fosse stata educata ad ammaliare chiunque le stesse accanto. Indossava quella che Crowley credette essere una lunga vestaglia di raso blu sfumata di viola, con gli orli verde acido. Per il resto era un trionfo di perline, spille, collane, orecchini e bracciali. Sicuramente non stava dormendo – ammesso non passasse la notte tutta imbellettata e truccata, cosa su cui Crowley non si sentiva di poter scommettere.

“Tracy, maledetto sia il demonio”, proruppe Agatha entrando nel locale, “Ma quanto accidenti volevi farmi aspettare?”

La signora Tracy sorrise docilmente, non sembrava né infastidita, né imbarazzata, ma avvolta da una serenità quasi metafisica.

“Agatha cara, ero di là a prepararvi la stanza. Non ti ho sentito”, poi si rivolse a Crowley e lo guardò come fosse una grossa bistecca succulenta, “È lui il fidanzato di tuo figlio? Accipicchia com’è bello…”

“Ma che fidanzato e fidanzato!”, disse Agatha, “Mica hanno dodici anni! È il compagno. Anthony, lei è Tracy”.

Madame Tracy”, puntualizzò l’altra allungando una mano verso Crowley, ma non in modo tale lo invitasse a stringerla, quanto piuttosto a baciarla, mostrandogli il dorso e i grossi anelli di bigiotteria scadente dalle immense pietre colorate, “Enchanté”.

A Crowley sembrava di esser piombato sul set di una qualche sit-com surreale di cui non aveva letto la sceneggiatura. Non sapeva esattamente come muoversi tanto tutto era assurdo. Sicuramente non avrebbe mai poggiato le sue labbra sulla pelle di lei, e non lo avrebbe nemmeno mimato. Dunque, un po’ impacciato, le afferrò la mano e la strinse in maniera convenzionale.

Madame Tracy cinguettò una risatina acuta e melodiosa in riposta.

La proprietaria li accompagnò all’interno del locale. La sala principale era tanto spaziosa da riuscire ad ospitare una mezza dozzina buona di tavolinetti tondi in legno – coperti da tovagliette risicate in maglieria che altro non sembravano che centrini insolitamente grandi – e relative seggiole dagli schienali lavorati ed eleganti. Sul lato sinistro c’era il bancone e diversi espositori con infiniti barattoli contenenti pasticceria da tè. Le mura erano ricoperte da specchi con arabeschi floreali stampati sopra e, dal soffitto, calava pigramente un grande lampadario stile Tiffany con specchietti policromi. Era tutto… troppo. Se Crowley avesse dovuto mostrare a qualcuno il suo puntualissimo opposto nel gusto dell’arredamento lo avrebbe sicuramente portato lì. Ma lo pensò decisamente troppo presto.

Tracy li condusse nel fondo della sala, dove un arco a tutto sesto, dal quale scendeva una tendina a perline rosata, divideva l’ambiente principale da una saletta più piccola.

“Prego”, disse Tracy scostando le perline, in un tintinnio e in un fruscio lezioso tanto quanto lo era la padrona di casa, per dar modo ai suoi ospiti di passare, “Benvenuti nel mio privé” concluse con strabordante orgoglio.

Ecco, pensò Crowley varcando la soglia, sono all’inferno.

La stanza era piccola e quadrata. Sul pavimento, il parquet era stato coperto da una moquette damascata blu zaffiro con decori argentati. Tuttavia, l’arredatore doveva aver bevuto parecchio assenzio prima di montarla dato che si era fatto prendere la mano e vi aveva rivestito pure le pareti. A Crowley sembrò di essere all’interno di un tappeto. Nel ‘privé’ c’erano tre tavolini identici agli altri ma, al posto delle sedie, erano ammassate delle poltrone con tappezzeria sempre in damasco, ma azzurro intenso e oro. Su ogni tavolo c’era una lampada per favorire un’atmosfera più ‘intima’ – ancora in stile Tiffany, col paralume in vetro piombato colorato e il sostegno in ferro battuto. Erano accese tutte quante. Un ambiente sicuramente oppressivo e asfissiante.

“È meraviglioso, non è vero?”, chiese con aria stralunata Madame Tracy direttamente ad Anthony, “Ne vado così fiera… Ma non ci faccio entrare mica tutti qui”, schioccò la lingua sul palato tre volte muovendo l’indice per aria facendo segno di no, “È il luogo più esclusivo di Tadfield e bisogna meritarselo”.

Crowley non rispose. Si limitò ad annuire lentamente con gli occhi sgranati – fortunatamente coperti dalle lenti scure, in modo tale che la donna non potesse sentirsi offesa dallo scetticismo che il suo sguardo avrebbe altrimenti dardeggiato.

Agatha, intanto, aveva già preso posto sedendosi su una delle due poltrone che attorniavano il tavolino al centro della sala. Aveva tirato fuori dalla busta una grande scacchiera in legno – differente da quella che Crowley aveva imparato a conoscere e che, da tempi immemori, era fissa nel salotto del cottage dei Fell – e l’aveva posata sul ripiano, spostando la lampada sul bordo. Sul grembo, tra l’altro, aveva adagiata una rivista di cucina che non si era ben capito a che cosa le servisse.

“Anthony, spicciati. Vieni” lo invitò.

Crowley obbedì ed andò ad accomodarsi di fronte a lei.

“Vi preparo un tè? O, a quest’ora, preferite un caffè?”

“No, grazie. Adesso abbiamo da fare”, le rispose Agatha, poi di nuovo a Crowley, “E tu levati quegli occhiali ché se no non vedi un accidente”.

Il violinista, trovandosi costretto a convenire tra l’altro, fece come la suocera aveva comandato e se li appuntò sullo scollo della camicia intanto che Madame Tracy, non prima di aver accennato un inchino da étoile per nulla necessario, usciva dalla sala.

Senza perdere ulteriore tempo, Agatha aprì la scacchiera e cominciò a sfilare i pezzi dalle linguette che li tenevano fermi e ordinati al suo interno. Crowley la guardava interessato.

“Se mi dai una mano magari non ci mettiamo tre ore” puntualizzò lei.

Come riavendosi, il musicista allungò le dita e cominciò ad imitare la donna.

Una volta liberate tutte le pedine, Agatha richiuse il coperchio.

“Bene, prima che ti insegno a sistemarli, vuoi i neri o i bianchi?”

“I neri” rispose Crowley sicuro.

“Lo sai che aprono i bianchi, vero?”

“Credevo si decidesse di volta in volta chi avrebbe iniziato…” ammise Crowley stupito.

Agatha arrotolò il giornale e, con un movimento lesto, lo usò per dare una botta sulla testa di Crowley.

“Ma che cazzo!” esclamò lui esterrefatto portandosi una mano sul punto in cui la donna lo aveva colpito.

“Aprono sempre i bianchi, Anthony! Ed è un piccolo vantaggio per il giocatore, ché può decidere come attaccare l’altro”, lo informò solennemente, “È un gioco razzista e classista, mettitelo in testa immediatamente”.

“Va bene! Ma non credevo ci fosse bisogno di-”, venne interrotto da una nuova botta, stavolta sulla spalla, “Agatha, porca puttana, la pianti? Usa quel coso se sbaglio, non se non so le cose!”

“Fa silenzio. Io sono l’insegnate, io decido il metodo”, riponendo nuovamente la sua insospettabile arma sulle cosce, sorrise in modo angelico continuando come se nulla fosse, “I pedoni tutti uno accanto all’altro sulla fila davanti; dietro, da sinistra: torre, cavallo, alfiere; la regina va sistemata nella casa del suo colore e il re, quell’inutile idiota: accanto a lei; poi, speculare gli altri. Capito?”

“Sì”.

Come la signora Fell aveva sospettato, Crowley era molto portato per gli scacchi. Assorbiva le nozioni come una spugna; un minuto per immagazzinare come i pezzi si muovono solitamente, un altro paio per imparare le regole speciali – la promozione del pedone, la cattura en passant e l’arrocco. Inoltre, pure se era consapevole non fosse assolutamente necessario, aveva deciso di insegnargli a nominare le caselle con le lettere e i numeri e lui aveva appreso tutto.

Le aperture più importanti, invece, come anche le prime combinazioni tra i rivali, gliele elencava ogni volta che cominciavano una nuova partita.

Sì, Crowley si stava rivelando talentuoso, è vero, ma questo non lo aveva salvato dal giornale che, ogni venti minuti circa, trovava il modo (e la scusa) di schiantarsi sulla sua testa. Eppure, Agatha non era totalmente sadica: alternava bastone e carota, botte e complimenti.

Stettero diverse ore in quella saletta, tanto concentrati che Crowley si dimenticò dell’astio per l’arredamento e di quel senso di soffocamento che lo aveva assalito entrando nel privé.

Madame Tracy li andò a trovare una manciata di volte, per curiosare o per portar loro del caffè (che, seppure nessuno dei due aveva richiesto, non si erano risparmiati dal bere e goderne) e dei biscottini.

Arrivò l’ora del pranzo e la signora Fell ripose la scacchiera e la rivista nella busta.

“Tracy, devo usare il bagno un momento. Posso?” domandò Agatha una volta che riemersero nella sala principale.

“Certamente; va pure, cara”.

La signora Fell lasciò al musicista la sacca e si recò verso la toilette.

Crowley cominciò a guardare per aria pregando che Agatha si muovesse: non si sentiva molto a suo agio a restar da solo con Madame Tracy. Tanto più che riusciva a sentire quasi fisicamente gli occhi di lei che lo scrutavano e lo vivisezionavano, interessati.

“Signor Anthony, posso leggerle le carte una volta?” chiese improvvisamente la proprietaria della sala da tè col solito tono sospeso e sognante.

“Come scusi?”

“Le carte, i tarocchi… ha presente?” e mimò con le mani la mescolazione di un mazzo immaginario nonché il relativo gesto di disporle sul ripiano per voltarle progressivamente.

“Ehm… Io non… saprei…”

“È che lei…”, Madame Tracy si avvicinò al corpo dell’altro guardandolo intensamente da sotto in su, e girandogli attorno come se stesse ammirando qualcosa che agli altri sarebbe rimasto perennemente celato, “Lei ha un’aura…”, alzò le mani a mezz’aria e mosse le dita come se la stesse tastando, “…demoniaca” concluse con un sorriso meravigliato e curioso.

Crowley recuperò gli occhiali dalla camicia e se li rinfilò in fretta e furia.

Tirò un sospiro di sollievo quando vide la signora Fell ricomparire: la sua salvatrice.

Salutarono Madame Tracy ringraziandola per l’ospitalità – quest’ultima, dalla porta del locale, urlò “Signor Anthony, pensi alla mia proposta, eh!” – e risalirono in macchina.

“Che cosa blaterava quella?” domandò Agatha allacciandosi la cintura.

“Non ne ho la più pallida idea”.

 

***

 

“Un giorno me lo dirai che state combinando tu e mia madre, caro?” chiese Aziraphale richiudendo il libro e andando a posarlo sul plaid, accanto alle gambe.

Crowley ed Aziraphale se ne stavano in prossimità della riva del ruscello a godersi uno di quei loro pomeriggi protetti dalle fronde di Hogback Wood.

Il violinista era disteso supino di fianco all’altro, con le mani incrociate dietro la testa, a guardare per aria. Il libraio non poteva saperlo, ma il compagno era immerso nel ripasso quasi maniacale delle aperture – in particolar modo delle difese siciliana, francese e slava. Come se avesse dovuto sostenere di lì a breve un importante esame, tutti i pensieri di Crowley sembravano muoversi all’interno di una scacchiera, pure quelli che con quel gioco non c’entravano nulla.

Erano passati cinque giorni dall’inizio delle sue lezioni con Agatha e, ogni mattina, i due si erano recati nella sala da tè per ripassare e perfezionare tattiche, possibilità e pericoli. La signora Fell lo istruiva sulle strategie preferite dal marito in modo tale, quando fosse arrivato il momento, non si sarebbe trovato impreparato. Crowley si stupiva moltissimo di quella virata esistenziale: aveva passato cinquant’anni a camminare lungo i pentagrammi e, adesso invece, la sua strada aveva abbandonato linee rette e parallele disseminate di note e chiavi per farsi a quadrettoni alternati bianchi e neri. Non poteva credere a tutto l’impegno che all’apprendimento degli scacchi stava elargendo e, più di una volta, gli era sembrato talmente vicino a quello adoperato per lo studio del violino che aveva compreso solo in quel momento che non era l’oggetto a determinare la sua dedizione, ma era proprio una sua caratteristica genetica: se si metteva in testa di fare qualcosa, quel qualcosa andava fatto perfettamente.

“Non stiamo combinando niente, angelo”, rispose Crowley sbadigliando, “Sparliamo di te, per lo più”.

“Beh, dovete avere proprio molto di cui sparlare se vi tiene tanto indaffarati ogni mattina” commentò Aziraphale.

Crowley non rispose; si spostò e andò a poggiare la testa sulla coscia del compagno.

“Accarezzami” comandò il violinista.

Il libraio, sorridendo, portò le mani sulla testa di lui e prese a rigirarsi le ciocche amaranto tra le dita, aggrovigliandogli i capelli e massaggiandogli la cute.

“Non mi va di rientrare a Londra lunedì, che rottura di coglioni” e l’ultima parola si dissolse in un nuovo sbadiglio.

“Nemmeno io ne sono contento, Crowley. Torneremo qui quanto prima” lo rassicurò Aziraphale continuando a coccolarlo come se l’altro fosse improvvisamente diventato un gattino.

“È da un po’ che ci penso, ma se comprassimo un cottage da queste parti? Io mi occuperò del giardino e delle piante, tu dell’arredamento. Però ti prego, una cosa simile alla libreria posso anche sopportarla, ma non ti azzardare a propinarmi una roba tipo la sala da tè di Tracy perché ti giuro che ti mollo senza pensarci due volte”.

Rendendosi conto troppo tardi di aver detto più di quello che intendeva effettivamente rivelare, intontito dalla stanchezza e ubriaco di pensieri sugli scacchi com’era, Crowley si tirò su velocemente e piantò gli occhi in quelli di Aziraphale, all’erta, il quale lo guardava di rimando con un’espressione divertita e furbesca.

“È dunque da Madame Tracy che vi recate tutte le mattine…”

“Sì… Potrebbe essere vero” bofonchiò il musicista.

“Tranquillo, non ti chiederò oltre. Tanto sono sicuro prima o dopo ti tradirai nuovamente e, volente o nolente, me lo dirai” disse gongolante Aziraphale.

“Ma stai zitto” rispose Crowley tornando a stendersi sul libraio.

“Comunque sì, sarebbe invero meraviglioso possedere una casetta in campagna”, sostenne Aziraphale tornando a carezzare la testa dell’altro, “Domanderò a Madame Tracy di darmi il numero di telefono del suo interior disegner…”

Crowley alzò il braccio e pizzicò il fianco del libraio; tra le melodie del bosco, tra cinguettii, ronzii e il gorgoglio del torrente, riecheggiò anche la risata cristallina di Aziraphale.

 

***

 

E il giorno, alla fine, arrivò.

“Metti da parte le tue tetraggini, Anthony, e scegli i bianchi. Dammi retta una buona volta” lo aveva ammonito Agatha la mattina, al concludersi della loro ultima lezione segreta. Crowley aveva annuito immediatamente più perché temeva un nuovo attacco di Cooking & Recipes che non perché intendesse effettivamente darle retta.

Si era fatta sera e, dato che l’indomani sarebbero ripartiti alla volta di Londra, Aziraphale e Crowley erano stati invitati a cena dai signori Fell per salutarsi.

Mangiarono con gusto, ridendo e scherzando, al tavolo della cucina. Poi, per dessert, la signora Fell servì agli altri la sua celeberrima torta di mele. Sì perché, che Aziraphale e Crowley si trattenessero per una decina di giorni o per un fine settimana solamente, l’ultimo pasto condiviso sembrava ormai fosse tradizione che finisse con quel dolce.

Ancora seduti attorno alla tavola, con le pance piene, Crowley osservava il suo whiskey all’interno del bicchiere con aria contemplativa.

“Mi raccomando, tornate presto, eh” disse il signor Fell.

“Appena sarà possibile, papà, non ti preoccupare” rispose il figlio.

“Algernon”, Crowley alzò finalmente il volto, “Ti va di fare una partita a scacchi prima che andiamo via?”

Si sentiva pronto.

Il volto del suocero si accese immediatamente di una luce nuova, l’assopimento post-cena si diradò all’istante.

“Io e te?” domandò per essere sicuro non avesse capito male. Era tanto tempo che aspettava quel momento.

“Io e te, sì” confermò il musicista.

“Certamente. Andiamo”.

Tutti e quattro si recarono in salone.

Algernon prese posto alla sua poltrona accanto al camino, Crowley si sedette sul divano; a dividerli: il tavolino su cui stazionava perennemente la scacchiera, terreno di numerose battaglie di cui, il vecchio, si rivendicava vincitore indiscusso.

Aziraphale si accomodò accanto al compagno – tutto emozionato come se quella partita dovesse essere lui a giocarla –, mentre Agatha se ne restò in piedi, braccia conserte, alle spalle del marito con un’espressione insondabile dipinta sul volto.

Algernon afferrò un pedone nero e uno bianco e, portandoli dietro la schiena, se li rigirò tra le mani, quindi porse a Crowley i pugni chiusi per fargli estrarre casualmente il colore che gli sarebbe toccato.

“No, Algernon”, disse Crowley, “Non voglio scegliere. Se per te va bene, vorrei giocare con i neri”.

“Sei sicuro?” chiese stupito il signor Fell.

“Già, Anthony, sei proprio sicuro?” aggiunse Agatha, minacciosa.

“Sono sicuro” rispose semplicemente il violinista, con un sorrisetto irriverente a corredare la sua spavalderia.

“Come preferisci”.

Algernon rimise i pedoni al loro posto e, dato che entrambi gli sfidanti avevano già dal proprio lato lo schieramento corretto, iniziarono a giocare.

La strategia di Crowley era basata quasi tutta sull’apertura. Sapeva perfettamente che, nove volte su dieci, il suocero entrava in campo con il sistema di Londra per eludere tutte le linee taglienti del nero. E aveva rimuginato e rimuginato ancora a come avrebbe fatto per crearsi una breccia nella sua difesa.

Tuttavia, mandando per aria ogni previsione, il signor Fell non mosse il pedone in d4.

“Cavallo in f3” commentò Algernon come a voler fare la telecronaca di una partita che si prospettava già avvincente.

Porca puttana, pensò Crowley, una réti. Maledetto…

Agatha, che sembrava sconcertata tanto quanto l’allievo, gli scoccò uno sguardo in parte di biasimo – ma era mai possibile peccare tanto di presunzione alla sua prima partita? – e, in parte, di incoraggiamento. Per un momento rifletté se andare o meno a recuperare la sua rivista in modo tale da poterlo colpire più e più volte per quella decisione scellerata di incaponirsi con i neri, ma poi, fortunatamente, il buon senso ebbe la meglio e non si mosse.

L’unico modo in cui Crowley si sentì di replicare, senza permettere allo stupore di sovrastarlo e obnubilare il suo raziocino, fu quello speculare di posizionare il suo cavallo in f6.

E fu la volta dei bianchi, pedone in c4 per il controllo delle case centrali.

E di nuovo dei neri, pedone in g6 per liberare l’alfiere (o, come continuava a pensarlo Crowley dato che lo faceva stupidamente ridere tra sé e sé, la canna fumaria).

Il botta e risposta, facendo costantemente lo slalom tra la difesa e l’attacco, durò per un tempo indeterminabile. Un silenzio denso avvolgeva sia la concentrazione dei giocatori, sia il tifo muto dei due spettatori.

La prima vittima della battaglia fu il pedone bianco in c4; tuttavia non fu una vittoria per Crowley, in quanto, invece di posizionare un altro pezzo a salvaguardia della zona centrale mantenendosi cauto, si era lasciato ingannare dalla possibilità di mangiare. Essendo quella casa protetta da altri tre pezzi che non avrebbero potuto essere attaccati a meno di non lanciarsi come un kamikaze in una mattanza senza speranza alcuna di uscirne più in là, anche il pedone nero di Crowley fece la stessa fine del rivale venendo brutalmente assassinato dalla regina bianca.

Agatha sbuffò rumorosamente e, come mai prima di quel momento, sentì il bisogno del suo giornaletto punitore. Anthony era stato scemo, Algernon tiranneggiava sulle case di mezzo governandole in modo plateale. Ripensò a quello che aveva detto al genero una settimana prima, quando, convintissima, gli aveva assicurato avrebbe vinto. Mossa dopo mossa, invece, nonostante il violinista si stesse facendo valere, non si sentiva più di metterci la mano sul fuoco.

Fortunatamente, poco dopo, anche Algernon commise la sua prima leggerezza spostando per due volte lo stesso alfiere.

Cavallo nero in a4.

Regina bianca in a3.

Crowley, guidato da un nuovo disegno che si andava delineando nella sua mente iperattiva, si prese il cavallo bianco con il suo in c3, sacrificandolo subito dopo in quanto il signor Fell lo catturò col pedone.

Il violinista alzò il viso su quello di Agatha, la quale lo guardava esasperata e contrariata, come a volerla rassicurare: i suoi occhi parlavano al posto della sua voce e le diceva “non ti incazzare, so cosa sto facendo”. E non mentiva: stava mettendo Algernon in condizione di arroccare, era innegabile, ma era troppo tardi. I pezzi che Crowley sembrava progressivamente esser disposto a sacrificare, in verità, rispondevano a delle esigenze molto pratiche e potenzialmente vincenti che il suocero riconosceva non abboccandovi, e che Aziraphale, invece, non riusciva minimamente a decifrare – tanto che, a un certo punto, credeva che suo padre si fosse rincretinito e che il musicista fosse ubriaco.

Agatha, invece, sorrideva soddisfatta sotto ai baffi: cominciava a vedere.

Alfiere nero in e6: la mossa della partita.

Crowley lasciò la sua regina in presa per poter poi scaraventare un attacco spietato con i pezzi minori rimasti. Un minuto di silenzio per piangere le sorti della donna nera e il suo proposito trovò compimento nell’azione successiva quando, con l’alfiere, diede il primo scacco al re bianco. Seguirono una serie di mosse vorticose in cui il cavallo nero – di cui Crowley si sentiva il valoroso cavaliere dalla scura e scintillante armatura – si prese, casa dopo casa, zone di dominio e rivali.

Nonostante Algernon avesse fatto di tutto per uscire da una situazione in cui stava lentamente annegando, l’ultima dozzina di spostamenti furono una disperata quanto inutile fuga del re bianco fino al definitivo matto che Crowley eseguì attorniandolo col suo fido destriero, una torre e un alfiere.

“Scacco matto” disse Crowley posizionando la sua torre in c2.

Il signor Fell, tutto serio, poggiò la mano sul suo povero despota e lo lasciò rovinare su un fianco. Rotolò sulla scacchiera per qualche centimetro e andò a cadere sul pavimento – nient’altro che un cadavere che non avrebbe ricevuto degna sepoltura.

Calò un silenzio colmo di attese e titubanze; Aziraphale, che mai aveva visto il padre perdere, trattenendo il fiato, si chiese come avrebbe reagito. Agatha aveva un’aria compiaciuta e orgogliosa e Crowley mal celava la sua soddisfazione. La quiete venne interrotta da una fragorosa risata che esplose dalle labbra baffute di Algernon, alleggerendo immediatamente l’atmosfera.

Si alzò invogliando sia il figlio, sia il musicista a far lo stesso e, pieno di ammirazione, prese la mano di quest’ultimo per stringerla e complimentarsi.

“Non c’è che dire, figliolo: sai assolutamente il fatto tuo!”, esclamò sull’orlo dell’euforia, “Finalmente un rivale degno di essere chiamato tale!”

“Ti ringrazio, eh…” commentò Aziraphale decisamente più divertito che offeso.

“Giocheremo di nuovo quando tornerete?” domandò il signor Fell speranzoso a Crowley.

“Assolutamente. Potremmo anche fare dei mini tornei e mettere premi in palio” propose il violinista.

“Oh sì, che bello!”

Commentarono ancora per qualche minuto la mirabolante partita appena conclusa.

“Chi ti ha insegnato a giocare tanto bene?” chiese Aziraphale a Crowley mentre si dirigevano verso la porta di casa per andar via.

“Ho avuto una grande maestra; rigida e rompicoglioni sicuramente, anche inutilmente violenta, ma intelligente che non hai idea…” rispose il violinista guardando Agatha.

Lei, con un’espressione che sembrava zampillare fierezza da tutti i pori, gli fece l’occhiolino.

Come al solito, Algernon non si rese conto di nulla, ma Aziraphale non mancò di notarlo: improvvisamente il mistero dei ricorrenti appuntamenti tra Crowley e la madre gli fu disvelato. A stento trattenne la commozione e scelse di non dire nulla.

“Fate buon viaggio e chiamate appena arrivate a Londra, non fateci stare in pensiero, mi raccomando!” disse la signora Fell sulla soglia.

La donna diede un bacio al figlio mentre il violinista stringeva nuovamente la mano del signor Fell per salutarlo; poi, le coppie vennero invertite. Agatha e Crowley si guardarono per qualche secondo, senza dire nulla, ma con un’intesa tale capace di non far rimpiangere qualsiasi frase di commiato o gratitudine. O di affetto. Dopo, lui si mosse e l’abbracciò forte.

Entrati nella Bentley che li attendeva docilmente parcheggiata nel vialetto, Crowley accese il motore e Aziraphale si allacciò la cintura.

“Insomma, angelo, 23 marzo, 18 agosto o 22 maggio?” chiese il musicista prendendo la strada che li avrebbe riportati al Jasmine Cottage per l’ultima notte di quella vacanza.

“Perdonami?”

“La data del matrimonio, Aziraphale, e svegliati! Vuoi il giorno in cui ci siamo conosciuti, il giorno in cui è iniziata o il giorno in cui ti ho riconquistato grazie alla mia ineguagliabile interpretazione del violin concerto?”

Aziraphale dapprima spalancò gli occhi e poi, lentamente, sul suo volto si aprì uno dei suoi sorrisi più raggianti.

“Ma non avevi detto di preferire l’autunno o l’inverno…?”

“Veramente non me ne frega un cazzo. Mi frega solo che ci sposiamo per davvero”.

“Ventidue maggio”.

“E ventidue maggio sia, allora”.

____________

N.d.A.

Caro Lettore,

ben ritrovato. Come è esplicitato nella descrizione (ma, si sa, repetita iuvant), questa sarà una raccolta di one shot spin-off di Quattro stagioni. Seppure l’arco narrativo principale sia assolutamente concluso, mi piaceva aggiungere una manciata di slice of life che mi frullavano nella testa mentre ancora stavo scrivendo la storia. Non so quanti episodi saranno e non so quando verranno pubblicati. Se ti fa piacere, se ti interessa, ogni tanto controlla (a tal proposito, accetto prompt ma non assicuro di seguirli :D).

Ci tenevo a precisare una cosa: la partita a scacchi tra il signor Fell e Crowley è stata giocata per davvero; mi riferisco a Byrne contro l’allora appena tredicenne Fischer nel 1956, i quali disputarono quella che poi venne definita “la partita del secolo”, in cui il ragazzino ebbe la meglio. Da brava megalomane, dunque, ti informo che non ne ho scelta proprio una a caso…

Per il resto, come al solito, ti ringrazio per avermi letta.

Un caro saluto e alla prossima,

Ederaria 

   
 
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