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Autore: Bluesuiren    02/04/2024    0 recensioni
[Merry Christmas Mr Lawrence]
[Merry Christmas Mr Lawrence, 1983]
“Lawrence, tu resta qui.”
John Lawrence vide la speranza di poter riposare nel suo giaciglio andare in frantumi. Hara quella notte, in preda ai fumi dell’alcool, aveva deciso di scagionare lui e Celliers dalle loro celle d’isolamento e, cosa più importante, assolverli dalla loro condanna a morte come regalo di Natale, un gesto degno di Babbo Natale o, come diceva Hara con il suo inglese stentato, Father of Christmas.
Genere: Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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“Lawrence, tu resta qui.”
John Lawrence vide la speranza di poter riposare nel suo giaciglio andare in frantumi. Hara quella notte, in preda ai fumi dell’alcool, aveva deciso di scagionare lui e Celliers dalle loro celle d’isolamento e, cosa più importante, assolverli dalla loro condanna a morte come regalo di Natale, un gesto degno di Babbo Natale o, come diceva Hara con il suo inglese stentato, Father of Christmas.
Celliers e Hucksley lo lasciarono e una delle guardie lo spinse con un gesto brusco all’interno della stanza, lui si voltò un’ultima volta verso Jack Celliers che gli rispose con uno sguardo stremato mentre veniva portato via. Non si chiese neanche per quale motivo il sergente lo volesse lì con lui, il primo era visibilmente troppo brillo per formulare delle risposte sensate.
Lawrence e Hara rimasero soli, il primo andò a sedersi stancamente su una delle panche presenti nella stanza, davanti alla cattedra dove Hara stava rifocillandosi con della frutta e tanto, troppo sakè. Quest’ultimo stava sbucciando una mela canticchiando fra se e se a bocca chiusa una versione fantasiosa di jingle bells con uno strano sorriso fra le labbra che Lawrence gli aveva visto in diverse occasioni, spesso e volentieri mentre umiliava i prigionieri, sorriso che non intimoriva più l’inglese che era abituato a contrattare con Hara praticamente tutti i giorni. Il giapponese alzò lo sguardo vivace su di lui e gli porse la mela, John avrebbe tanto voluto rifiutare ma non mangiava da un po’ e si ritrovò ad accettare, affamato, quell’offerta a cui diede subito un grosso morso, avrebbe gradito volentieri anche una o due tazze di sakè ma il sergente non sembrava disposto a condividere quella che era probabilmente la sua scorta personale.
“Avevi fame vedo, Lawrence.” osservò allegramente Hara il cui tono di voce, nasale già di suo, era compromesso dal bere, John si ritrovò a chiedersi con ironia come sarebbe stato ulteriormente più buffo il suo inglese in quella situazione, ma non diede adito a quel suo pensiero e terminò la mela.
“Provengo da un digiuno punitivo, l’ultima cosa che ho mangiato è stata una misera torta manju, questo mi sembra uno spuntino da re.” Si lasciò sfuggire pulendosi le dita sui pantaloni, per quanto Hara fosse uno suscettibile alle provocazioni, Lawrence ormai non aveva più timore di fare certi sottili commenti, anche a costo di prenderle dal sergente, ma quest’ultimo sembrò non aver neanche sentito, si alzò e si avvicinò lentamente a lui, John lo seguiva rapito con lo sguardo, chiedendosi quali intenzioni avesse. Hara gli arrivò abbastanza vicino da protendere una mano per abbassargli le maniche della camicia ormai logora, rivelando i suoi polsi ancora arrossati e doloranti dal castigo a cui era stato sottoposto due giorni prima, quando lui e Jack Celliers erano stati accusati di aver introdotto una radio di contrabbando, ritrovata nelle stanze dei prigionieri, ad aggravar la situazione l’aver osato permettere la commemorazione funebre di quel povero diavolo di Karl de Jong, prigioniero olandese morto da poco, e il fatto che Celliers stesse distribuendo torte manju per placare la fame data dal digiuno. Si era ritrovato legato per i polsi tutta la notte, con solo il sonno a risparmiargli a fasi alterne il dolore, fin quando non era stato salvato proprio da un Jack in vena di fuga. Come se tutti quegli avvenimenti non fossero stati già abbastanza, e abbastanza non fossero già state le botte che aveva preso dalle guardie, Yonoi quella mattina aveva confermato la condanna a morte per lui e per Jack per la questione della radio, fino a quel momento almeno, grazie ad Hara che aveva ritrovato un po' di coscienza.
Hara osservava la ferita con i suoi piccoli occhi vitrei, non sorrideva più come prima:
“Deve fare molto male.”
Sembrava che l’avesse trattenuto con lui solo per fare supposizioni sulla sua persona, John si ritrovò comunque ad annuire:
“Si, fa ancora male.”
“Non hanno mandato nessuno per medicarti?”
Lawrence scosse la testa: “perché mai dovrebbero curare un condannato a morte?” chiese sarcasticamente.
Hara si diresse di nuovo verso la cattedra e rovistò in un cassetto, tornò da lui con delle bende e con un unguento, trascinò con sé la sedia e si sedette di fronte all’inglese, infine gli porse silenziosamente la mano, John si sentì turbato da quell’ esplosione di gentilezza da parte del giapponese:
“Non c’è bisogno che se ne occupi lei, sergente…”
“Vuoi che ti passi il dolore o no?” gli chiese seccato il sergente guardandolo negli occhi e, solo Dio sa per quale motivo, a Lawrence tornarono in mente le parole di Jack quando vide Hara per la prima volta: Che faccia buffa, ma ha dei begli occhi. L’ isolamento giocava brutti scherzi alla testa.
Alla fine si arrese e protese i polsi che Hara afferrò senza molta cura, tanto che John digrignò i denti per il dolore, il giapponese cominciò a tamponargli la ferita con l’unguento fresco che fu un’iniziale sollievo, e lo fece stavolta con una sorprendente delicatezza.
“Pensa un po', a Celliers un tappeto persiano per dormire, e al nostro Lawrence neanche una medicazione…” riflettè ad alta voce Hara, gli occhi rivolti verso il lavoro che stava svolgendo, John preferì rimanere in silenzio sulla palese predilezione che il capitano Yonoi aveva per Jack, quel giovane era invaghito di Celliers e nell’accampamento lo avevano compreso tutti, anche Jack stesso.
“Perché ci ha liberati?” chiese a bruciapelo, “Non può essere solo per lo spirito natalizio, o sbaglio?”
Hara non fermò il lavoro nè alzò lo sguardo: “Ho scoperto chi ha portato la radio nell’accampamento, un prigioniero cinese ha confessato, l’ho messo al fresco e domani riferirò tutto al capitano.” Spiegò, Lawrence avrebbe dovuto pensare che fosse accaduto qualcosa di molto simile ad un miracolo quella notte, ma non riusciva a gioire della cosa, data la scontata morte del vero responsabile l’indomani.
Hara avvolse il polso destro nelle bende, sempre con tutta l’accortezza di cui era capace, e passò a quello sinistro, ricominciano lo stesso processo, intorno a loro regnava un religioso silenzio, rotto flebilmente dai rumori bianchi della medicazione, Lawrence cominciò a realizzare come fosse la prima volta che lui e Hara erano così vicini fisicamente senza intenti punitivi, le robuste gambe di Hara racchiudevano le sue e sentiva il suo respiro pesante riversarsi sulla sua pelle, tutto ciò gli dava i brividi e sentimenti contrastanti, la fisicità non mancava in quella base, soprattutto tra i prigionieri, ma erano sempre contatti ruvidi, camerateschi, quel momento lì a Lawrence ricordava invece con inquietudine ciò che era successo giorni prima allo sventurato olandese, beccato con l’altrettanto sfortunato Kanemoto, una guardia coreana. L’inglese ricordò con una morsa allo stomaco quel giovane, tremante, che gli raccontava ciò che era successo la notte prima sotto lo sguardo sprezzante dei giapponesi:
E’ venuto da me per tre notti per medicarmi la ferita, era molto gentile…” aveva balbettato il ragazzo, “ma poi, ieri sera…” e si era interrotto, sopraffatto dalla vergogna e dalle lacrime, de Jong e Kanemoto erano entrambi morti suicidi, al cospetto di buona parte degli abitanti di quel purgatorio sulla terra.
John ebbe un moto di repulsione e inconsciamente tirò via il braccio sinistro ancora nelle mani di Hara, quest’ultimo lo guardò confuso, per poi riprenderselo con un gesto irritato, era molto più forte di Lawrence e lo fece senza alcuno sforzo.
“Che cosa ti prende?” sbottò il giapponese, fissando definitivamente la benda “ti piace soffrire?” poi osservò meglio l’espressione colma di disagio di John e riformulò la domanda; “Ti ho fatto male?” chiese modulando il tono, l’inglese scosse la testa rapidamente, quella domanda invece di sollevarlo lo inquietò ancora di più, ad Hara non era mai fregato niente della sofferenza dei prigionieri:
“N- no gli e l’ho detto, non c’è bisogno che se ne occupi lei…” tentò di uscirsene ma Hara lo interruppe:
“Non mi interessa, ci servi di nuovo in forze.”
Finalmente lo lasciò andare e si alzò per riporre l’armamentario di nuovo nel cassetto, per Lawrence fu una sensazione di sollievo quasi maggiore all’unguento sulle ferite, Hara si versò l’ennesima tazza di sakè e la buttò giù in un fiato, Lawrence approfittò di quel momento di distrazione per svignarsela:
“Bene sergente, io torno al mio posto se non le dispiace…”
“Io non ti ho congedato, Lawrence.” rispose Hara, lo fissò di nuovo e all’inglese non parve più così ubriaco, la sua voce era tornata alta e ruvida, quella che terrorizzava tutti quelli che erano di grado inferiore a lui.
“Oh sergente, maledizione! Che cosa vuole da me?” esplose John per l’esasperazione, sentiva che il suo corpo non avrebbe retto a lungo, gli occhi di Hara parvero infiammarsi:
“E’ questa la riconoscenza per averti curato?” riposò la tazza di ceramica con una forza tale sulla cattedra che fu un miracolo se non si ruppe, John ebbe un sussulto, “Lo sai che la cura dei prigionieri è un compito da schiavi? Come quel Kanemoto …” stava ricordando anche lui la vicenda dei due amanti, John prese un grande respiro, tale che sentì un dolore al petto:
“Io la ringrazio per avermi liberato e per il tempo che ha speso per me, davvero…” e sentì di aver pronunciato quelle parole in parte con sincerità, “ma adesso ciò che desidero di più e poter riposare in un letto, e no sulla terra battuta…” frase che gli era uscita troppo romantica, osservò subito dopo, i letti dei prigionieri erano tra le cose più scomode al mondo, forse era meglio la seconda opzione.
Il giapponese continuò a fissarlo, per John era come avere due pistole puntate perennemente contro:
“Va bene, ti accompagno.” Sentenziò alla fine.
“Posso andare da solo, è così vicino…”
Hara per tutta risposta produsse un risolino:
“Così provi di nuovo a scappare?” gli chiese, Lawrence per poco non ebbe un mancamento;
“No! Non ho mai avuto intenzione di scappare!” sbottò, per un momento si ritrovò a maledire Celliers per averlo liberato, Hara si avvicinò di nuovo a lui, alzò una mano e le sue dita si arrampicarono lungo il collo di Lawrence, erano così fredde che quest’ultimo rabbrividì, indietreggiò fino a ritrovarsi a spalle al muro, non aveva idea di cosa stesse succedendo:
“Quindi resterai qui?” gli chiese con un sussurro Hara, era pericolosamente vicino al suo viso e John si sentì stordito, sentiva sudore freddo attraversargli la schiena, la mano era ancora sul suo collo anche se non esercitava nessuna pressione, sembrava più un disperato tentativo di avere un contatto fisico con lui, era talmente nervoso che si dimenticò di trovare ridicola quella domanda; era impossibile scappare da lì, per andare dove poi, a morire nella foresta sbranato da una tigre? Si domandò, e in più sentiva un forte senso di responsabilità nei confronti degli altri, dato che era il loro principale ponte di comunicazione con i giapponesi.
“Per quanto mi farebbe comodo scappare …” replicò con un fil di voce “Si Gengo, resterò qui.”
Non seppe esattamente quale antro del suo cervello lo spinse a chiamare Hara col suo nome, forse per dare ulteriore validità alle sue parole, da dove veniva lui funzionava così, in Giappone non proprio, fatto sta che il sergente invece di punirlo per così tanta confidenza lo baciò, lasciando John esterrefatto.
La mano si spostò dal collo alla tempia sinistra di John, si aggiunse anche l’altra per stringere la tempia destra e incastrare l’inglese in una morsa dalla quale non sarebbe potuto scappare, dopo un primo approccio a labbra serrate Hara riuscì ad aprire la bocca di Lawrence e ad infilare la lingua, stordendo l’inglese con il sapore di alcool, avrebbe dovuto disgustarlo e invece lo eccitò, non ricordava neanche l’ultima volta che aveva bevuto qualcosa di forte, avrebbe dovuto essere tante cose in quel momento: ripugnato, umiliato, e invece tutto quello che fece fu aggrapparsi alle spalle del giapponese e rispondere al bacio, rispose a quella disperata richiesta di Hara e ai suoi istinti più bassi che erano sopiti da tempo, se non ricordava da quanto tempo non beveva, non ricordava neanche da quanto tempo non scopava, e sicuro non aveva mai baciato un uomo, dimenticò tutto, anche la rabbia repressa che provava per lui quando non aveva mosso un dito alla sentenza della condanna a morte, quando continuava a pregare imperterrito mentre Lawrence sfasciava l’altarino dei suoi amati dei.
Hara aveva lasciato la sua faccia e le sue grosse mani vagavano su tutto il corpo di Lawrence che da parte sua non si sentiva minimamente violato, ormai era ubriaco, più ubriaco del giapponese, avrebbe potuto anche ucciderlo e non avrebbe mosso un dito, il sergente lasciò la sua bocca, consentendo a John di prendere aria, e proseguì mordendogli la mandibola e il collo, il respiro corto ed eccitato non facevano altro che aumentare la smania di Lawrence, ormai spalmato sul muro, l’ultimo sprazzo di lucidità che gli rimaneva lo usava per soffocare gemiti troppo rumorosi tappandosi la bocca con una mano, quando Hara gli tolse le mani di dosso per un momento, Lawrence per poco non si accasciò a terra, strisciando contro il muro, era ritornato alla realtà e realizzò che se fino a quel momento era stato in piedi era solo perché era rimasto incastrato tra il giapponese e la parete, se prima ogni passo era una fatica immane, in quel momento le gambe non le sentiva davvero più. Hara lo afferrò avvolgendogli un braccio per la vita, nel tentativo di farlo rimanere su, lo fissava con uno sguardo talmente intenso che John non riuscì a ricambiare e sorrise nervosamente, tentando di rimettersi in piedi autonomamente appoggiandosi al muro, era ancora privo di fiato, con il sapore d’alcool fra le labbra. Se non fosse stato così stremato sarebbe rimasto lì, con quello strambo giapponese , anche tutta la vita, aveva sempre saputo della simpatia che quest’ultimo aveva nei suoi confronti, complice anche il fatto che fosse l’unico bianco lì a parlare la sua lingua, ma non aveva mai immaginato che i sentimenti di Hara fossero arrivati fino a quel punto, come aveva fatto a non notare che Hara quando erano soli non era mai ostile nei suoi confronti, e si limitava a farlo quando erano i suoi superiori a pretenderlo, quell’epifania lo stava scombussolando, i pensieri si moltiplicavano e si accavallavano fra loro a tal punto che temette che fuoriuscissero dalla testa.
“Prendi questo.”
Hara, che nel mentre lo aveva lasciato, gli mise sotto il naso la tazza, di nuovo colma di liquore. John l’accettò nel tentativo di non far tremolare la mano e bevve lentamente, fu una sensazione estatica, aveva desiderato quel sakè da quando era entrato in quella stanza, anche se ammise, non senza imbarazzo, che aveva trovato altrettanto soddisfacente sentirne il sapore direttamente dalla bocca di Hara, sperò intensamente di non essere arrossito come un ragazzino dopo aver pensato una cosa del genere.
“Grazie.” fu tutto quello che riuscì a dire, in quel momento gli sembrava inappropriata qualsiasi cosa;
Hara abbassò lo sguardo, un piccolo sollievo per John, e prese poi un profondo respiro:
“Scusa, Lawrence.”
John lo guardò attonito, l’altro aveva assunto un’espressione imbarazzata, che spesso appariva quando veniva rimproverato da Yonoi, su quel volto tondeggiante tendeva a farlo sembrare un bambino. Era una situazione per lui talmente surreale che tutto quello che seppe fare fu scuotere la testa debolmente:
“No Sergente…io ho risposto… non è colpa di nessuno.” Raramente in vita sua era stato così in difficoltà per imbastire una risposta, quelle poche parole che riuscì a formulare gli parvero prive di qualsiasi significato. Il sergente non disse nulla, erano in due quella notte a non voler ammettere cosa stesse accadendo.
L’atmosfera era assolutamente immobile, il silenzio rotto solo dallo strascico dei loro passi sul suolo sabbioso, incrociarono solo una giovane guardia che scattò all’attenti alla visione di Hara, quest’ultimo gli concesse solo uno svogliato cenno della mano per congedarlo, come se stesse scacciando una mosca. Lawrence arrancò verso l’ingresso delle stanze dei prigionieri, gli mancavano solo una manciata di scale, si voltò un’ultima volta verso il sergente ma egli sembrava da un’altra parte, lo guardava con gli stessi occhi vitrei che aveva quando era ubriaco, irradiavano una malinconia che era diversa da quella che si leggeva negli occhi di Yonoi quando guardava Celliers, in quelli lì c’era il terrore di avere di fronte un demone tentatore, Hara a quanto pare non era spaventato da ciò, o semplicemente non considerava John un demone.
Gli diede le spalle, avviandosi probabilmente verso il suo alloggio, Lawrence lo richiamò debolmente, facendolo voltare di scatto:
“Hara, io non dirò niente a nessuno di quello che è successo, stia tranquillo.”
Lo disse con il tono più rassicurante che aveva a disposizione, non voleva che il sergente fosse corroso da rimorsi o dalla fobia di essere scoperto, se in quel momento non aveva paura, poteva averne in seguito. Il diretto interessato rimase immobile per un po', John già immaginava il suo solito ghigno e una risposta tipo: Ovvio che non lo farai, altrimenti dovremo prepararci a fare harakiri davanti a tutti e invece Hara asserì semplicemente:
“Neanche io.”
Si allontanò definitivamente a passo spedito, nonostante il dolore lancinante a tutte le sue membra che imploravano solo riposo, Lawrence lo seguì con lo sguardo fin quando non sparì dalla sua visuale.
“Lawrence! Tutto bene?”
Jack Celliers, rannicchiato al di sopra delle lenzuola consumate del suo letto, lo vide rientrare nello stanzone e dirigersi stancamente al suo posto, chiamandolo con un fil di voce. John si limitò a sorridergli come silenziosa conferma che stesse bene, mentre si sfilava lentamente gli stivali. Celliers non sembrava del tutto convinto ma lo lasciò stare, adagiando la testa sul cuscino e chiudendo gli occhi. Lawrence si rannicchiò in posizione fetale, le lenzuola fin sopra la testa, si sentiva talmente fragile che temeva anche l’intensa luce lunare che filtrava dalle finestre luride, si concentrò sui respiri degli altri già immersi nel sonno per poterci cadere anche lui, tutto pur di dimenticare Hara e quali sarebbero state le conseguenze di quella notte nel loro rapporto, oppure su quali fossero i sentimenti che provava per lui, altrimenti avrebbe consumato i rimasugli delle sue energie per pensarci fino all’alba.
 
   
 
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