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Autore: Rika88    19/09/2009    6 recensioni
Gennaio 1945: in una Germania devastata, Alphonse Elric, arruolato per una guerra ormai persa, lascia i figli a casa del fratello Edward. Tuttavia, come Thomas e Charlotte Elric scopriranno presto, i problemi non si limitano alla difficile convivenza tra due caratteri troppo simili, come quelli del bambino e di Ed: l'abitazione e la libreria sotto di essa sono il fulcro di un movimento incessante e, forse, anche pericoloso.
Genere: Malinconico, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Alphonse Elric, Edward Elric, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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            12. Il bambino della foto.

 

 - Non hai avvertito che te ne andavi? -

 - Il bello di non lavorare per nessuno, Ed, è che posso andarmene quando voglio. - rimbeccai, senza alzare lo sguardo dai fornelli - Sto in quell’ospedale solo per far piacere a mia cognata. Piuttosto, sei sicuro che quell’... affare sotto l’edificio sia sparito? -

Lui scrollò le spalle con noncuranza:

 - Certo. Questo nuovo Portale è molto instabile, e non resta aperto a lungo. -

Aveva parlato con sicurezza, le braccia incrociate al petto. Non ne era affatto sicuro, ma non poteva esimersi dal fare lo sbruffone.

La casa in cui ci trovavamo era grande più o meno come quella di Resembool, così che non mi venisse voglia di scappare. Artie era uno stratega nato: sapeva benissimo che, appena arrivata, mi sarei chiesta quanto gli fosse costato prendere in affitto un appartamento simile in pieno centro città, mi sarei fatta venire i sensi di colpa e non avrei avuto il coraggio di fargli sprecare i soldi lasciando quelle quattro mura prima dello scadere dei sei mesi.

Beh, almeno ora questo stupido regalo sarebbe tornato utile. C’era una sola stanza per gli ospiti, ma potevo far dormire i due ragazzini in camera di Alex.

 - Purtroppo non ho molto da offrirvi, - mi scusai, mettendo in tavola i resti dell’arrosto del giorno prima - spero vi accontentiate di avanzi riscaldati. -

 - Non c’è problema, - mi rassicurò Edward - siamo buone forchette. Per quel che mi riguarda, se non ci fosse stata la figlia del mio locatore, sarei morto di fame anni fa. -

 - Cercava di prenderti per la gola? - chiesi, sbattendo le presine in un angolo con più energia del dovuto.

 - No, cercava di farsi pagare. -

Quando Ed diceva che erano buone forchette, usava un eufemismo: in realtà, quel gruppetto era semplicemente disperato. Quei due poveri bambini fecero sparire la carne nel giro di pochissimo, senza neppure alzare lo sguardo dal piatto, si servirono di nuovo e finirono quel che il padre e lo zio avanzarono, fingendo di essere sazi. Poi pulirono i piatti con tanta perizia che avrei potuto fare a meno di lavarli.

So di essere stata maleducata, ma rimasi a bocca aperta e occhi sbarrati per almeno due minuti, prima di incrociare lo sguardo imbarazzato e  pieno di scuse di Al, seduto di fianco a me.

 - Lei cucina benissimo, signora. - si ricordò di dire Thomas, quando il padre gli diede una gomitata discreta.

Ero sconvolta.

Il tavolo era piccolo e quadrato, così le due coppie di fratelli Elric si trovavano divise ai due lati, un grande vicino ad un piccolo: perciò, io ero tra Ed e Al, e Alex sedeva da solo a capotavola tra i due bambini, di modo che non desse gomitate a nessuno.

 - Alex, impugna la forchetta con la destra. - ripetei per l’ennesima volta.

Mio figlio è mancino, cosa che teneva la mia mente sempre allenata per prevedere quali semplicissimi oggetti sarebbero diventati armi improprie, o quali gesti abituali avrebbero potuto rivelarsi estremamente scomodi. Dopo aver visto come impugnava le forbicine per bambini con la sua manina sinistra, non sapevo dove avrei trovato il coraggio per dargli delle forbici vere prima dei trent’anni.

Lui non mi sentì nemmeno: era rapito dalla conversazione con Charlotte. Pendeva letteralmente dalle sue labbra. Sperai che non si stesse prendendo una cotta; non volevo vederlo soffrire quando lei se ne fosse andata.

 - Tom ha ragione, cucini sempre molto bene. - dichiarò Al con allegria.

 - Hanno bussato? - chiese il ragazzino, alzando la testa dal piatto per la prima volta.

Calò il silenzio, anche se fu superfluo: non stavano bussando, ma direttamente aprendo la porta con le chiavi. E c’era solo una persona, oltre a me, che le avesse. Sospirai, gettando il tovagliolo sul piatto e alzandomi; arrivai alla porta in tempo per trovarmi Arthur di fronte.

 - Disturbo? - domandò con la sua migliore faccia da schiaffi.

 - Stavamo cenando. - lo informai a denti stretti.

Senza neppure chiedere il permesso, avanzò fino alla porta della sala da pranzo (beh... ad essere sincera, era sempre la cucina) per dare un’occhiata ai nuovi arrivati. Per fortuna, dopo una bella lavata erano tutti presentabili: per Ed e Al avevo pure rimediato dei vestiti di ricambio, anche se il primo aveva le maniche rimboccate e il secondo i polsi in vista.

 - Quelle non sono le mie camicie? - chiese infatti il villano.

 - Ed, Al, lui è Arthur Stonebridge, il mio ex marito. - lo presentai, giusto per amore delle buone maniere. - Artie, ti presento Edward e Alphonse Elric, dei miei vecchi amici d’infanzia: sono capitati in città per un... disguido. - improvvisai - Erano anni che non ci vedevamo, allora li ho invitati qui. Anche perché, con i bambini piccoli... -

Tacqui, a corto di balle da propinargli. Thomas non si poteva davvero definire piccolo.

 - No, no, capisco. Questi sono i due nuovi amici di Alex, no? - si avvicinò per scompigliare i capelli del bambino, ma lui era troppo preso dalla descrizione che Lotte gli stava offrendo di un qualcosa che chiamava “tram”.

 - È una macchina - stava dicendo - dove tu ti siedi e ti sposti per la città. Ci sono tante stazioni... -

 - Come un treno? - chiese mio figlio.

 - Sì, esatto. - la piccola annuì con forza, facendo oscillare i riccioli. - Solo che viaggia tra le case. -

 - Ma così le città si riempiono di fumo! -

 - No, no! Non fa fumo! -

 - Allora non va a carbone? - le domandò Arthur, sorridendo.

Lotte lo fissò, frustrata. Ovviamente, per lei il carbone era un qualcosa nero che sporcava le dita, ma non aveva nulla a che vedere con i treni.

 - No, a elettricità. -

Ci voltammo tutti verso Edward. Io mi irrigidii, guardandolo attentamente per invitarlo a tacere.

 - Prende l’elettricità dai fili che gli passano sopra. - continuò invece lui, serissimo, appoggiando le posate nel piatto e unendo le dita.

Artie alzò così tanto le sopracciglia da farmi temere che stessero per sparirgli tra i capelli lunghi e neri: poi scoppiò a ridere sonoramente, e Ed lo imitò.

 - Elettricità! - ripeté Arthur, accarezzandosi il pizzetto - Che fantasia che avete, tutti e due! È sua figlia? -

 - No, sono entrambi opera di mio fratello. -

L’altro lo squadrò con evidente curiosità: sapendo benissimo cosa stesse cercando di indovinare, lo afferrai per la giacca e lo trascinai di nuovo nell’atrio.

 - Artie, possibile che tu non abbia la minima idea di come ci si comporta con un bambino? - sibilai, per non farmi sentire. - Cosa vuoi che ne sappia di come funziona un treno!? -

 - Scusa, ma era così convincente che mi sono lasciato trascinare. -

Scossi la testa, decisa a non farmi distrarre dai suoi occhi grigi. Non ripeto mai lo stesso errore due volte.

Aprii la porta.

 - Come hai visto, sono impegnata. -

Lui non si mosse: mi scrutava con palese interesse.

 - È lui? - mi chiese.

 - Di che parli? -

 - Lo sai benissimo. Spero non sia l’altro: non ti ci vedo nel ruolo della rovina-famiglie. -

Continuai a fare la finta tonta.

 - Non so a cosa ti riferisci. -

 - Certo, certo, non ho intenzione di invadere la tua sfera privata. Ero passato solo per fare due chiacchiere: Amelia mi ha detto che oggi sei sparita all’improvviso... - tossicchiò - temevo che ci fosse qualche problema con Alex, ecco tutto. -

 - Sei stato gentile. -

Ci baciammo velocemente sulle guance, poi riuscii a farlo uscire. Quando chiusi la porta, mi sentii sollevata: non avrei saputo cosa inventarmi se Artie mi avesse chiesto da dove venivano i miei amici, o perché non avevo mai parlato di loro. E, oltretutto, mi infastidiva la capacità con cui mi leggeva dentro.

* * *

 

La signora Winry rimase silenziosa per tutta la cena: l’arrivo... o meglio, l’irruzione di quell’uomo pareva averla offesa profondamente.

Mentre Lotte continuava a parlare a vanvera con Alex di tutto quel che le passava per la testa, io non potei fare a meno di lanciare occhiate furtive alla signora Stonebridge: la sua somiglianza con Hedwig Steinglocke era semplicemente sbalorditiva. Fisicamente, differivano soltanto nel colore e nel taglio dei capelli, ma per il resto sarebbero potute passare per sorelle gemelle. Non si poteva dire la stessa cosa del carattere, per fortuna: la madre di Alex non era algida e distante quanto Hedwig, né possedeva quell’aria eterea che le avevo visto nella libreria dei Meyer, e per questo sembrava molto più reale, meno falsa della donna che avevo conosciuto dall’altra parte del Portale. Anche la sua rabbia era diversa dagli scatti d’ira del Presidente della Società di Thule, più discreta e taciturna.

 - Papà, allora in questo mondo esistono davvero i doppi delle persone del nostro! - esclamai, quando lui ci accompagnò a dormire.

Lui sorrise, mentre con una mano raddrizzava le nostre scarpe, ai piedi del letto.

 - Sì, anche se, come avrai capito, spesso la somiglianza è solo fisica. - mi rispose, appoggiandosi di fianco a me al davanzale della finestra.

La città chiamata Central City era straniera, inquietante, soprattutto dopo il tramonto, seppure completamente illuminata. Ricordavo vagamente un tempo in cui anche Monaco, la sera, si accendeva di lampioni e luci provenienti dalle case, prima della guerra e del coprifuoco, ma non riuscivo bene a metterlo a fuoco.

 - Papà... - ripetei.

 - Sì? -

 - La favola che ci raccontavi la sera parlava di questo mondo, vero? -

 - Sì, Tom. -

 - I due fratelli alchimisti eravate tu e lo zio, non è così? -

Questa volta ci mise di più per rispondermi: - Sì, è così. -

Mi allontanai dalla finestra per infilarmi a letto, dove Lotte si era già appisolata.

 - Era tutto vero? - domandai ancora, perplesso. - Esistono davvero l’alchimia, la Pietra Filosofale, i militari di cui parlavi... Anche gli homunculus? -

 - Quelli non più. - mi rassicurò mio padre, inginocchiandosi di fianco al letto per non svegliare mia sorella.

 - Ed è per questo che sembri più giovane della tua vera età? -

 - Ho trentanove anni, - disse, cauto - ma non posso negare che il mio corpo ne abbia solo trentacinque: ora non si nota quasi più, ma da ragazzo è stato un problema. -

 - Davvero Ed non sopportava che gli si dicesse che è basso? -

 - Questo, non dire a tuo zio che te l’ho raccontato. -

Mi interruppi per girarmi sul fianco e poterlo guardare in faccia.

 - Però, - sussurrai, abbassando ancora la voce - tu hai sempre detto che, nella battaglia finale con i cattivi, il fratello maggiore moriva, il minore consumava l’armatura che gli faceva da corpo per riportarlo in vita e l’altro entrava nel Portale per salvarlo a sua volta... ma questo è impossibile, no? Un morto resta morto. -

Papà sospirò, intuendo benissimo a cosa mi stessi riferendo.

 - Tom, quando vi raccontavo quella storia non pensavo che un giorno avreste scoperto che era reale. - ammise, serio. - In ogni caso, credo che tu conosca già la risposta: il fratello minore riusciva a riportare in vita il maggiore solo perché lui stesso era la Pietra Filosofale, ma per farlo dovette consumarla, distruggendo il legame stesso che teneva la sua anima in questo mondo. Il maggiore, poi, non lo resuscitò esattamente, ma ne recuperò il corpo vero e lo riunì all’anima. Si tratta, insomma, di casi assolutamente eccezionali. - si interruppe, per accarezzarmi la testa - Un morto resta morto, hai ragione. Infatti, i due bambini non riuscirono a trasmutare la loro mamma. -

Sospirammo pesantemente entrambi.

 - Ora dormi, e vedi di non sognare gli homunculus. - mi disse, alzandosi.

 - Torniamo a casa presto, vero? -

 - Sì, non ti preoccupare, Tom. -

 - Papà? -

Stava già per chiudere la porta, ma rimase con la mano sulla maniglia.

 - Cosa? -

 - Se ho gli incubi posso venire da te? - chiesi, vergognandomi come un ladro.

 - Certamente. -

* * *

 

Asciugai le stoviglie approfittando dell’assenza di Winry, che stava sistemando la camera degli ospiti, e le misi in ordine la credenza: aveva organizzato la casa in modo molto simile a quella di Resembool, e non era troppo difficile orientarsi. Dovevo solo avere l’accortezza di non farmi trovare in cucina, così che non potesse cominciare a protestare.

Stavo quindi sgattaiolando via quando, in corridoio, sentii un gridolino provenire dalla camera di Winry, in cui Alex sarebbe dovuto essere pacificamente addormentato. Allungando il collo, intravidi il bambino seduto per terra, dietro una torre di cubi di legno alta quanto lui: se l’aveva tirata su nel breve tempo in cui l’avevamo perso di vista, aveva un futuro assicurato come muratore.

 - Non dovresti essere a letto? - gli chiesi.

 - Non ho sonno. - rispose lui, senza alzare gli occhi. Stava posizionando gli ultimi cubi sulla sua costruzione per costruire la punta, la fronte aggrottata per la concentrazione; solo dopo aver posto ancora due mattoni levò lo sguardo su di me:

 - Tu sei il bambino della foto? - mi domandò a bruciapelo.

 - Il bambino della foto? - ripetei, confuso.

Per tutta risposta, lui si alzò agilmente, si avvicinò al comodino della madre, prese il libro appoggiato sopra e ne estrasse la fotografia che faceva da segnalibro. Me la porse con un’espressione imperscrutabile, come un giudice che ascolta il testimone, e mi osservò mentre mi avvicinavo alla finestra per avere un po’ di luce e vedere meglio.

Conoscevo quella foto: per anni era rimasta appesa nell’officina Rockbell, a Resembool, e difatti si notava il foro della puntina. Era una delle meglio riuscite tra quelle che ritraevano me, Al e Winry da piccoli.

 - Tu sei il bambino della foto? - chiese nuovamente Alex, mettendosi sulla punta dei piedi e indicando con il dito il mio viso ritratto nella foto.

 - Sì, sono io. - risposi, sorridendo davanti alla mia espressione. Winry doveva avermi appena fatto qualche scherzo, perché sembravo davvero offeso... chissà cos’era successo. Non lo ricordavo affatto.

Alex rispose al sorriso, annuendo solennemente come se fosse proprio quello che voleva sentirsi dire. Era la prima volta che non gli vedevo stampata in faccia quell’aria da sfinge, e dovevo ammettere che così sembrava quasi un bambino come tutti gli altri: quasi, dicevo, perché comunque il suo volto era molto più adulto di quello che avevano avuto Thomas o Lotte alla sua età, o qualunque altro bimbo che avessi mai visto. I grandi occhi scuri, l’unico tratto che non aveva ereditato da Winry, sembravano sempre oltrepassarmi, fissandosi su qualcosa che solo lui poteva vedere e sapere: mi disorientavano, e inoltre mi lasciavano la sensazione di averli già visti su qualche altro viso. Un’impressione vaga, frustrante come quando si ha una parola sulla lingua, che per motivi che non potevo ammettere neppure a me stesso mi inquietava. Fu proprio questo (furono quei motivi) a spingermi a restare quando lui riprese a giocare, ignorandomi.

 - Alex, quanti anni hai? - mi decisi a chiedere, alla fine.

 - Quattro. - rispose lui, senza neppure alzare lo sguardo su di me.

Presi un profondo respiro. Quattro anni. Io ero tornato sei anni prima, quindi non c’era alcuna possibilità che fosse figlio mio... Il mio stomaco diede un balzo quando pensai a quelle parole. Erano quelli i motivi che mi avevano trattenuto, ma a ben pensarci il mio presentimento era del tutto fantasioso: non ricordavo affatto i genitori di Winry, perciò era plausibile che uno dei due avesse gli occhi scuri. La verità era che mi ero creato un mare di dubbi a partire da una sensazione.

Ignaro di tutto, Alex andava esaurendo i cubi: erano giocattoli di legno, con sopra disegnati i numeri da zero a nove, molto simili a quelli che anche Thomas aveva avuto quando era piccolo (credo di averglieli regalati proprio io), che di solito si usano per insegnare a contare. Il bambino aveva ormai innalzato una struttura alta e piuttosto instabile, ma chinandomi mi accorsi che non stava andando a caso: sceglieva attentamente i suoi mattoni dalla loro scatola, e li posizionava in un ordine ben preciso.

 - Sai già contare, Alex? - chiesi, stupito.

 - Sì, ma li ho già messi in ordine crescente. - replicò lui - Ora li metto uno sì e uno no. -

 - Alternati? - ribattei, scordando di stupirmi per l’uso dei termini ordine crescente. - Pari con pari e dispari con dispari? - in effetti, era così che li stava impilando, ma dall’occhiata confusa che mi diede compresi che non ne aveva intenzione. Lui li stava solo mettendo uno sì e uno no.

 - Questi sono numeri pari. - gli spiegai, indicandoli - E questi sono dispari. -

Scrutò me e i suoi giochi, come per assorbire l’informazione. Poi raccolse un paio di cubi ancora nella scatola, e li mise affiancati, formando il numero trentasette.

 - Questo è pari o dispari? - mi domandò.

L’ultima cosa che volevo era iniziare una lezione di matematica ad un’ora in cui il bambino avrebbe dovuto essere a letto...

 - Alex, è questo il modo di comportarsi con gli estranei? -

Trasalii e mi voltai, sentendo la voce di Winry alle mie spalle.

 - Da quanto sei lì? - chiesi, a disagio.

 - Sono appena arrivata. - mi tranquillizzò lei, anche se avvertii una punta di acidità nella sua voce.

 - È dispari! - esultò Alex - Mamma, è dispari! -

 - Sì, tesoro, ma ora di’ buonanotte e vai a letto. - rispose Winry, senza riuscire a trattenere un sorriso indulgente.

Obbediente, lui si voltò verso di me.

 - Buonanotte signore. Dormi bene. - declamò, pasticciando con i verbi e le formule di cortesia.

 

Aspettai che Winry si fosse chiusa la porta alle spalle, prima di schiarirmi la gola:

 - È un bambino davvero dolce. - dichiarai.

E questo, nonostante suo padre sia quel cafone di stasera, aggiunsi mentalmente.

 - Sì, è vero. - rispose lei, spostandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio - Ed è anche molto sveglio. -

 - L’ho notato. - risposi, ridendo.

 - Sul serio? Non... - si interruppe, lanciando un’occhiata fugace alla porta. Mi fece un cenno, e ci spostammo in cucina.

 - Non ti sembra strano? - continuò Winry, incrociando le braccia al petto - Insomma, i bambini della sua età usano i cubi per giocare, non per farci gli esercizi di matematica. -

 - Ma per lui è un gioco. - replicai, stringendomi nelle spalle - Non sono un’autorità in materia, ma non credo ci sia nulla di male. Mi sembra troppo intelligente per trattarlo come un bambino qualsiasi. -

 - Dici davvero? -

 - Perché dovrei mentire? - borbottai, impacciato. - Lo hai sempre sotto gli occhi, quindi dovresti saperne più di me. -

Fece una smorfia, e i suoi occhi ebbero un lampo. Avrei scommesso qualunque cosa che stava pensando al distratto padre di Alex.

 - Oh, io so che è dolce, e molto sveglio. Solo che... - sospirò - è sempre così serio. E non lega con nessuno: mi stupisce che sia riuscito a diventare amico di Charlotte nel giro di poche ore. L’ho portato qui per cercare di farlo stare con dei suoi coetanei, ma non è servito a molto. - Winry si accigliò e si morse il labbro inferiore per la frustrazione. - Lo isolano subito. È come se intuissero che non è come loro. E Artie non mi aiuta, visto che riesce solo a dire che crescendo cambierà, non c’è ragione di preoccuparsi, prima o poi metterà la testa a posto e smetterà di essere tanto strano! -

Sì, in effetti Artie non sembrava un campione di tatto.

 - Se lo dice lui... - replicai vagamente. Non mi sembrava il caso di mettere il becco in faccende che non mi riguardavano.

Winry mi fissò, con un sorriso cinico sul volto.

 - Ed, puoi tranquillamente dire quel che pensi. Sì, Arthur non ha la minima idea di come si trattino i bambini, e spesso è terribilmente venale. Secondo lui, tutto ha un prezzo, tutto può essere comprato. Trova il mio lavoro assolutamente inutile, perché ormai nessuno si fa più impiantare degli auto-mail, ma dopo avermi costretta a venire qui non mi ha neppure permesso di aiutarlo in ospedale. -

 - E allora, - replicai - perdona la franchezza: perché lo hai sposato? Non sei il tipo che si sposa per denaro, e sono certo che saresti perfettamente in grado di cavartela da sola. -

Bruscamente, Winry si portò le mani ai fianchi, e mi trapassò con uno sguardo accusatore.

 - Perché? - sibilò, mantenendo a fatica un tono di voce basso. - Per un motivo molto semplice, Edward Elric: perché lui c’era sempre. Quando volevo parlargli, dovevo solo chiamarlo. -

Abbassai la testa, ferito, mentre lei distoglieva il viso.

 - Io non sono come tua madre, Ed. Non ho la pazienza di aspettare in eterno un uomo che non torna mai, e che non sono neppure sicura che condivida i miei sentimenti. -

 - Winry! - esclamai - Io... -

 - Tu - mi accusò lei - ogni volta piombi in casa mia come se nulla fosse, fai i tuoi comodi e poi mi lasci di nuovo! Ora dimmi cosa devo pensare: perché io non credo che questo sia il comportamento di un uomo che diceva di amarmi! -

 - Faccio i miei comodi? - digrignai i denti, per non mettermi a urlare e svegliare i bambini. - Winry, non avevo la minima idea che saremmo arrivati fino a quel punto... - lei si lasciò scappare un’esclamazione sarcastica - e questa volta, è stata davvero un’emergenza: avevano trascinato i miei nipoti nel Portale, era mio dovere venire a riprenderli! -

 - Avevano, chi? Di nuovo quelli dell’altra volta? -

 - Sì. La Società di Thule. - sospirai, passandomi una mano tra i capelli. - A quanto pare, sei anni fa mi stavano tenendo d’occhio, e si sono insospettiti quando mi hanno visto sparire per un paio di settimane. -

Lei prese un paio di respiri profondi, ma non rispose: mi diede le spalle, fingendo di piegare gli strofinacci della cucina, per poi appenderli di nuovo nella stessa posizione di prima.

 - Ho visto che hai addosso l’auto-mail nuovo. - commentò dopo un po’, senza interrompere il suo inutile lavoro.

 - Purtroppo quello vecchio ha avuto un incidente. - risposi, mantenendomi sul vago per non doverle raccontare che fine aveva fatto. - Comunque, una persona aveva definito il tuo lavoro l’opera di un genio. -

Non poté trattenere un sorriso, che intravidi anche se era voltata.

 - Quello che hai addosso è stato uno degli ultimi auto-mail che ho costruito. - meditò. - Ultimamente mi limito a riparare protesi più vecchie: in ogni caso, appena sarò libera di andarmene tornerò a Resembool e venderò l’officina. -

 - Cosa? - esclamai, sobbalzando.

 - Ho un figlio, Ed! - sbottò, spazientita dalla mia ottusità. - Non posso rischiare di trovarmi senza soldi. Senza contare che, con i tentativi di invasione da parte dei Paesi confinanti, l’ipotesi di una guerra non è mai stata così reale. Ho visto quei due poveri bambini: - si interruppe, piegando la testa verso la stanza dove i miei nipoti dormivano - sembrava non toccassero cibo da giorni. E Al, quanto è pallido e smunto! E tu? Ti sei visto? Devi avere almeno dieci chili di meno di sei anni fa! -

Quello, in realtà, dipendeva in massima parte dalla mia ultima sistemazione...

 - Non voglio vedere Alex ridotto così. - dichiarò, lasciando cadere per terra gli strofinacci e voltandosi finalmente verso di me, sull’orlo delle lacrime - All’estero potrò ricominciare a lavorare come ingegnere di auto-mail, o come medico, se non avessi alternative: il bambino è piccolo, si abituerà. E per me, un posto vale l’altro. -

Giuro, non so come mi venne in mente. In condizioni normali non avrei mai proposto una follia simile: dovevo essere umiliato dal paragone che Winry aveva fatto con mia madre, avvicinando implicitamente me a mio padre, e quelle ultime parole fecero scattare un qualche meccanismo nella mia testa. Fatto sta che la afferrai per una spalla e la costrinsi a guardarmi:

 - Se per te un posto vale l’altro, - dissi - vieni con me! -

 - C-cosa? - balbettò, sgranando gli occhi.

 - La guerra ormai sta finendo, e presto ci sarà un intero continente da ricostruire: troveremo dello spazio anche per noi! Di certo ci sarà una richiesta enorme di medici, con tutti i feriti che torneranno a casa. La Baviera ti piacerà, è verde come la campagna intorno a Resembool, e Monaco è una città enorme, e poi... e poi Alex potrebbe vedere sempre Lotte, e non sarebbe più solo: non avrebbe la difficoltà di dover imparare una lingua straniera, e partirebbe alla pari dei suoi coetanei, se non di più!, visto quanto è intelligente. Casa mia è vicina a dei giardini che si estendono per chilometri, e... -

Ed è un buco.

Mi interruppi, rendendomi finalmente conto del fiume di idiozie che stavo dicendo.

Vivevo in due misere stanze, troppo piccole anche per una sola persona, in una via di malelingue e pettegoli che avrebbero reso la vita impossibile a chiunque. Non sapevo se avevo ancora il mio lavoro, perché non avevo più notizie del laboratorio. E Alex? Già spostarsi in un altro Paese avrebbe reso difficile per lui vedere il padre, ma io stavo proponendo di non farglielo incontrare mai più. Senza contare che, in ogni caso, la Germania era in ginocchio: ancora per molti anni ci sarebbe stato da far la fame.

Lasciai cadere le braccia lungo il corpo, vergognandomi delle mie parole.

 - Io... - iniziò Winry, senza guardarmi.

 - Lascia stare. - tagliai corto - Scusa, è stato piuttosto imbarazzante. Vado a letto. Dimentica quel che ho detto. -

* * *

 

Mi scordai di rallegrarmi del fatto di trovarmi in un letto vero, dopo mesi, perché crollai addormentato non appena mi sdraiai, e non sentii neppure Ed tornare nella stanza che dividevamo. Tuttavia, quando mi svegliai, la mattina seguente, mio fratello era nel letto di fianco al mio, con il lenzuolo attorcigliato intorno alle gambe come se si fosse rigirato per ore. A ben pensarci, poteva benissimo essere così, meditai mentre mi vestivo: per fortuna, la sera precedente anche lui doveva essere troppo stanco per mettersi a rimuginare su chissà cosa.

Winry aveva appoggiato sul comodino i pochi oggetti che avevamo con noi: recuperai la foto che tenevo nella giubba dell’uniforme, e me la misi nella tasca della camicia, prima di sbirciare l’orologio da polso.

Scarico da giorni, peccato che l’avevo dimenticato. Scrollando le spalle, mi rassegnai ad uscire dalla camera, per andare in bagno a rasarmi. Non lo avevo fatto la sera prima, quando eravamo arrivati, perciò non sapevo che idea si fosse fatto esattamente il signor Stonebridge di noi; forse aveva pensato che fossimo dei selvaggi appena tornati dalla giungla, che non avevano avuto neppure il tempo di tagliarsi la barba.

La casa era ancora silenziosa, a parte i rumori provenienti dalla cucina dove, scoprii, Winry era già al lavoro.

 - Mi sono perso qualcosa? - domandai, guardando la tavola imbandita. - Dove sono i venti ospiti che aspetti? -

Lei ridacchiò, ma non smise di cucinare.

 - Buongiorno! - disse invece. - Dormito bene? -

 - Benissimo, direi. Spero tu non ti sia svegliata prima solo per sfamarci. -

 - Io mi sono svegliata alla solita ora, veramente. - rispose.

Lanciai un’occhiata all’orologio appeso al muro, e dovetti ammettere che probabilmente era vero: eravamo più vicini all’ora di pranzo che a quella della colazione. Se il fuso orario tra i mondi era lo stesso, dovevo aver dormito più di undici ore.

 - Evviva. - scherzai. - Più che una dormita, questo è stato un letargo! -

 - Non c’è nulla di cui rammaricarsi: - dichiarò lei - comincia pure a servirti, gli altri mangeranno dopo. -

 - Va bene, ma solo se ti fermi e smetti di cucinare per noi: mi stai facendo sentire un parassita. -

Lei sorrise, permettendomi di toglierle il coltello di mano per affettarmi da solo il pane e accontentandosi di passarmi il barattolo della marmellata.

 - Almeno questo mi permetti di farlo? - mi prese in giro. - Me lo devi, visto che state insegnando le vostre cattive abitudini a mio figlio: stamattina anche lui non si è ancora visto. -

 - Non pretenderai che una persona che non ha dormito per quattro anni faccia una predica sullo svegliarsi presto, vero? -

 - Ah, è vero! - disse, spalancando gli occhi - Ti è tornata la memoria, giusto? -

 - Sì, quando ho attraversato il Portale per la prima volta, ventidue anni fa. - risposi. - Forse è stato anche quello uno scambio equivalente: i miei ricordi in cambio dell’esilio dal mondo da cui provenivo. -

Scrollai le spalle: a differenza di Ed, non l’avevo mai trovato un grande sacrificio. Mi bastava poter stare con lui. Poi, quando incontrai Caroline e quando nacquero i miei figli, i legami con quel nuovo mondo divennero indissolubili.

Anche Winry doveva averci pensato, perché cambiò repentinamente argomento:

 - Ho visto la foto che porti in tasca. - mi sorrise. - Quella è tua moglie? Ed mi aveva detto che è una donna molto bella: immagino che tu non veda l’ora di tornare da lei. -

Deglutii il boccone, nonostante il groppo alla gola che quelle parole mi avevano fatto salire.

 - Sono vedovo. - sussurrai. - Mia moglie è mancata sei mesi fa. -

Winry impallidì, portandosi una mano alla bocca e trattenendo il fiato.

 - Mi... mi dispiace. - mormorò, imbarazzata.

 - Non potevi saperlo. - le feci notare, appoggiando la fetta di pane sbocconcellata nel piatto e congiungendo le mani davanti al viso - Ad essere del tutto sincero, ho cominciato ad accettare l’idea solo mentre ero al fronte. Prima, a casa, ogni mattina mi svegliavo ed... - mi morsi il labbro, distogliendo lo sguardo dagli occhi di Winry, che mi fissavano con un’ombra di pietà - ed ero certo che lei fosse nell’altra camera, a preparare la colazione per tutti. -

La mia amica annuì, passandosi velocemente un dito sotto gli occhi:

 - Anche a me succedeva, quando la nonna Pinako... - lasciò in sospeso la frase, ma fece un gesto vago con la mano. - Forse mi dirai che non è la stessa cosa, ma per me era una madre e un padre insieme, e scommetto che sarebbe stata una bisnonna magnifica per Alex. Sono passati quasi dieci anni, ma è ancora strano non averla sempre intorno, a Resembool. -

Ed mi aveva detto della morte della zia solo alcuni giorni prima, con sei anni di ritardo rispetto a quando l’aveva scoperto lui. Ero stato sul punto di iniziare una discussione, ma lui era sempre più prostrato e affamato, così mi ero impietosito e avevo lasciato perdere, tenendo per me il dolore.

 - Tra l’altro, - ripresi, giusto per parlar d’altro - mi dispiace averti coinvolta anche questa volta. Il tuo ex marito non sapeva che avevi ospiti, immagino... -

 - Non c’è problema, tranquillo. Ci siamo lasciati di comune accordo l’anno scorso... È stato un matrimonio molto breve, in effetti, ma siamo ancora buoni amici. -

Le credei a metà: la sera prima mi era sembrata davvero seccata per l’intrusione, e non a torto. Comunque, non dissi niente, e per parecchi minuti Winry restò a guardarmi mangiare in silenzio assoluto. Quando tentai di aiutarla a pulire, rifiutò decisamente.

 - Tanto tra poco arriverà il resto della truppa, no? - mi disse.

 - Non parlarmi di truppa. - ribattei - Tre mesi da soldato mi sono bastati per capire che non voglio più averci nulla a che fare! -

 - Ah, sì, Ed mi aveva detto che, in quel mondo, la leva è obbligatoria. -

 - Lui non è stato richiamato grazie ai tuoi auto-mail. - la lusingai.

Winry scosse la testa, ma non sorrise all’adulazione.

 - Al... ecco, mi stavo chiedendo... - aprì il rubinetto, e quasi non sentii il seguito, nonostante avesse alzato la voce in un’imitazione di spensieratezza - per quanto tempo vi fermate? -

Non era quello che si stava chiedendo, pensai. Aveva un’aria strana.

 - Non lo sappiamo con esattezza, ma non preoccuparti: Ed si è portato dietro quelle monete di Amestris che aveva con sé dall’altra parte, perciò non ti disturberemo oltre. -

 - No, no! - protestò lei. - Anzi, sono contenta se vi fermate un po’. Insomma, anche un bel po’, se capisci cosa intendo. -

Abbassai lo sguardo. Sì, avevo capito.

 - Grazie, Winry, ma voglio riportare i bambini nel loro mondo. - risposi - Per quanto mi riguarda, questo è stato il mio ultimo viaggio ad Amestris. -

 - Oh, so bene che hai ragione! - esclamò, sospirando - E in fondo sapevo anche che avresti risposto così: lo avrei fatto anch’io. Tom e Lotte sono già abbastanza grandi, per loro sarebbe difficile adattarsi ad una realtà così nuova ed estranea. E per voi, forse non è così diverso, visto che non vivete più ad Amestris da decenni. Solo che... - si asciugò in fretta le mani, per potersi avvicinare e guardarmi in faccia - Ieri ho visto quanta fame avevate, tutti quanti, e mi si è stretto il cuore al pensiero di rimandarvi a tirare la cinghia. -

 - Sei molto gentile, Winry. -

 - O molto egoista. - stirò le labbra in un sorriso amaro - Senza contare che, da quel che mi ha detto Ed, nel vostro mondo la guerra sta per finire: qui, con tutta probabilità, inizierà tra poco. No, no, è meglio che voi quattro torniate dall’altra parte del Portale. -

 - Aspetta. - la interruppi - Non posso garantire per Ed. -

 - Ed verrà con voi. - dichiarò lei, volgendo la testa verso la porta - Perché non se la sentirebbe di ricominciare un’altra volta tutto da capo, in un nuovo mondo e in un nuovo conflitto, e perché non potrebbe mai lasciarti solo. In fondo, lo capisco: tornerò a casa il tempo necessario per fare i bagagli e andarmene a Drachma, perché, se restassi anche solo un’ora in più, non avrei più il coraggio di farlo. -

Feci per ribattere, ma un frastuono dall’esterno coprì la mia goffa risposta: un suono lacerante, acuto e continuo che conoscevo benissimo, ma che mai avrei creduto di sentire da quella parte del Portale. Winry per lo spavento lasciò cadere il piatto che teneva in mano, che s’infranse senza che il tonfo riuscisse a farsi udire. Dal corridoio, come se fossero stati evocati, comparvero i miei figli ed Edward, perfettamente svegli.

 - Cosa fate lì impalati? - urlò lui, per sovrastare il rumore. - Non sentite la sirena dell’allarme aereo? -

 

Pensierino della buonanotte (davvero, dovrei trovare un nome più intelligente!): uff, che capitolo difficile! Troppo calmo, tutto fatto di meditazioni (leggi: seghe mentali) dei personaggi... Era necessario per spiegare un paio di cosette, ma ho riscritto il dialogo tra Ed e Alex tre volte. È molto complicato far comportare un bambino come... come quello che è: un bambino. E insieme far capire che è molto intelligente: prima dei cubi si parlava di un aereo giocattolo, ma ancora non avevo detto neppure che ad Amestris esistono gli aerei! Volevo che questa rivelazione arrivasse alla fine del capitolo. Perciò ho buttato tutto e riscritto da capo con i sempreverdi cubi con i numeri, che sono anche facili da immaginare per chi legge. Non è bellissimo Ed quando ha a che fare con i bimbi?

            Liris: mi pare di capire che provi una leggera... impalpabile... quasi inconscia avversione per Winry, esatto? Alex è più simpatico perché è più piccolo: magari tra venti o trent’anni sarà un delinquente con problemi di droga... no, ok, è improbabile.

            Babus: basta avere pazienza, e il nuovo capitolo arriva. Visto?

            meby138: povera! Gli orecchioni! Sono onorata che il mio capitolo ti sia servito a passare cinque minuti in allegria. Sul “meccanica preferita” ho dei dubbi, visto che buona parte dei fan della serie sembrano odiarla, e sinceramente non capisco bene il perché: a me piace molto, anche se nel manga è sviluppata un po’ meglio.

            Selfish: ringraziarmi perché Hedwig è morta? Beh, ehm, era solo un’esigenza di trama, non c’è bisogno di amarmi per questo... No, ok, fai pure che mi piace.

            Siyah: non credevo che Alex riscuotesse così tanto successo! A me piace moltissimo, ma a me piacciono tutti i bambini della serie, Thomas incluso (che non si considera affatto un bambino). Su Ed, non credo che Winry abbia partorito solo per fargli un dispetto, soprattutto dopo aver dichiarato che non ha intenzione di regolare la sua vita in funzione delle comparsate di Edward. Per l’alchimia, verrà inserita molto in fretta: dobbiamo lasciare un po’ a bocca aperta i piccoli Elric!

            Leuconoee: guarda che un figlio come Alex è una bella gatta da pelare! Oltre al fatto che devi tirarlo su di morale ogni volta che gli altri bambini lo isolano, devi convivere con una specie di monaco buddista... mancino! Io, alla giovane età di ventuno anni, ogni tanto ancora impugno la forchetta con la sinistra, e mia madre ci ha rinunciato a farmelo notare...

Comunque: Alex ha quattro anni. E mi segno la tua proposta di matrimonio, però dovrai metterti in fila perché mi si è già dichiarata Selfish :)

            Yolei87: no, Holze non è diventato la pappetta nera sul pavimento, poveruomo! E la grotta sotto Central City mi serve, darla a Scheska significherebbe trovarla invasa dai tomi. Edward non pensava davvero che Winry si conservasse per lui, anche perché non pensava di rivederla, ma in effetti sapere che si è sposata (e, quindi, innamorata, almeno per un certo periodo) è comunque un brutto colpo. E anche se il matrimonio con Artie è fallito, Alex resta lì, ignaro testimone di quel che è successo in passato.

(Non so da dove mi sia uscita questa frase... hmmm, devo venderla a quelli che fanno gli incarti per i cioccolatini.)

Edwin era, ovviamente, Papà Fletcher. Edwin Fletcher junior nascerà solo tra una quarantina di anni! Ora mi spieghi perché stiamo parlando di una fanfic che non pubblicherò mai?

               

   
 
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