La prima parola è sempre la più difficile da trovare. È difficile cominciare una storia senza dubitare di aver scelto il modo giusto, il tono adeguato, la scena che catturerà il lettore sospingendolo avanti, da un episodio all'altro, fino alla conclusione. La vita, in questo, è molto diversa perché spesso e volentieri non si preoccupa della forma ma solo del contenuto; ed è quello che conta. La difficoltà sta proprio nel momento in cui uno decide che vuole raccontare qualcosa. Quando si decide di raccontare qualcosa, si decide di avere un pubblico da soddisfare, un pubblico che non ha nessuna intenzione di accontentarsi di un prodotto scadente. E un prodotto di qualità non può fermarsi a riferire dei fatti senza sforzarsi di andare a cercare un senso, un messaggio, un insegnamento: di qui l'importanza della prima parola. Se, come ho detto, il raccontare è l'ardua impresa di mettere in parole organizzate ciò che la vita ci ha servito come fatti ed eventi, e quindi attribuire una forma a qualcosa che abbiamo conosciuto come puro e semplice contenuto, io ho scelto di raccontare l'esperienza più complicata della mia intera esistenza, per quanto questa si riduca soltanto ai vent'anni e poco più durante i quali ho respirato l'aria di questo pianeta. Non preoccupatevi, il racconto non sfocerà in una dissertazione filosofica: al tempo in cui mi sono accadute queste cose ero ben lontano dall'essere la persona riflessiva che sono diventato in seguito. Cercherò di rispettare il più possibile lo spirito dei miei diciotto anni, la spensieratezza di un'estate senza debiti da recuperare a settembre e di una voglia di avventure che si scontrava clamorosamente con la mia situazione famigliare.