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Autore: Ghostclimber    13/04/2024    2 recensioni
Rukawa era finalmente a bordo dell'aereo, diretto in America. La terra del basket.
E quella sensazione di cadere a pezzi, di sentire le cuciture della sua anima che cominciavano a tendersi, pronte a strapparsi, altro non era che il legittimo timore di fronte a qualcosa di nuovo e sconosciuto.
Genere: Angst, Drammatico, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Hanamichi Sakuragi, Kaede Rukawa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Shiao a tutti!
Non sono assolutamente emozionata, e sulla stessa lunga scia il cielo non è blu e l'acqua calda non è calda.
Onestamente adoro questa storia e adoro l'album su cui è basata, Long Cold Winter dei Cinderella. Ad ogni canzone corrisponderà un capitolo, e no assolutamente non è una scusa per riascoltarmele a ripetizione, ma che andate a pensare ahahaha (inserire meme con Bilbo Baggins che dice "No, no! ...e invece sì")
Comunque, spero vi piaccia, ringrazio l'utente di Tumblr che mi ha gentilmente fatto notare che Hanamichi appare in una rivista di basket nel manga Real, Hanamichi, non Rukawa, cosa che mi ha portato ad allucinare per venti minuti sulla domanda "CHE FINE HA FATTO RUKAWA?".
Chiedo scusa in anticipo alla Volpaccia maledetta per tutto il male che gli farò.
Battete un colpo se gradite, adesso la smetto di blaterare e vi lascio alla storia!
XOXO

 

Rukawa era finalmente a bordo dell'aereo, diretto in America. La terra del basket.

Il suo sogno si stava realizzando per davvero, e nemmeno Anzai aveva trovato altro da aggiungere quando aveva visto la lettera che Rukawa aveva ricevuto in risposta alla propria domanda di ammissione.

E nemmeno Hanamichi aveva potuto dire nulla.

Aveva solo chiesto, con una voce bassa e tremante che mal gli si addiceva, che cosa fossero esattamente loro, se c'era un loro, se Rukawa gli avrebbe telefonato.

Rukawa aveva risposto di no.

L'avrebbe chiamato, prima o poi, le possibilità che avesse dimenticato qualcosa da lui erano tante, e poteva aver bisogno che Hanamichi gli spedisse le sue cose. Ma la cosa su cui si doveva focalizzare era la necessità di inseguire il proprio sogno prima che arrugginisse.

Miyagi l'avrebbe aspettato all'aeroporto per dargli il benvenuto e aiutarlo nelle prime formalità, e gli aveva anche offerto un alloggio per i primi tempi: per un ritardo delle poste, Rukawa era dovuto partire con un preavviso di una settimana scarsa, e non avrebbe avuto il tempo di trovare una stanza con così poco tempo.

A Rukawa tremavano le mani, gli tremava il cuore. Gli pareva che una parte di lui stesse urlando per rimanere in Giappone, e quando l'aereo decollò, lo strappo alla bocca dello stomaco che accompagnò la spinta gli parve un macigno, prima premuto sulla pancia a mozzargli il respiro, poi sulla testa.

Una testa dura, la sua. Gliel'avevano detto in tanti, per ultimo Hanamichi. Rukawa vedeva ancora la sua sagoma, un po' curva, in controluce nella cornice della porta d'ingresso della sua misera casa, mentre glielo urlava a mo' di addio: “Hai una gran testaccia dura, Kaede!”

E poi, forse, un sussurro, qualcos'altro che Hanamichi aveva avuto troppa paura di dire ad alta voce, qualcosa che avrebbe annullato il suo smisurato orgoglio. Qualcosa che Rukawa aveva sentito spesso aleggiare nell'aria stantia della camera da letto di uno dei due, con l'odore del sudore e dello sperma che si mescolava a qualcosa di più atavico, a un afrore di panico, pesante, opprimente, come l'aria giallastra prima di un grosso temporale in arrivo. Qualcosa che Rukawa rifiutava di sentire.

Hanamichi era nel suo passato, ora, non nel presente e nemmeno nel futuro.

Nel suo presente c'era la hostess che proponeva ai passeggeri bevande calde, il viso distorto in una smorfia di plastica, immersa in una nube di profumo dozzinale che poco serviva a nascondere la sua stanchezza e la noia di dover sempre avere a che fare con lo stesso branco di stronzi stipati in una cassa da morto con le ali lanciata a chissà che velocità sopra al mondo.

Rukawa accettò un tè verde, che gli venne consegnato in una tazza di plastica: si sarebbe dovuto abituare anche a quello, come a tante altre cose, ma era pronto.

Sì, pronto.

E quella sensazione di cadere a pezzi, di sentire le cuciture della sua anima che cominciavano a tendersi, pronte a strapparsi, altro non era che il legittimo timore di fronte a qualcosa di nuovo e sconosciuto.

Ma lui sarebbe stato bene.

Lui era Kaede Rukawa, e Kaede Rukawa ottiene sempre ciò che vuole. E ciò che voleva era andare in America, giocare a basket, diventare il migliore e stare bene.

Finì il tè, reclinò appena lo schienale del sedile e ai accomodò per un pisolino, ripetendosi i propri obiettivi come un mantra.

Andare in America.

Giocare a basket.

Diventare il migliore.

Stare bene.

 

Davvero?

 

Una voce aliena nella mente gli pose la domanda da un milione di dollari. Era una voce fredda e scettica, che non aveva bisogno di argomentare: aveva buoni polmoni e tutta l'intenzione di usarli, e tanto bastava per forzare la stretta rete del mantra di Rukawa.

Rukawa si abbassò la mascherina sugli occhi e decise coscientemente di ignorarla: andare in America, giocare a basket, diventare il migliore, stare bene.

 

Non sarà che hai paura? Chiese la voce. Rukawa, troppo impegnato ad addormentarsi per controbattere, scivolò nel sonno con quella stessa domanda che gli rimbombava in testa.

 

*****

 

Miyagi stava per uscire di casa, con almeno mezz'ora di anticipo sulla tabella di marcia: a breve sarebbe stato il compleanno di Ayako, e lui contava di passare in una gioielleria molto carina che aveva adocchiato e spedirle un paio di orecchini che era sicuro le sarebbero piaciuti da matti. L'avrebbe mandato all'attenzione della mamma di Ayako, così da non rovinarle la sorpresa se fosse arrivato prima del tempo.

Ma apparentemente l'universo aveva altri piani per lui: il telefono squillò mentre già aveva le chiavi di casa in mano.

In tutta fretta si scalzò le scarpe di dosso, tirandole via con le punte dei piedi, e agguantò il ricevitore al sesto squillo: “Moshi mosh… volevo dire, hello?”

“Ryochin,” disse una voce che Miyagi stentò a riconoscere.

“Hanamichi?”

“Senti, ti devo chiedere un favore.”

“Hanamichi, in Giappone sono le quattro del mattino, che ci fai ancora sveglio?”

“Non riuscivo a dormire,” rispose Hanamichi con una voce stranamente cupa, quasi umida, come se stesse trattenendo le lacrime, “Senti, mi puoi dire più tardi che Kaede è arrivato sano e salvo?”

“Certo, ma… Hana…”

“Lui non lo farà, ma io ho bisogno di sapere che è arrivato, che si è sistemato, che non è da solo.” Miyagi tacque per qualche istante. Evidentemente si era perso qualche passaggio.

“Ma certo,” rispose infine. Non era certo un sacrificio, e Hanamichi non sembrava nelle condizioni di rispondere alle domande che giravano in testa a Miyagi. Come, ad esempio, quando erano passati da “Volpaccia maledetta” a “Kaede” e poi dritti a Rukawa che non l'avrebbe chiamato, senza passare dal via.

“Grazie, Ryochin,” disse Hanamichi. Ora la sua voce tremava, scossa dalle lacrime: “Sei un vero amico.”

“Hana, stai…?” Miyagi si interruppe. Forse era vero che non esistevano domande stupide, ma uno stai bene in quel momento sarebbe stata una domanda che davvero ci provava, ad essere stupida.

“No,” rispose Hanamichi, “Ma non fa niente. Grazie ancora, e ciao.” Nient'altro, se non il segnale di linea libera, che mai a Miyagi era sembrato così deprimente, neanche quando restava al telefono ore con Ayako e poi doveva riagganciare, con il cuore pesante di nostalgia e il desiderio struggente di prendere il primo aereo disponibile e volare da lei.

 

Turbato e preoccupato, Miyagi si rimise le scarpe e uscì. Passò dalla gioielleria, comprò gli orecchini -a forma di gufetto, Ayako non era il tipo da cuoricini e cagate simili ma adorava i gufi- e organizzò la spedizione. Allegò una lettera d'amore lunga quasi quanto Guerra e Pace per Ayako, sperando vagamente che non fosse altrettanto pallosa, e due righe per Ishikawa-san, per chiederle di dare il pacchetto ad Ayako per il suo compleanno.

Dopodiché, si diresse in aeroporto ad accogliere Rukawa.

Arrivò appena in tempo, ma se anche fosse stato in ritardo Rukawa non se ne sarebbe accorto: dormiva letteralmente in piedi, camminava sospinto dalla folla e Miyagi dovette andare a recuperarlo e trascinarlo a viva forza al nastro dei bagagli.

Gli piazzò in mano una tazza di caffè doppio e lo scosse per svegliarlo. In automatico, Rukawa bevve un sorso; era quasi tenero da guardare.

Quando i suoi occhi furono aperti e vagamente a fuoco, Miyagi disse: “Welcome to the USA!”

Rukawa bevve un altro sorso di caffè, le labbra appena incurvate nel sorriso di chi ancora non ci credeva per davvero, e rispose: “Finalmente.”

 

*****

 

Rukawa si era accomodato nella poltrona letto che Miyagi aveva comprato nell'eventualità che qualche amico decidesse di fermarsi a dormire: ancora prima che la sua testa toccasse il cuscino stava già ronfando alla grande. Miyagi si concesse di guardarlo per un attimo, chiedendosi se mai avrebbe trovato le palle di parlargli e chiedergli che cosa cazzo era successo con Hanamichi, poi chiuse la porta della camera da letto e tornò in anticamera. Prese il telefono, compose il prefisso del Giappone e digitò il numero di Hanamichi, che teneva in una rubrica su una piccola mensola che aveva attaccato lui stesso con una quantità inspiegabile di colla per mobili.

“Moshi moshi?” Rispose la voce di una donna.

“Sakuragi san, buongiorno, sono Miyagi Ruota. C'è Hanamichi?”

“Sì, caro, non è ancora andato a lezione, ora te lo passo. Come va, laggiù in America?”

“Tutto bene, signora, grazie, ogni tanto riesco anche a capire le lezioni!” rispose Miyagi, fingendo allegria. La donna ci cascò e rise con gentilezza, poi Miyagi sentì il rumore della cornetta che veniva appoggiata e la sentì chiamare Hanamichi e dirgli di sbrigarsi se non voleva fare tardi.

“Ryochin?” rispose Hanamichi, la voce tesa di ansia.

“È arrivato, sta bene. È qui da me, lo ospito finché non trova un'altra sistemazione, adesso sta dormendo.” Hanamichi tirò un lungo sospiro di sollievo.

“Grazie, Ryochin, non so davvero come ringraziarti,” disse. Miyagi finse una risata, mentre brividi gelidi gli scendevano lungo la schiena: quello non era l'Hanamichi Sakuragi che conosceva lui. Dov'erano i proclami? Dov'era l'atteggiamento da rockstar a cui tutto è dovuto? Miyagi si ripromise di indagare, e si appuntò mentalmente di parlare con Ayako. Mito e gli altri gli stavano simpatici, ma gli erano sempre sembrato, forse a torto e forse a ragione, un po' troppo goliardici: si sarebbe sentito molto più tranquillo sapendo che Ayako era al corrente della situazione e che avrebbe fatto in modo di essere da supporto ad Hanamichi.

Mise giù, e quando si voltò, Rukawa era lì in piedi nel corridoietto, lo sguardo come sempre imperscrutabile. Miyagi si sentì gelare. Lui non sapeva un accidente, ma Rukawa ovviamente sì, e il suo “ciao, Hanamichi, stai su, mi raccomando” non doveva essergli passato inosservato.

“Ecco, io…”

“Te l'ha chiesto lui?” chiese Rukawa.

“Sì,” ammise Miyagi. Non c'era un altro motivo plausibile.

Rukawa annuì lentamente: “Sapevo che l'avrebbe fatto.”

“Senti, mi spiace,” disse Miyagi, “Mi ha chiamato due ore prima che arrivassi, e sembrava distrutto, e io…” si interruppe. Una scintilla aveva attraversato lo sguardo di Rukawa; lui era stato lesto a nasconderla, ma Miyagi era più veloce e meno piegato dal jet lag.

“Va bene così,” disse Rukawa, “Io non posso sentirlo. Non ancora.”

Si voltò per tornare in camera, e Miyagi fece un passo avanti: “Aspetta!” Rukawa si fermò, senza tuttavia girarsi a guardarlo.

“Perché?” chiese Miyagi.

Rukawa tacque a lungo.

Infine, rispose: “Non ancora.” Senza aggiungere altro, tornò a dormire.

 

*****

 

Ayako salì sul treno e si mise davanti al finestrino per provare una credibile espressione sorridente e spensierata.

Fallì miseramente.

La verità era che la telefonata di Ryota le aveva scombussolato tutto quanto: stando a quel che lui le aveva detto, c'era stato un qualche tipo di storia tra Hanamichi e Rukawa, e quella storia era finita brutalmente quando Rukawa era partito per l'America, due giorni prima.

Prima ancora che Ryota glielo chiedesse, Ayako stava già dicendo che sarebbe andata a trovare Hanamichi. Aveva sempre sospettato che tra quei due gatta ci covasse, e sapeva che Rukawa aveva la delicatezza emotiva di uno schiacciasassi; solo le informazioni iniziali erano bastate a farle intuire che Hanamichi probabilmente non era messo molto bene.

Messo da parte il progetto di sembrare serena, prese in mano il libro di studi sociali e attaccò il quarto capitolo. Nei restanti venti minuti di viaggio contava di riuscire a finire almeno la prima pagina.

Ci riuscì, più o meno: l'ultimo paragrafo cominciava a due righe dalla fine della pagina e continuava per metà della successiva, e Ayako decise di rimandare ad un altro giorno.

Scese alla fermata della Shonan University e si rese conto di non avere la minima idea di dove fosse Hanamichi: nel dubbio, chiese dov'era il campo da basket. Anche se Hanamichi non fosse stato lì, prima o poi sarebbe arrivato, ne aveva la certezza.

Ebbe fortuna: gli allenamenti erano già in corso e Hanamichi era lì, ad occupare il suo posto sotto canestro. Per qualche istante, Ayako si concesse di farsi scaldare il cuore dalla vista dello straordinario giocatore che Hanamichi era diventato: preciso, potente, nei dieci minuti a cui Ayako poté assistere non mancò un rimbalzo. Era sempre sotto canestro, tentò solo un tiro che pareva degno di entrare in un manuale e per il resto si concentrò sui rimbalzi.

Poi, il coach fischiò la fine degli allenamenti e Hanamichi si diresse verso la panchina per recuperare la borraccia e un asciugamano; Ayako scese dagli spalti e disse: “Ehi, Re dei Rimbalzi! Che spettacolo!”

L'espressione corrucciata di Hanamichi si distese in un sorriso sincero che fece venir voglia ad Ayako di lanciarsi in avanti e abbracciarlo: “Ayako san! Che bello vederti, che ci fai qui?”

“Ho saputo che sei uno dei giocatori di punta dello Shonan, volevo venire a vedere di persona,” improvvisò Ayako, sorridendo, “vedo che i fondamentali che ti ho insegnato hanno dato il loro bel frutto!” Hanamichi si accigliò.

“Hai parlato con Ryochin,” disse, senza neanche scomodarsi a porla come domanda.

“Beh, ecco…”

“Avrei dovuto immaginarlo,” disse Hanamichi, il viso distorto in una smorfia sofferente che non gli si addiceva, “Non ce n'era bisogno, davvero, sto… non ce n'era bisogno.” Ayako gli si avvicinò di un passo, un po' intimidita da tutti quei giganti che si avvicendavano alla panchina. Era diverso, quando non ne conoscevi neanche uno, soprattutto dopo un anno e mezzo a frequentare un'università femminile.

“Hanamichi, per favore… Ryota è bloccato dall'altra parte dell'oceano con uno che non parla se non a mugugni, e io lo so, lo so che ti ha probabilmente trattato da schifo prima di partire, perché non è capace di…” Hanamichi la bloccò alzando una mano, poi bevve un sorso dalla borraccia e si asciugò il sudore dalla faccia.

“Va bene, senpai,” disse, “posso permettermi un'oretta di stacco da tutto, però lasciami prima fare la doccia. C'è un konbini dall'altra parte della ferrovia, dietro c'è un parchetto. Vuoi aspettarmi lì?” Ayako annuì, parzialmente convinta che Hanamichi non si sarebbe presentato.

“A tra poco, allora,” disse Hanamichi, poi le rivolse un sorriso accattivante a beneficio dei compagni di squadra, e Ayako uscì.

 

Venti minuti più tardi, il paragrafo che cambiava pagina era andato, anche più o meno capito; un'ombra coprì Ayako dal solo che scendeva, e Hanamichi si sedette di fianco a lei.

“Cosa leggi?”

“Studio per l'esame di studi sociali, è una palla mostruosa ma l'esame è obbligatorio,” rispose lei, chiudendo il libro con gratitudine.

“Allora, che vuoi sapere?” chiese Hanamichi senza guardarla. Ayako lo guardò aprire una confezione di onigiri e azzannare il primo.

“Beh, ecco… in effetti… non sappiamo nulla,” ammise.

“In terza liceo, io e Kaede ci siamo circa più o meno quasi messi insieme,” disse Hanamichi, “Ci stavamo menando come al solito, un attimo dopo stavamo limonando. È andata avanti per un bel po', non la limonata in sé, la storia, poi neanche due settimane fa mi dice che parte per l'America e se ne va,” Hanamichi si ficcò in bocca il resto dell'onigiri, lo masticò alla meno peggio e deglutì, “Gli ho chiesto allora se stavamo comunque insieme, gli ho chiesto di chiamarmi e lui ha detto solo di no, quindi immagino…” Ayako ebbe la prontezza di riflessi di acchiappare al volo la confezione di onigiri. La appoggiò sul libro e si sporse in avanti per accogliere tra le braccia Hanamichi, che senza preavviso era passato dalla calma artefatta ad un fiume in piena di lacrime.

Lo cullò per tutto il tempo necessario, poi gli mise in mano un pacchetto di fazzoletti, recuperato in fretta e furia dalla borsa.

Hanamichi lo aprì con lentezza, le dita che tremavano, e il lieve strappo della linguetta adesiva sembrò risuonare nel vuoto del parchetto.

Ne estrasse uno, si asciugò gli occhi e si soffiò rumorosamente il naso, poi disse: “Questo è quanto. So che l'America è sempre stato il suo sogno, non ho intenzione di convincerlo a tornare, ma mi fa piacere se Ryochin ogni tanto mi chiama e mi dice come sta Kaede.”

“Hanamichi, stai…”

“No. Ma me la caverò, come ho sempre fatto,” rispose lui.

“Ti spiace se ogni tanto passo a trovarti?” Hanamichi, che si era chinato ad appoggiare i gomiti sulle ginocchia, le mani giunte a tormentare il fazzoletto, si voltò appena per guardarla, un sorriso dolce e triste sulle labbra: “Basta che ogni tanto vieni anche alle mie partite,” rispose, poi guardò di nuovo verso il basso, distogliendo lo sguardo da Ayako, “Di questi tempi, il basket è l'unica cosa che mi fa stare bene.”

“Verrò,” rispose Ayako, appoggiandogli una mano sulla spalla.

 

*****

 

Rukawa rientrò dalla prima sessione di basket statunitense e si lasciò cadere di faccia sul divano letto.

Il cuscino non gli rendeva molto facile la respirazione, e da un lato Rukawa accarezzò l'ipotesi di restare lì fino a svenire; almeno, si disse, nasconde le lacrime.

Era stato un vero disastro.

All'inizio si era distinto: Miyagi gli aveva passato la palla e lui si era smarcato da quattro avversari in una discesa a canestro a suo dire impeccabile, per poi segnare con un tiro in sospensione.

Ma il coach non aveva cambiato espressione, non l'aveva raggiunto dicendo che lui sarebbe stato il nuovo Michael Jordan, neanche un bravo così per gradire.

E Miyagi non gli aveva più passato la palla.

Certo, altri compagni si erano messi in mezzo e un passaggio sarebbe stato rischioso, ma Rukawa sapeva che ne sarebbe valsa la pena, e Miyagi anche.

“Rukawa, vuoi una tazza di tè?” chiese Miyagi. Rukawa rispose con un mugugno soffocato. Non solo nessuno sembrava apprezzare le sue qualità, ma erano tutti velocissimi e francamente giganteschi; Rukawa col suo metro e ottantasette si sentiva un nano, e non aveva idea di come facesse Miyagi a destreggiarsi così bene.

“Ehi, ecco il tè,” disse Miyagi, e Rukawa si alzò a fatica per prendere la tazza. Gli bruciavano muscoli che nemmeno sapeva di avere.

“Senti, Rukawa… dobbiamo parlare di come hai giocato.”

“Nh,” rispose Rukawa, “Non mi hai più passato la palla.”

“Non fare il Genio della situazione, sai benissimo che non ti sei più trovato in una buona posizione per ricevere un passaggio,” rispose Miyagi, poi bevve un sorso di tè. Rukawa lo imitò, per mitigare il dolore che aveva sentito alla sola menzione di Hanamichi.

Ma perché, poi, doveva fare così male?

“Ma è anche perché il coach detesta il gioco così egocentrico. Se avessi continuato a passarti la palla, tu saresti passato a panchinaro, e forse per un po' pure io.”

“Lo sai che io gioco così,” rispose Rukawa, “E sai anche che vado a colpo sicuro.” Miyagi sospirò.

“Certo che lo so,” ammise, “Ma non è così che giochiamo qui. Qui non ci metterebbero due settimane a marcarti così stretto da farti dubitare di essere ancora in campo. E soprattutto, il coach non vuole che giochiamo così. Siamo qui per imparare a giocare, non per fare i fenomeni.”

“È così che la pensi?”

“È così che la pensa lui. E purtroppo è lui che decide se sei in squadra oppure no.” Rukawa rimase in silenzio per un po', e Miyagi attese, paziente, sorseggiando il suo tè e scrocchiando ogni tanto le dita dei piedi, coperti solo dai calzini.

“Quindi devo giocare di squadra?” chiese Rukawa.

Miyagi sospirò di sollievo: “Sì, esatto.” Rukawa borbottò qualcosa.

“Come? Non ho sentito.”

“Senza Hanamichi,” ripeté Rukawa, ad un volume ora udibile. Miyagi non seppe cosa rispondere.

“Puoi farcela, Rukawa,” disse infine, glissando sull'argomento caldo, “Sei il migliore, no?”

Rukawa annuì, poco convinto, e Miyagi se ne andò in camera a studiare.

 

Rukawa rimase immobile, la tazza ormai quasi vuota e decisamente fredda tra le mani, fermo a percepire solo il vuoto che Hanamichi aveva lasciato, il vuoto che lui stesso aveva creato lasciandolo così male.

Perché l'aveva fatto?

Finì il tè, che gli parve amaro quanto la lontananza da casa, posò la tazza sul tavolino e si coricò.

Si addormentò con Hanamichi nella mente, e sognò di essere con lui, a letto, a farsi le coccole dopo aver fatto l'amore. Hanamichi era disteso sulla schiena e Rukawa se ne stava accoccolato contro il suo petto, a giocherellare con i suoi capezzoli. Non parlavano, ma Hanamichi canticchiava qualcosa a bassissima voce e ogni tanto rideva tra sé, felice.

Poi, Hanamichi disse: “Qui hai un filo tirato.” Allungò una mano, prese un filo invisibile e lo tirò come per strapparlo, ma così facendo lacerò il fianco di Rukawa, che si risvegliò terrorizzato nella stanza buia, nel cuore della notte, ancora intero ma solo e dall'altra parte del mondo.

   
 
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