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Autore: Yrina    16/04/2024    0 recensioni
Quasi si sentiva una ladra: da qualche parte nel mondo, magari neanche troppo lontano da lei, qualcuno stava finendo i suoi giorni pur avendo ancora qualcosa di molto importate da fare, lei invece temeva di averne a disposizione ancora molti e nessuna idea valida sul miglior modo di metterli a frutto. Era venuta al mondo come tutti, senza che nessuno le avesse chiesto il proprio parere e forse buttare via la sua unica libertà era in qualche modo anche un atto di ribellione dovuto che più persone dovevano iniziare a considerare seriamente
Genere: Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sveglia. Colazione. Pulizie. Relax. Pranzo. Attesa. Cena. Letto.
Sveglia. Colazione. Pulizie. Relax. Pranzo. Attesa. Cena. Letto.
Sveglia. Colazione. Pulizie. Relax. Pranzo. Attesa. Cena. Letto.

Questa era la vita che ormai da quasi un anno scorreva inesorabile in una casetta anonima e decisamente fuori mano. Noiosa, priva di stimoli e interessi, a suo modo tranquillizzante. Affrontare un contrattempo iniziava a diventare un problema perché uscire dalla routine era quasi un dolore fisico, un senso di disorganizzazione che pervadeva il suo corpo interiore, ribaltandosi subdolamente in stilettate d’ansia.
Quando il momento di andare a letto arrivava finalmente, accolto con l’entusiasmo di una festività e le luci si spegnevano, a volte, si soffermava sui suoi giorni tutti uguali e sospirando considerava che grossa perdita di tempo erano. Quasi si sentiva una ladra: da qualche parte nel mondo, magari neanche troppo lontano da lei, qualcuno stava finendo i suoi giorni pur avendo ancora qualcosa di molto importate da fare, lei invece temeva di averne a disposizione ancora molti e nessuna idea valida sul miglior modo di metterli a frutto. Stava certamente derubando qualcuno sfruttando malamente l’opportunità della vita stessa, ma non è che avesse mai davvero voluto trovarsi in quella situazione, era venuta al mondo come tutti, senza che nessuno le avesse chiesto il proprio parere e forse buttare via la sua unica libertà era in qualche modo anche un atto di ribellione dovuto che più persone dovevano iniziare a considerare seriamente. Non ci credeva davvero, ma tant’è. Niente sarebbe andato incontro al cambiamento nella sua vita. Cosciente ne era cosciente, contenta anche in un certo senso, in fondo fin da giovanissima aveva accettato una verità universale che più o meno recitava “ci sono cose che tu non puoi cambiare e che devi accettare così come sono”, dunque considerato che questo era ciò che non poteva cambiare e doveva accettare, si era definita contenta che non fosse altro, più doloroso o più complesso.
E d’altro canto, che male poteva fare sopravvivere anziché vivere davvero? Certo, non sarebbe andata incontro all’affrancamento che l’amore portava, ad esempio, alle eroine di Jane Austen, non avrebbe raggiunto la fama doppiando i traguardi di Agatha Christie, ma questo non significava che nel suo proprio spazio non potesse essere la migliore in qualcosa, qualsiasi cosa, purché potesse dedicarvisi comodamente da quella casa che tanto aveva odiato da bambina e che ora la zavorrava alla realtà.

E si svegliava. E faceva colazione. E puliva. E si rilassava per un poco. E pranzava sola e svogliata in silenzio. E attendeva che il buio calasse. E cenava sola e svogliata in silenzio. E finalmente andava a dormire anche se il sonno tardava ad arrivare oppure l’abbandonava del tutto.
E così una sera come le altre, dopo aver quasi portato a termine il suo rituale quotidiano di sopravvivenza, si sedette sulla sponda del letto, si tolse i calzettoni bianchi di cotone, si tolse la vestaglia che poggiò con cura, ben ripiegata, ai piedi del letto e si sbilanciò verso il cuscino per insinuare le gambe tra le lenzuola. Gli occhi si fermarono per un attimo sul lungo rettangolo di parete bianca che rimaneva scoperta dal grosso armadio che stava sul lato destro di fronte al suo letto, proprio accanto a lei.
Sulla parete, da terra verso su per settanta o settantacinque centimetri circa, si estendeva una macchia di bianco più scuro, bianco bagnato, che continuava dietro le spalle dell’armadio in legno di noce. Dietro quella parete c’era il bagno, e proprio in quello stesso punto c’era il lavandino. Dunque, quella orrenda, triste, viscida macchia era una perdita d’acqua! Una perdita che significava idraulico, piastrellista, pulizie extra, spese extra, rimanere senza acqua per qualche ora dovendo posticipare o anticipare le sue pulizie quotidiane, ovviamente voleva dire anche e soprattutto estranei in casa che avrebbero portato sporco, giudizi, parole che lei non voleva sentire, gente che avrebbe posato le sue mani sui suoi oggetti e magari li avrebbe anche spostati, avrebbe soppesato il loro valore silenziosamente pretendendo di sapere tutto di lei e di come viveva la sua vita.
Mentre rimaneva puntellata su un gomito, semisdraiata con gli occhi fissi su quel pezzo di muro sentì un rumore secco come di una bacchetta di legno di mogano che si spezza in due parti disuguali. Lo schiocco, lei lo sapeva bene, veniva da dentro di lei, ma non sapeva cosa significasse. Non sapeva se avesse fatto male e di certo non sapeva fino a che punto fosse normale, ma quella su cui teneva fissi gli occhi era una perdita. Non solo una perdita d’acqua, una perdita di sicurezza, una perdita di agio, una perdita di tempo e di denaro, una perdita di sanità mentale tutto sommato.
Il braccio le si era addormentato, la testa dell’omero insaccata nell’articolazione della spalla le doleva, i piedi erano freddi e rigidi con le dita vagamente violacee alle estremità e nonostante tutto quel tempo passato a fissare quella macchia impura sul candore della parete non poteva staccare gli occhi da lì, ipnotizzata dal senso di trauma che emanava.
Cadde intontita dal sonno, con la testa sul cuscino chiuso in una federa bianco brillante e la luce ancora accesa sul comodino. Chiuse gli occhi sopraffatta dalla sua umanità mentre si cantilenava a mo’ di ninna nanna una sola parola: “perché?”. Poi sognò che stava nel suo letto, con la testa sul cuscino chiuso in una federa bianco brillante, accanto a lei il comodino e poi la parete su cui stava addossato il suo grande armadio. Su quella stessa parete una macchia di umidità si espandeva in tutte le direzioni, crescendo in dimensione e oscurità man mano che fagocitava parti di muro, di battiscopa, di pavimento e oh! Impossibile! La macchia sembrava muoversi come l’aria che esala dall’asfalto al sole del mezzogiorno di agosto. No, non sembrava, era proprio così! La macchia si era distaccata dal muro e si era avviluppata al bordo del legno di noce dell’armadio. Non poteva crederci, non era così che funzionavano le macchie di umidità, ma non poteva neppure alzarsi per andare a controllarla, era bloccata tra le lenzuola come se solo la sua mente fosse sveglia e reattiva ma il suo corpo fosse ancora completamente addormentato, assolutamente morto si potrebbe quasi dire.
Il sole era alto nel cielo da molte ore quando si decise ad aprire gli occhi, sveglia, confusa e incosciente che quello sarebbe stato il primo giorno di una lunga serie di giorni che potevano andare nel capitolo della sua vita intitolato “Rottura di una Routine”.
Iniziò in modo irritante quella tarda mattinata perché, chiaramente, si trovava indietro con la sua agenda: alle dieci e dieci era appena uscita dal letto ma solitamente alle dieci e dieci si rilassava guardando una soap opera in tv ponderando distrattamente se cucinare i peperoni o le zucchine, oppure se era un martedì o un venerdì a quell’ora era appena uscita per fare la spesa e sarebbe stata via esattamente un’ora e tre quarti. Invece era lunedì, era ancora confusa dal sonno, non aveva ancora fatto colazione e proprio aldilà dello scendiletto, sul muro, la guardava una chiazza umida di bianco più scuro del normale che le dava uno spasmodico prurito dentro il cranio, dietro, dove sta il cervelletto. La fissò per qualche secondo intontita e un po’ a disagio, poi si mosse. Erano già le dieci e trenta e aveva passato venti minuti fissando il muro senza fare altro. Non poteva permetterlo. Cosa si era messa in testa quella macchia? Cosa pensava di fare, farla morire di ritardo? Oh be’, non la conosceva bene allora. Nossignore. C’erano cose da fare, cose che andavano fatte e dunque si alzò mettendo i piedi nelle pantofole. Senza mettere i calzettoni perché non c’era tempo da perdere. O meglio, non c’era tempo per tutto e infatti saltò la colazione perché era in tempo ancora per il pranzo e non lo avrebbe sciupato per guadagnare qualcosa che ormai era andata persa. Non c’era tempo per pulire minuziosamente tutto però c’era tempo per il relax. E d’altra parte apparentemente si era rilassata fino a quel momento, meglio operare una strategia di aggiustamento: via il relax, al suo posto le pulizie. Iniziò e portò a termine quasi tutte le stanze, per ultima tenne la camera da letto, come al solito. Quel giorno però rientrando, mentre brandiva la scopa come uno spadone e la paletta come uno scudo, si sentì invadere dal senso disagevole di essere osservata e per riflesso si mosse svelta e silenziosa verso la finestra aperta: non c’era nessuno. Nondimeno si sentiva osservata, ma poteva fare finta di niente e concentrarsi dopo su questo fatto. Le mani allegre lavorano meglio si sa, così iniziò a ripassare il contenuto semivuoto del frigo, l’indomani sarebbe stato giorno di spesa e quindi oggi era il giorno degli avanzi.
Il telefono sul mobile del corridoio squillò cinque volte, lei quasi non lo sentì com’era intenta a rientrare nei tempi. Era probabilmente sua sorella che la cercava per fare pettegolezzo su questo o quell’altro cretino, poteva e doveva aspettare però, perché lei era in ritardo. Certo, stava recuperando benissimo, ma aveva dovuto lasciare indietro molte cose, cose importanti per lei. Mentre finiva di dare lo straccio nella sua stanza le sovvenne che aveva perso la sua puntata quotidiana della soap opera e sentì la furia montare mentre le braccia si irrigidivano e i pugni si stringevano. Ovviamente non era un grosso problema, c’erano le repliche dopo cena e lei le seguiva il martedì e il venerdì, ma non il lunedì! Il lunedì no, il lunedì seguiva la storia mentre stava acciambellata sul divano inorridendo per i tradimenti e sognando ad occhi aperti con i protagonisti. Cosa stava facendo quella macchia? Che male le poteva aver fatto, lei, una povera donna sola, per portarla ad essere così crudele? Con le lacrime che le appannavano gli occhi decise in modo ferreo che avrebbe chiamato l’idraulico, poi il piastrellista e se fosse servito avrebbe anche pagato a rate dei nuovi sanitari. Tutto, ma non quella macchia. Quella lurida cosa doveva andare via da casa sua perché stava avvelenando tutto. In un moto di disperazione andò verso il mobile del telefono ed estrasse l’agenda dal cassettino sottile per cercare il recapito del suo idraulico, poi il suo proposito venne meno vacillando: lei non aveva un idraulico, né un avvocato, né un commercialista. Aveva una sorella ma davvero non voleva sentirla, anzi, non voleva farsi sentire da lei. Era ben cosciente che se avesse emesso un solo, singolo fiato sarebbe stato esasperato, lamentoso, depresso e lagnoso. Era colpa della macchia.
Occhieggiò la sua stanza dal corridoio e vide il pavimento asciutto, quindi, entrò e si sedette sulla sponda del letto furiosa con quel versamento d’acqua nel suo muro. Ah, se l’avrebbe sentita! Forte e chiara l’avrebbe sentita adesso, le avrebbe proprio dato il fatto suo a quella stupida macchia. Si lasciò pesantemente cadere sul letto con gli occhi vuoti fissi sul muro umido e sentì di nuovo la bacchetta di mogano dentro di lei che si spezzava in un altro punto facendola sobbalzare di sorpresa, eppure non vi prestò attenzione perché quel bianco occhio gigante di fronte a lei, opaco e dai bordi irregolari aveva catturato il guizzo di vita della sua mente, l’aveva distratta dalla sua vita a punto che le ore di luce erano passate e quelle di buio si iniziavano ad avvicendare impedendole di vedere niente di fronte a sé se non accendendo la luce. Ma non c’era alcun bisogno di vedere la macchia con gli occhi perché lei era dentro la macchia e la macchia era dentro di lei e quel pozzo che puzzava di umido e di stantio aveva iniziato anche a muoversi ondeggiando prima e poi in piccoli cerchi concentrici bianchi che dal centro fluttuavano verso il bordo esterno. Poteva sentire il rumore della macchia, un bzzz intermittente che le isolava l’udito dai rumori esterni e la privava della volontà.
Quando scosse la testa ritornando alla realtà pensò subitaneamente che doveva sbrigarsi a tagliare le zucchine per il pranzo e poi la consapevolezza del buio la investì lasciandola inebetita, man mano che scorrevano i secondi la sorpresa cedeva il passo al terrore blu elettrico che si diffondeva da un posto vicino ai suoi bronchi giù per le gambe pesanti e su fino alle spalle indolenzite e al cervello scomposto. Accese la lampada sul comodino e là, davanti alla sua faccia la vide ancora. Le faceva lo stesso effetto che qualche secolo prima i cadaveri impiccati avevano fatto ai viandanti: paura, pietà, sconforto, pericolo e tanta repulsione. Subodorò nell’aria della sua stanza un odore dolciastro di decomposizione, di putrescenza incipiente e seppe che emanava dalla macchia, ma cosa fare? Sapeva che se avesse chiamato un idraulico la macchia lo avrebbe infettato e lui sarebbe marcito e poi morto, solo lei poteva starle vicino poiché lei era immune al suo potere umidiccio. Certo, perdeva il senso del tempo a volte e la faceva spesso esasperare, ma si poteva davvero aspettare che quel mostro non la affliggesse affatto? Qualcosa doveva pur succederle, d’altronde era un fatto straordinario e solo lei poteva davvero maneggiarlo senza farsi male.
Fece per alzarsi e poi il suo occhio fu catturato di nuovo dalla macchia e da qualcosa dello stesso colore bianco-grigiolino che si muoveva lentamente su di essa. Forse… un verme? Era possibile? Scivolò inavvertitamente oltre il bordo della realtà di nuovo, rimanendo piegata col viso a pochi centimetri dal muro che marciva. Mezz’oretta dopo le gambe cedettero e cadde a terra con un tonfo sordo, seduta a gambe aperte e con le mani scomposte sulle cosce. La bocca si era dischiusa e poco a poco la mandibola si era aperta lasciando colare un rivolo di saliva in costante flusso perché la deglutizione era cessata. Il maglione arancione aragosta era inzuppato di saliva sul seno destro ma lei non se ne accorgeva, né di questo, né del vento freddo di novembre che entrava dalla finestra rimasta aperta dalla mattina, né dello stimolo incipiente di liberarsi in bagno.
Alle prime luci dell’alba rinvenne. La prima cosa che vide fu la macchia di fronte a sé, un moto di terrore primitivo le lambì la bocca dello stomaco; eppure, in lei era nato qualcosa che ancora non conosceva.
Si alzò a fatica tenendo sempre la macchia a tiro, chiuse la finestra, si cambiò indossando il pigiama e i calzettoni e corse in bagno contando i secondi che la separavano dal ritorno alla macchia. Ne sentiva il bisogno urgente, mai di nulla aveva avuto così bisogno, né di una sigaretta quando da ragazza ne fumava venti al giorno, né di un uomo quando era buio e il letto un po' troppo largo per una sola persona, né di cibo o acqua o di pulire o di rassettare. Era tutto un altro bisogno, uno primitivo, incoerente che annullava tutti gli altri. Era una sorta di appartenenza a lungo negata e in cui si era smesso di credere e che di colpo si manifesta.
Era casa.
Ritornò in camera e si sedette sullo scendiletto a gambe incrociate, un plaid sulle spalle e lì attese di andare a casa e finalmente ci andò.

Così, quattro giorni si erano susseguiti tutti uguali l’uno con l’altro. Tutti con lei lì seduta, svuotata, scarica, assente. Rinveniva sempre meno spesso e tuttavia non se ne preoccupava. Le zucchine erano ammuffite nel cassetto del frigo, l’aria era pesante in casa, e per quanto sconveniente fosse, lì dove era lei, emanava un puzzo pungente di orina poiché, evidentemente, nonostante la sua mente fosse segregata in chissà che posto lontano e misterioso il suo corpo era ancora un corpo vivo con bisogni e necessità da espletare. Poi si svegliò tanto improvvisamente quanto si era assentata e in ordine si susseguirono confusione, stanchezza, incredulità, vergogna e paura. Quest’ultima non era quel terrore irrazionale che già precedentemente aveva provato, no, era la paura che scaturisce dal riconoscere la propria miserabile condizione, la paura silenziosa che sa che qualcosa ha bisogno di essere fatto ma non sa come farlo, men che meno farlo bene, la paura che non ha parole, solo lacrime. Pianse seduta di fronte a quella macchia di umido, così innocua e ordinaria che le lacrime caddero ancora più copiose. Era malata, non vi erano dubbi. Era grave probabilmente.
Raccolse lo scendiletto insozzato e andò in bagno, aprì il balcone e lo posò a terra, fuori nell’aria fresca, poi si spogliò velocemente e buttò il pigiama lurido e l’intimo nel cestino tra il bidet e la tazza ed entrò nella doccia beandosi dell’acqua calda sulla pelle e sui capelli, strofinandosi alacremente con un bagnoschiuma dal profumo agrodolce di mandorle e pianse molto. Non c’era niente, pensò, che acqua calda e lacrime non potessero ridurre a qualcosa di affrontabile. Avvolta nel suo accappatoio color pesca si sentiva lontana almeno vent’anni dall’increscioso incidente della sua reiterata perdita di coscienza di fronte a una macchia d’umidità. Quasi si sentiva di sorridere, in fondo tutti subiscono un po’ gli effetti dello stress e la sua poteva essere solo una piccola variazione sul tema, o magari un lieve esaurimento nervoso, sapeva che nella sua famiglia c’erano stati un paio di casi.
Si girò verso la macchia e le parve di sentire un lontano brusio e dunque qualcosa nel suo corpo cambiò, quasi una risposta fisiologica a uno stimolo eccitante, si protese verso la macchia con le pupille dilatate ed il respiro lievemente affannato. Niente. Il brusio si era abbassato fino a cessare. Confusa si allontanò e improvvisamente rimase congelata sul posto, realizzando che il brusio era la chiave per entrare nella macchia e la macchia dentro di lei, ma se il brusio non l’avesse più avvolta allora tutto sarebbe finito. Cosa avrebbe fatto? Come poteva vivere? Che senso avrebbe avuto avere mille giorni davanti a sé se non sarebbe più potuta tornare a casa?
Ah, sgomento! Impossibile anche solo pensarci! Ancora nell’accappatoio e con i capelli bagnati si inginocchiò davanti alla macchia imperturbabile e poso l’orecchio sull’ intonaco inzuppato e cedevole e allora sentì un lieve bzzz lontano, quasi impercettibile se non si fosse saputo cosa cercare, ma lei sapeva perfettamente cosa stava cercando e seppur debole e lontano, l’aveva trovato!
Presa da una frenesia sconosciuta fino a quel momento, sorridendo, prese a graffiare la superficie irregolare del muro, butterata dalla perdita che aveva inzuppato gli strati e rendeva quello più esterno arrendevole agli artigli nevrastenici della donna. Fame. Sì, la sensazione che sentiva e che l’avvolgeva in una coperta viola cupo sembrava fame ma non lo era, almeno non come la intenderemmo normalmente. C’era fame, voglia, bisogno, appartenenza, gioia, disperazione, eccitazione, solitudine ed il suo contrario, paura e cambiamento forse un po’.
Sentiva il brusio sempre più vicino ma ancora terribilmente lontano, aveva grattato l’intonaco con le unghie ed ora queste iniziavano a stridere sullo strato subito seguente, molto più duro ed irregolare. Si fermò spazientita: era inutile, doveva uscire in giardino e cercare qualcosa che potesse aprire uno squarcio nel muro e lasciare uscire il brusio così che potesse avvolgerla e lasciarla andare dove doveva andare. Scalza corse fuori in giardino, con l’accappatoio che le si apriva ai lati come le ali di un pipistrello color pesca, si aggirava nervosa, doveva trovare qualcosa con cui colpire il muro, non aveva tempo da perdere.
Gli occhi le caddero su un piccone riverso insieme a una vanga e un rastrello, in giardino, vicino al pozzo. Sarebbe andato benissimo. Lo raccolse a fatica e lo trascinò dentro, entrò e lasciò la porta d’entrata spalancata: ormai non sapeva più come fermarsi, sapeva di non essere lucida come avrebbe dovuto, ma non le importava, stava per andare in un posto in cui era attesa. Era questa la differenza tra qui e lì.
Divaricò le gambe di fronte al muro scorticato dove c’era una macchia di umidità e distanziò le mani sul manico del piccone, era concentratissima, ogni fibra del suo essere tesa a distruggere l’ostacolo tra lei e il brusio di benvenuto a casa. Il primo colpo, il secondo, il terzo, il quarto. Tutti colpirono in punti diversi della macchia scalfendo vagamente il cemento. Esasperata posizionò il piede sinistro in avanti, quello destro più arretrato, le ginocchia flesse, le mani sempre ben distanziate sul manico pesante e poi il piccone oscillò da sopra la sua testa, giù, in picchiata verso il muro dove la lama schiacciata si conficcò poco in profondità, mentre quella appuntita e ricurva puntava ammiccando verso la gola della povera donna che ormai sembrava aver perso del tutto il contatto con la realtà.
Con i capelli quasi asciutti e completamente spettinati e l’accappatoio che sventolava come un camice medico, la donna lasciò fuggire fuori dalla bocca un latrato esasperato, e con più forza di quanto avesse voluto usare riuscì a disincagliare il piccone e ripropose la stessa posa da escavatrice e vibrò un altro colpo più in basso dove il piccone rimase nuovamente incastrato. Ma qualcosa era cambiato, ora da quel medesimo buco sentiva il brusio, era ancora un po' distante ma era anche abbastanza vicino, pensò, proprio dietro la punta del piccone. Sorridendo inebetita si avvicinò con le ginocchia flesse, la schiena ingobbita e l’orecchio teso a sentire qualsiasi variazione di suono.
Disgraziatamente ciò che aveva tralasciato di calcolare era proprio l’accappatoio color pesca il quale, così piegata come stava, aveva preso a strisciare a terra due lembi proprio di fronte ai suoi piedi.
Nell’esatto momento in cui si beava di sentire sempre più chiaramente il brusio che significava casa e si avvicinava verso la punta del piccone il suo piede destro calpestò il lembo di spugna che gli pendeva davanti, lei non fece neppure in tempo a realizzare come si stava pericolosamente sbilanciando con l’occhio destro esattamente nella traiettoria della punta esterna del piccone conficcato nel muro.
Mentre il brusio l’avvolgeva dentro al suo corpo portandola dove era attesa, fuori dal suo corpo la punta di metallo penetrava nel bulbo oculare facendosi spazio mentre il sangue e un liquido giallastro esplodevano fuori e il cervello si divideva accogliendo quello sperone freddo e sporco. La pesantezza del corpo inerme l’aveva fatta scivolare ancora meglio sulla punta ora lubrificata ed essa usci con uno schiocco secco, come di una bacchetta di mogano sul lato posteriore del cranio, all’altezza del cervelletto.

Poi più nulla.
   
 
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