10°
Capitolo
«Pensavo
avresti continuato a evitarmi» Stiles avrebbe mentito se non fosse stata quella
la sua idea. Per due giorni le aveva girato alla larga e affrontarla non era
tra le prime cose della sua lista.
«Mi
dispiace» era mortificato, ma era stato più forte di lui.
Lui
e Erica sedevano uno di fronte all’altra in una tavola calda, una che non
frequentavano quotidianamente. Confrontarsi con lei al Crescent Moon non
lo rassicurava, troppi sguardi indiscreti da quando ci lavorava a pieno ritmo,
quindi aveva deciso di optare per qualcosa di diverso.
Erica
gli dedicò un’occhiata attenta per qualche secondo, il capo dell’umano
leggermente inclinato a celare il suo viso, le spalle rigide e l’odore
dell’umiliazione che le appestava l’olfatto. Inserì il suo cucchiaio nella
zuppa di cipolle che aveva ordinato, per poi portarlo alla bocca senza nemmeno
soffiarci sopra. «Dispiace a me. Avrei dovuto essere più attenta, scegliere
parole migliori».
«Hai
solo descritto come ti sei sentita» Stiles non aveva idea di cosa accadesse
realmente quando il sonnambulismo aveva il sopravvento su di lui. Suo padre non
si era mai espresso e Derek era l’unico che gli avesse dato un quadro generale,
ma cosa si provava veramente a vederlo vagare nel cuore della notte incurante
di se stesso, perfino provocandosi volontariamente delle ferite?
«So
che questa situazione ti fa stare male, sei abituato a nascondere i tuoi
problemi, ad affrontarli da solo, ma è qualcosa di troppo grande, Stiles»
sospirò con dispiacere, il cruccio del figlio dello sceriffo lo avvertiva
ovunque. «Mi hai davvero spaventata. Derek aveva tentato di prepararmi, ma non
credevo fosse così grave».
Quindi
era grave, non poteva credere di non averne alcuna
consapevolezza. L’unico dato che aveva era la radicata preoccupazione che sia
suo padre sia Derek emanavano. «Non volevo mi vedessi così».
Già,
Stiles era inaspettatamente orgoglioso e riservato. Era capace di scovare ogni
segreto nella persona che aveva di fronte, invadente, ma non permetteva lo
stesso. «Forse siamo noi che abbiamo fatto troppo affidamento su di te, sei
sempre stato la nostra roccia» non credeva che nei due anni trascorsi separati
i fatti fossero cambiati. Stiles non l’aveva aggiornata molto su quegli aspetti
e Derek non era stato da meno, ma quando era stato necessario che lei, che
tutto il branco che seguiva il lupo dagli occhi rubino e zaffiro, sapessero
qualcosa di più per affrontare ciò che rendeva la vita di Stiles più
affaticata, intricata, avevano aggiornato blandamente le informazioni. «Ma,
adesso, sei tu ad aver bisogno di una roccia e quella roccia è Derek».
La
matricola si trovò ad annuire automaticamente senza volerlo davvero e si tuffò
sulla zuppa di funghi, calda e avvolgente, cosparsa di piccoli quadratini di
pane tostato che davano gioia al palato e all’organismo che necessitava di
qualcosa che lo riscaldasse tempestivamente. «Non avrei mai pensato che Derek
potesse essere così…» gli mancavano le parole per descriverlo nel modo più
corretto, che gli rendesse giustizia. «Una guida sicura. Sempre presente,
sempre pronto ad intervenire. Non ha tutte le risposte, ma si impegna a
trovarle. A trovare il modo giusto di agire e non ti lascia da solo. Prima non
ne voleva sapere niente di me, non mi voleva nemmeno nello stesso edificio» ed
invece in quello sprazzo della loro vita, condividevano perfino il letto. «Anche
se vorrei cavarmela da solo, non lo rifiuterei. Cristo, a volte sento
che lo seguirei in ogni angolo del globo».
La
mannara era elettrizzata e entusiasta delle parole del piccolo umano, della
speranza che sorgeva in lei. «Prima non voleva saperne di nessuno, non era un
fatto personale» era una realtà incontrovertibile. Derek aveva avuto
necessariamente bisogno di compiere un percorso e quello non si era ancora
concluso. «So come ti senti sul seguirlo, è una cosa che proviamo tutti noi».
E
come poteva essere diversamente? Erica l’aveva riconosciuto per prima e ciò si
era scatenato anche in Boyd ed Isaac. Stiles se ne sarebbe mai accorto prima?
Con gli strati di muro che Derek innalzava continuamente davanti a lui,
impedendogli perfino di sfiorarlo. «Credo che, se Derek dovesse mantenere la
sua indecisione o scegliere una strada diversa, a noi non apparirebbe in modo
differente».
Erica
gli prese la mano libera adagiata sulla tovaglietta a scacchiera,
intrappolandola tre le proprie. «Non posso sostituire Derek, ma ti prometto che
farò del mio meglio quando avrai bisogno di me».
Stiles
la fissò paralizzato e stupefatto, la coscienza che scivolava dentro di lui a
ricordargli che, effettivamente, il licantropo non sarebbe sempre stato al suo
fianco nei momenti di fragilità, la ribalta l’avrebbe richiamato. «Grazie» ma
era una magra consolazione.
Lately, we've been goin' through
Good times, bad times, guess we're human
Ancor
prima che Derek aprisse la porta, una voce canticchiava nel silenzio
dell’appartamento, nessun suono ad accompagnarla, ma seguiva un ritmo preciso,
come se conoscesse perfettamente la melodia.
Take me, save me, I don't want this burnin' out
Derek
si fermò con un affanno inspiegabile e dovette prendere il coraggio a due mani
prima che trovasse il modo di far scattare la serratura, far entrare insieme a
lui la spesa per cui aveva sforato la sua tabella di marcia.
Stiles
era seduto scompostamente sul divano, gli auricolari alle orecchie, attaccate
al portatile sistemato sulle ginocchia che bisognava di una fonte costante di
energia, mentre digitava qualcosa ‒ sicuramente una delle sue ricerche
universitarie ‒ completamente inconsapevole di cose accadesse nel
monolocale, senza neppure accorgersi dell’arrivo del padrone di casa.
Are we in Heaven?
Don't-don't it feel so good right now?
Il
mannaro poggiò i due enormi sacchetti riutilizzabili sulla tavola, richiamando
l’attenzione del figlio dello sceriffo per via dei movimenti che percepiva con
la coda dell’occhio, incollato com’era allo schermo.
Le iridi ambrate si poggiarono sulla spesa e Stiles stoppò la musica, togliendosi le cuffiette e spostando il computer, prima di saltare dal cuscino e cominciare a frugare tra le buste. «Ottimo tempismo, Der, abbiamo la dispensa vuota».
Era
allegro e di buon umore, aspetto piuttosto ottimo dopo giornate non
propriamente a suo favore, continuava a canticchiare senza pronunciare le
parole, ma riproducendo la melodia, le labbra curvate verso l’alto.
«Don't-don't it feel so good?»
mentre pasticciava con i viveri, li sistemava nei loro appositi angoli di
collocazione, esattamente come Derek li voleva, un ultimo verso gli scappò, per
poi continuare a mormorarne il ritmo. Il mannaro non aveva alcuna idea che
Stiles fosse quel tipo di persona, che perfino risultasse straordinariamente
intonato, l’esatto opposto di come generalmente appariva: un vero disastro di
scoordinamento.
Quando si aggiunse anche lui a sistemare la spesa fatta, il mannaro lo sentì ridacchiare pieno di dolcezza e contentezza, saltellando sul posto e tirando fuori l’ultimo oggetto pagato. «È riservata a qualcosa di speciale?».
La
matricola espose una piccola cornice fotografica in legno di qualità grezza,
quelle facilmente trovabili in un supermercato. Era rossa e sotto il vetro vi
era un foglio bianco e un’unica scritta di un grigio delicato, a simulare cosa
vi si potesse inserire all’interno: conserva qui i tuoi pensieri. «Non
saprei, l’ho presa senza rifletterci troppo».
«Ah,
un acquisto compulsivo. Per niente da te, Sourwolf» l’umano era genuinamente
divertito, ma anche intenerito, brillava come non accadeva da settimane, forse
perfino da quella prima sera di settembre in cui lo rincontrò dopo anni.
Accarezzò il legno colorato con i pollici e intuì tutto il potenziale che
Stiles gli stava riversando. «Ottima scelta» disse in conclusione, mentre la
sistemava sul tavolo, spalancando il suo supporto per reggerla e spiccare
incontrastata in tutte le sue possibilità future.
«Don't-don't it feel so good right now?»
cantò pimpante mentre si occupava di rifornire il frigorifero.
Derek
non riuscì a proferire una sola parola.
Ma
quella notte la lietezza di Stiles non si propagò.
L’umano
fu svegliato da movimenti agitati accanto a lui, il respiro pesante, insieme a
dei mormorii sofferenti.
Si
vide costretto a toccarsi, a comprendere cosa fosse reale, se potesse essere
qualcosa scaturito da lui o dall’esterno. Sbirciò dalla finestra coperta dalla
tenda leggera che gli permetteva di intravedere in che condizioni fosse il
cielo, scuro come se fosse ancora notte fonda.
Si
alzò a sedere per potersi muovere e capire cosa stesse accadendo, non vi era
nulla che rallentava i suoi movimenti e si voltò a cercare il licantropo. Aveva
i lineamenti contratti, gli occhi serrati ed era sudato su tutto il viso.
«Derek» lo chiamò con incertezza, un mezzo punto interrogativo e un vuoto che
si prodigava per tutto lo stomaco.
Lo
toccò su un pettorale scoperto, la pelle nuda che bruciava sotto le dita, e il
lupo mannaro si ridestò di soprassalto, in modalità difensiva.
Le
iridi verdi vacue si aprirono, i tratti facciali esausti e sporcati dagli aloni
di sudore, l’allerta evidentemente, mentre cercava il pericolo e tentava di
scacciare ciò che tormentava i suoi sogni.
«Derek»
riprovò ancora il figlio dello sceriffo, il nome pregno di preoccupazione e la
necessità di fargli capire che non ci fossero esterni attorno a loro.
«Stiles?»
domandò Derek al suono della sua voce, cominciando a guardarsi intorno e
apprestandosi a dargli la sua totale attenzione, scrutandolo totalmente.
Le
iridi d’ambrosia non erano assenti o spente, ma erano reattive e interagivano
completamente con ciò che le circondava, Stiles seguiva i suoi movimenti e
l’espressione facciale era leggermente alterata, l’apprensione evidente che
sfociava in ogni poro. «Stai bene?».
La
voce della creatura della notte era impastata di un sonno interrotto a metà,
aveva le occhiaie scure e le pieghe degli occhi segnate, era anche più pallida
di quanto l’avesse mai vista perfino nei suoi momenti peggiori, al limite del
pericolo. «Sì» Stiles non era nemmeno sicuro di aver mai visto Derek sudare,
anche mentre giocava per ore appariva come se non potesse accadere. «Tu,
invece?».
Derek
lo fissò quasi come se avesse utilizzato una lingua straniera e cambiò
l’angolazione della testa, a sondare un aspetto differente delle mura che li
conteneva. Con il torace che si abbassava e alzava dolorosamente, una nuova
consapevolezza serpeggiò nel suo sguardo di giada.
Il
licantropo scostò le coperte lievemente umide e scomposto si spostò verso il
bordo del letto, senza però oltrepassarlo, mentre si passava le mani tra i
capelli fradici, scompigliandoli in ogni direzione, a scacciare qualsiasi cosa
lo tormentasse. Prese uno, due e tre respiri profondi prima che l’indecisione
lo abbandonasse e si decidesse ad abbandonare le coltri.
Stiles
non sapeva esattamente cosa avrebbe dovuto fare, mentre i movimenti del
mutaforma erano insolitamente rallentati.
Il
capitano sparì dalla zona notte per dirigersi verso la cucina, impalandosi per
un tempo interminabile davanti il lavello e scrutandolo come se non sapesse a
cosa servisse. Aprì il rubinetto con dubbio e formò una conca con le mani,
permettendo che l’acqua gelata la riempisse, affondandovi il viso e
cospargendola in ogni centimetro, strisciando e tamponando con le dita. Ispirò
ed espirò un paio di volte, prima di ripetere l’operazione.
Con
un unico gesto abbassò la leva del rubinetto e il flusso d’acqua si arrestò, ma
non quella che gocciolava dal suo volto. Successivamente riempì un bicchiere
dello stesso liquido con una delle bottiglie che teneva rigorosamente in frigo,
prendendone inizialmente un sorso e scolandoselo tutto in un battito di ciglia.
Lo
posò accanto al lavabo e si prese tutto il suo tempo, nella solitudine della
notte, senza alcuna luce accesa. Dalla finestra principale entrava quella
prodotta dai lampioni, ma per le strade del campus non vi era anima viva.
Quando
decise di tornare a letto, Stiles lo aspettava in religioso silenzio e
rispettando i suoi spazi, facendosi violenza per non corrergli incontro o
nell’essersi privato di seguirlo. Si era avvicinato sul bordo del materasso e
si era alzato sulle ginocchia quando lo vide ritornare, strizzando gli occhi
per riuscire a distinguere la sua sagoma fra le ombre.
Era
impaziente ed evidentemente agitato, anche se tentava con tutto se stesso di
non inondarlo con le sue emozioni violente, protendendosi verso la sua presenza
ad ogni centimetro in cui avanzava, con l’illusione che potesse congiungersi a
lui prima del tempo. Derek gli si immobilizzò davanti e poté osservarlo dentro
il suo pigiama azzurro e blu. «Stai davvero bene?» gli domandò con serietà
quando gli prese il viso tra le mani, ispezionando personalmente ogni
centimetro del suo viso, ogni muscolo del suo corpo e qualsiasi forma di
agitazione fosse concentrata nel suo organismo.
«Sì»
rispose Stiles con sorpresa, il dubbio che dilagava nelle iridi di miele
brillante, tentando di interpretare le reali condizioni di Derek con gli
strumenti di cui era provvisto.
Il
capo della creatura leggendaria si chinò quanto bastasse, permettendo che le
due fronti si congiungessero, le punta dei nasi che si sfioravano, le palpebre
di Derek che si chiudevano. Stiles lo sentì respirare veramente soltanto in
quel momento, scrollarsi di dosso le orrende sensazioni che l’avevano
tormentato.
Fu
un momento prolungato nel tempo, esteso, in cui esistevano esclusivamente loro
due e nient’altro.
Finché
non arrivò l’attimo il cui fu spezzato. Con un segno, invitò l’umano a
scivolare dalla sua parte di letto, mentre lui si accomodava nella propria, ma
non tornarono alle rispettive posizioni. Stiles lo osservò dargli le spalle, la
schiena completamente scoperta in cui era evidente nella parte superiore la
triscele tatuata di nero.
Non
si riappropriò delle lenzuola, come invece lo studente di criminologia era
costretto e rimase semplicemente lì, a metri e forse chilometri lontano dalla
matricola, tagliandola completamente fuori.
Stiles
non sapeva cosa avrebbe dovuto fare, se dovesse semplicemente tornare ad
addormentarsi e vedere come si sarebbe presentato il mattino successivo, ma il
bisogno di aggrapparsi a quel lupo meraviglioso era troppo forte, eppure
comprendeva che non era quello che Derek voleva.
Allungò
un braccio e con i polpastrelli lambì uno dei riccioli della triscele. Derek
non si scosse né reagì in alcun modo e lo registrò come un lasciapassare nel
modo in cui si era chiuso in se stesso.
Non
era sufficiente, ma era tutto quello che in quell’occasione gli venisse
concesso. Si addormentò così, con la temperatura corporea del licantropo che si
irradiava nelle sue dita distese.
«Ciao»
un giorno successe qualcosa che attirò l’interesse di Stiles mentre si
apprestava a prendere una comanda da una nuova cliente in cui era sicuro di non
essersi mai imbattuto prima di allora.
Non
si controllò quando l’adocchiò, salutandola con interesse nel momento in cui la
inquadrò per bene. Alta, bionda, molto chiara e dagli occhi verdi ‒ molto
diversi da quelli di Lydia o Derek.
«Ciao»
ricambiò affabile la ragazza, affrontando direttamente lo sguardo attento del
figlio dello sceriffo e sorridendogli con complicità.
«Come
posso servirti?» le implicazioni erano incontrovertibili e la studentessa rise
per il suo essere impacciatamente carino.
«Sono
Heather» si presentò quando la matricola di
criminologia le consegnò un latte schiumato alla cannella.
«Stiles»
rispose con qualche attimo di ritardo, non aspettandosi delle presentazioni
così tempestivamente.
«Insolito»
disse fra sé e sé la bionda, tentando di far armonizzare l’insieme delle
lettere appena udite. «Carino».
Si
volatilizzò raggiungendo un tavolino occupato da quelle che Stiles supponesse
essere sue amiche o compagne di corso. L’umano non sapeva bene a cosa fosse
attribuito il suo commento.
«Hai
appena fatto conquiste?» si intromise immediatamente Tracy, raggiungendolo alla
cassa e cogliendo le occhiate che la cliente gli stava lanciando senza
preoccuparsi di nasconderlo.
Stiles
quasi saltò in aria, la sua collega sapeva essere tremenda. «Mi sembra troppo
presto trarre delle conclusioni».
«Mh,
non sono di questa idea» prese una delle tazze sporche incustodite, separandola
dal piattino e dalla cannuccia in carta, sistemando tutto nel lavandino dietro
il bancone e buttando il resto nel cestino. «Ti sta puntando da un po’. Ha
perfino cambiato fila per farsi servire da te».
«Ah»
non si era minimamente accorto di niente. Direzionare lo sguardo verso la
citata fu automatico e trovò Heather a sorridergli caldamente. «Sei troppo
pettegola, Tracy».
«Ehy,
questo è un lavoro da sogno per imparare ad osservare gli altri» la barista non
lo negò minimamente, muovendo le braccia da una parte all’altra per
sottolinearne il concetto. «E, non te ne renderai conto, ma hai una vita
interessante».
«Come,
prego?» si indignò il figlio della massima autorità di Beacon Hills,
arricciando il naso per l’offesa.
Tracy
ridacchiò visibilmente divertita e in quell’attimo la campanella che segnava
l’arrivo di un nuovo cliente risuonò.
«Der»
lo accolse immediatamente Stiles, illuminandosi e aspettandolo al varco.
«Eccone
un altro» commentò Tracy alla sua presenza, curvando le labbra in modo
spudorato.
«Eccone
un altro, cosa?» esigette il ragazzo nella frazione di secondo in cui udì
la sua replica, peccato si fosse teletrasportata all’istante alla punta opposta
del bancone.
«Non
servirmi una delle tue solite brodaglie» lo preparò mentalmente il licantropo
quando si avvicinò al servizio, rendendogli piuttosto chiaro cosa ne pensasse
dei suoi giochetti.
«Mi
ferisci, Sourwolf» drammatizzò l’umano a quella frecciatina, portandosi
entrambe le mani all’altezza del cuore, a indicare il dolore che gli aveva
procurato.
Derek
rispose gettando gli occhi al cielo per la sua misera teatralità e Stiles rise
alleggerito mentre prendeva una tazza di vetro pulita, riscaldando il latte e
il caffè insieme, giocando successivamente con la schiuma, imbronciandosi
quando con i suoi movimenti studiati non ottenne il disegno che avrebbe voluto
realizzare. Arreso cercò di correggere il tiro e ottenere un qualcosa di
vagamente decente.
«Ancora
cuori?» domandò retoricamente il mannaro, posando gli occhi su quello che aveva
provato ad essere una sorta di foglia, ma che dovette battere in ritirata.
«Creo
degli ottimi cuori» ribatté ad un’accusa che non c’era, a Derek in realtà non
interessava affatto come gestiva la schiuma di un cappuccino che non avrebbe
mai ordinato se Stiles non facesse di testa sua. Voleva fare il salto, ma non
ci riusciva.
Derek
lo ignorò e si apprestò ad odorare la bevanda che gli era stata appena
consegnata, fumante e bollente. L’olfatto gli indicò gli ingredienti e il lupo
dovette testare con la propria bocca se avesse avuto ragione. «Niente
aggiunte?».
Una
smorfia birichina si dipinse sul viso della matricola e Derek temette il
peggio. «Ho una cosa per te».
Stiles
venne risucchiato dalla porta che conduceva alla cucina e ne uscì con una
piccola teglia coperta da carta stagnola. «Ho chiesto se potessero prepararli
ed eccoli qui» afferrò un piattino da dolce e con le pinze prese uno dei
brownie al cioccolato pretagliati, servendoli con un’aspettativa evidente. «Ho
atteso che passassi prima di esporli».
La
teglia effettivamente era ancora intonsa, eccetto per il pezzo che Stiles aveva
appena estratto. Era stato conservato con cura ed era lampante, così come
l’attesa di quello Stregatto diabolico. «Hai questo gran desiderio di
avvelenarmi?».
Un
broncio incancellabile affacciò sul viso falsamente intristito dello studente
di criminologia, scatenando l’ilarità nel mutaforma. «Puoi sempre cambiare
caffetteria se trovi il servizio così sgradevole».
Derek
rise sotto i baffi e si accomodò in uno dei pochi sgabelli presenti al bancone,
sistemandosi lì dove Stiles aveva allestito per lui.
Prese
un nuovo sorso di cappuccino stranamente dal sapore classico e con incertezza
spezzò un angolo del brownie, masticandolo lentamente e lasciando che si
sciogliesse a contatto con la lingua. Un’esplosione di cioccolato fondente e
nocciole tritate lo inondò, collimando con la perfezione del caramello salato
che veniva rilasciato all’ultimo.
«Allora,
com’è?» volle sapere incuriosita la matricola, i gomiti poggiati sul banco a
sorreggersi la testa non perdendosi una singola micro espressione del lupo
cattivo, il sorriso da volpe furba stampato in faccia.
Derek
si specchiò nelle iridi di ambrosia, così simile al suo ingrediente preferito.
«È buono».
Il
sorriso di Stiles si estese e tamburellò le dita in segno di felicità, come se
avesse tirato le somme. «Magari li aggiungeremo al menù» con la teglia in mano
e le pinze, si apprestò a sistemare i rimanenti brownie nella vetrina di
esposizione. Prese un cartellino bianco e con un pennarello verde scuro
scribacchiò brownie al caramello salato, sistemandolo davanti al vassoio
designato.
«Magari,
però, quello lo faremo stampare» si intromise Tracy con nonchalance, rubandogli
il colore dalle mani e aggiungendo delle righe sottostanti, come se avessero
bisogno di miglior spinta.
Stiles
soffiò profondamente offeso e la collega se lo godette tutto, così com’era
sicura facesse il capitano della squadra di basket. «In realtà, sono giorni che
Stiles implora i pasticceri di prepararli».
Stiles
le assestò un’occhiata fulminante, al contrario di Derek che si concentrò
interamente sul ragazzo con numerosi nei sul viso. «Perché?» in verità, Tracy
si stava abituando ad essere ignorata dal giocatore numero uno della squadra di
basket, soprattutto se nei dintorni vi era il figlio dello sceriffo.
«Così,
per provare qualcosa di nuovo» si strinse tra le spalle a simboleggiare che non
fosse niente di che. Aveva avuto delle brutte sensazioni dalla notte in cui
aveva dovuto svegliare forzatamente Derek per l’incubo che lo stava
bersagliando. Non ne avevano mai parlato, come se non fosse accaduto,
dimenticato, cancellato, ma Stiles non riusciva a depennare una cosa simile.
Una pulce si era attaccata al suo orecchio e grattando, gli suggeriva che
quello poteva non essere un episodio isolato. Ma come avrebbe fatto a scoprire
la verità se non era in grado di svegliarsi? Voleva fare di più per Derek, ma
non aveva alcun potere. «Tu adori il caramello salato e qui non abbiamo quasi
niente in menù. Dovremmo avere più cura dei nostri fedeli clienti, dargli qualcosa
per continuare a sceglierci».
«Non
hai bisogno di darmi qualcosa di nuovo, Stiles» lo sguardo di Derek si fece più
radicato e assoluto. «Sceglierei sempre te».
O-oh,
Tracy individuò quello che era a tutti gli effetti uno dei loro momenti. Le
dispiaceva doversi allontanare per fornirgli una parvenza di privacy e
limitarsi ad osservarli da lontano ogni singola volta, soprattutto perché la
sua postazione in cassa la richiamava.
Non
seppe mai come proseguì tra loro o scoprire quali sottotesti ci fossero, non
ebbe molte più occasioni di unirsi alla loro conversazione. Notò, però, come il
capitano si trattenne per una mezzoretta all’interno del locale, ordinando più
avanti un secondo brownie per la gioia di Stiles che non mitigò in alcun modo.
Stiles
sorrideva o rideva sempre quando Derek Hale era in zona, tra un battibecco e
l’altro, pizzicandosi a vicenda. Non aveva mai assistito ad un’armonia così
disarmonica e che raccogliesse un risultato tanto positivo.
Quando
il loro cliente favorito lasciò il Crescent Moon, come di consueto,
Stiles si lamentò della mancia esagerata che gli accreditava ad ogni scontrino
emesso.
Davanti
a quello scenario, Tracy si chiedeva se la ragazza bionda e dagli occhi chiari,
che era rimasta seduta al tavolino insieme alle sue amiche per lo stesso
identico arco temporale del giocatore di basket, si fosse resa conto di quanto
Stiles fosse difficilmente acchiappabile, soprattutto se si avevano delle
intenzioni più serie.
«Stai
seguendo le mie indicazioni, vero?» domandò con tono minaccioso, un occhio
strizzato e l’altro completamente aperto, capace di vedere anche dove non
poteva.
«Sento
il tuo fiato sul collo anche a miglia di distanza» proferì lo sceriffo con
fatica, esasperato dall’insistenza di suo figlio.
«Non
ti ha mai fermato dalle tue trasgressioni, nemmeno quando eravamo nella stessa
casa» gli disse con evidenza, a ricordargli che Stiles non dimenticava mai, per
niente impressionato dalla recita del padre o il suo falso malessere dato da
una dieta salutista.
«Sto
facendo il bravo» la chiuse Noah, non volendo continuare quella conversazione
di soli vegetali per sempre.
«Indagherò
attraverso le mie spie, non permetterò tu abbia un altro infarto» non si lasciò
circuire lo studente di criminologia, guardingo e con un piano B sempre a
portata di mano.
Chissà
chi erano le sue spie. «Perché, invece, non vieni a controllare di persona, se
è tanto importante?».
Le
labbra di Stiles si fermarono a metà, non riuscendo nemmeno a chiudersi e lo
sguardo si fece un po’ perso, era evidente perfino dalla webcam bistrattata del
portatile in pessime condizioni di suo figlio, la poca stabilità di un
materasso occupato. «Stiles, non ti devi preoccupare del denaro».
«Non
sono preoccupato» era una bugia, era sempre una bugia.
«I
conti sono in ordine» riprovò la massima autorità di Beacon Hills. Stiles era
troppo sensibile su particolari argomentazioni, ma su alcune molte di più. «Le
parcelle mediche sono state pagate, tutto bene».
«Le
tue o le mie?» marcò stretta la matricola, l’amarezza che gli scendeva in gola.
Lo
sceriffo sospirò internamente, le meningi che si facevano pesanti. Stiles aveva
il vizio di addossarsi sensi di colpa che non gli competevano, era successo
anche con l’avvento del Nogitsune, tutti gli accertamenti preventivi che
avevano dovuto eseguire per capire quale malessere lo affliggesse, se la
malattia letale della madre lo avesse infine raggiunto. A quello si era
aggiunto il suo soggiorno all’Eichen House. Tutte quelle spese
erano state delle mazzate per l’esile conto in banca dello sceriffo, Stiles non
riusciva a perdonarsi. «Posso pagare un biglietto aereo per mio figlio» aver
ottenuto una borsa di studio completa era più di quanto lo sceriffo avrebbe mai
potuto offrirgli.
«Sarebbero
due» lo corresse Stiles per precisione, senza aggiungere anche il costo della
navetta che avrebbe dovuto trasportarlo dalla città vicina fino alla Natale. «E
posso pagarmi il viaggio da solo, ma per il Ringraziamento non riuscirò a
liberarmi» non ne aveva mai avuta l’intenzione.
«Come
puoi pagartelo da solo?» chiese perplesso Noah, privo di tasselli che lo
aiutassero a completare il quadro.
«Ho
trovato un part-time in una caffetteria qui al campus, da circa tre settimane»
le iridi ambrate si spostarono dallo schermo e seguirono qualcosa fuori campo,
impossibile per l’uomo riuscire ad individuare qualsiasi cosa avesse catturato
la sua attenzione. «E c’è questo cliente scontroso e musone che mi riempie di
mance esagerate» lo vide sorridere machiavellico all’oggetto fuori dalla
telecamera, ricevendo un grugnito fuoricampo in risposta.
Lo
sceriffo si sentiva alquanto smarrito, non seguiva il filo logico dei pensieri
di suo figlio. «È un nuovo metodo di corteggiamento?» era contento però che
Stiles riuscisse a riempirsi le giornate, stare fermo non era da lui e, a
differenza di Beacon Hills, non poteva infiltrarsi nel distretto di polizia e prendere
in prestito i fascicoli dei casi irrisolti per riempire la mente e affinare
le sue tecniche. Era più sano che passasse più tempo tra la gente viva che tra
i morti.
Stiles
sbatté le palpebre varie volte, guardando con dubbio il padre e permettendo che
l’idea attecchisse e familiarizzasse nel cervello. «Der, per caso, mi stai
corteggiando?» chiese alla persona che era evidente potesse vedere soltanto
lui; era incuriosito da quella nuova prospettiva, ma era anche evidente che si
stesse burlando del suo interlocutore.
«Per
niente» rispose secco lo sconosciuto ‒ forse troppo velocemente ‒,
non facendosi manipolare dalla volpe astuta che intratteneva una videochiamata
con il genitore.
Stiles
ridacchiò con divertimento e i suoi occhi allietati rimasero sul misterioso
individuo per qualche secondo. «Mi dispiace, papà, niente corteggiamento in
corso».
Forse
la massima autorità di Beacon Hills era ubriaca senza essersene accorta. «Chi
è, il tuo compagno di stanza?» non gli sembrava la sua voce, allo stesso tempo
però gli appariva familiare dal poco che aveva udito. Di certo, non l’avrebbe
mai chiamato Der.
«No,
è Derek» Stiles rise ancora di più dell’assurdità della cosa, scartandola con
una risposta che dovesse sottolineare l’ovvio.
Da
quanto tempo non sentiva ridere di gusto suo figlio? «Derek chi?».
«Non
credo ne abbiamo molti in comune» si imbronciò la matricola, come se fosse
stata offesa personalmente. «Derek, vieni a salutare lo sceriffo. Potrebbe
perseguirti».
«Non
sono più sotto la sua giurisdizione» lo contradisse lo sconosciuto annoiato,
dando evidenza di quanto fosse abituato a gestire le sue stravaganze.
«È
lo sceriffo, non lo provocare, potrebbe trovare degli scheletri indesiderati»
lo raggirò Stiles prontamente, con l’asso nella manica.
«Stiles,
sei tu ad avere la mania di cercare scheletri, anche dove non ci sono» proferì
disinteressato l’altro, rassegnato ad essere ragionevole con un tale
manipolatore.
«Li
trovo sempre, però» soffiò offeso lo studente del primo anno, a dimostrazione
di quanta ragione avesse dalla sua parte.
«Lo
so» c’era solo consapevolezza dalla sua parte, come se conoscesse a menadito
quella sua predisposizione.
Stiles
rimase in attesa a guardarlo, dando l’impressione che si aspettasse qualcosa da
lui, ma non accadde niente. «Stai di nuovo per uscire?» domandò poco dopo,
quando si accorse che Derek non si stava trattenendo.
«Sì,
sono passato solo per prendere il borsone» disse distrattamente il fantomatico Der,
trafficando con cerniere e fruscii vari.
«Giusto,
gli allenamenti» lo sguardo della matricola tornò verso lo schermo, ignorando
il padre in collegamento e guardando verso la sinistra specchiata, in basso, lì
dove lo sceriffo supponeva ci fosse l’orologio digitale. «Dovrebbe esserci
qualcosa che ti serve nell’asciugatrice».
«Okay»
fu tutto quello che proferì, i passi leggeri che si allontanavano.
Lo
sceriffo non sentì movimenti per una ventina di secondi, finché il rumore della
cerniera non si ripresentò.
«Ceniamo
insieme?» domandò Stiles quando il suo ospite ‒ inquilino? ‒
sembrò essere pronto per lasciare il nido.
«Sì,
dovrei farcela» altri fruscii di stoffa, le scarpe che battevano sul pavimento.
«Che cosa vuoi?».
«Cinese?»
propose retoricamente, gli occhi che si illuminavano di aspettativa. «No, no,
thailandese» scosse la testa come se ci avesse ripensato, ma non fosse
propriamente certo, contraendo parte dei tratti visivi.
Una
risata corta e vigorosa si espanse da dietro la telecamera e quello lo sceriffo
proprio non se l’aspettava. «Credo di conoscere un locale che le abbia
entrambe».
«Risolvi
sempre i dilemmi culinari» Stiles sorrise a mezza bocca, con una leggera nota
di presa in giro affettuosa, ma gli era evidentemente grato.
«Sono
qui da più tempo di te, Stiles» disse l’ospite per niente impressionato dal suo
modo di fare, ma era evidente che anche lui avesse le sue tecniche per
interagire con la matricola.
«Ma
se nemmeno sapevi dell’esistenza del Crescent Moon» lo additò con la
vittoria nelle sue mani, il ghigno malefico da volpe infuocata.
«Sei
tu che vieni attratto da queste cose» lo scandì chiaramente, a dovergli entrare
in testa una volta per tutte per quanto fosse rassegnato a quell’idea.
«Disse
il lupo mannaro» la maleficenza della sua furbizia di palesò senza pudore, le
punte della bocca in uno sogghigno pericoloso.
Alla
velocità della luce gli arrivò addosso un cuscino quadrato arancione che Stiles
intercettò al limite e la sua ilarità vibrò tra le mura del luogo in cui lo
studente di criminologia si trovava, ma anche quelle dello sceriffo subirono lo
stesso effetto ‒ stupefacente. Non sentiva e vedeva suo figlio
così felice da anni.
La
sua risata piena di vita riuscì a soffocarla con fatica e di slancio abbracciò
il cuscino che gli era stato lanciato per dispetto, punendo il suo sarcasmo
pungente. «E dai, Sourwolf, non mettermi il broncio» detto ciò, imitò la citata
smorfia, che su di lui aveva nelle connotazioni più dolci, da cucciolo a cui
tutto sarebbe stato concesso.
Alla
massima autorità di Beacon Hills stava andando in tilt il cervello. Un
campanello di allarme aveva cominciato a risuonare alle parole lupo mannaro,
affiancate a Derek, ma la comprensione totale era arrivata al Sourwolf.
Suo figlio aveva attribuito quel soprannome soltanto ad una persona.
«Sei
la solita volpe scaltra» dichiarò il lupo mannaro con coscienza, a sottolineare
una realtà che non potrà mai essere alterata.
Stiles
sorrise con la sua furbizia senza veli, ma c’era un affetto senza uguali che
non si impegnava affatto a celare. «Mi passi a prendere o ci incontriamo da
qualche parte?».
«Non
so dirtelo in questo momento» rumore di passi, l’indecisione e la fretta erano
presenti. Qualcosa di pesante fu alzato da terra e issato a fare da
contrappeso. «Ti invierò un messaggio».
«Ciao,
ciao, Sourwolf» la matricola di criminologia sventolò una mano ad accompagnare
il suo saluto, il mento sprofondato sul cuscino usato come arma del delitto.
Ci
fu un ciao di ricambio lontano e il tonfo di una porta pesante che si
chiudeva.
«Devi
dirmi qualcosa, Stiles?» domandò mezzo minuto dopo lo sceriffo, le sopracciglia
contratte e il tono indagatore.
Un
paio di battiti di ciglia a riprendere il cambio scena e Stiles era di nuovo in
direzione dello schermo del computer. «Dirti cosa?»
«O,
giusto due cosine» non doveva più sorprendersi, ma era di Stiles che si
parlava. «Derek Hale?».
«Mh,
sì» era tranquillo e per niente in difetto.
«Com’è
avvenuto questo incontro?» c’erano troppe cose che a Noah sfuggivano e che la
sua progenie si era premurata di non informarlo. «Dov’è esattamente che sei?»
non solo la camera in cui si trovava non gli era per nulla familiare rispetto a
quella del dormitorio, ma c’era passato sopra, perché Stiles l’aveva sempre
videochiamato in miliardi di luoghi diversi, ma in quel momento gli stonava la
presenza di Derek Hale negli stessi spazi comuni. Derek Hale che aveva lasciato
Beacon Hills due anni prima insieme alla sorella maggiore per non fare più
ritorno. Al tempo non sapeva che tutta la famiglia Hale fosse composta da
licantropi, che i due superstiti si erano impegnati ad istruire Scott e
compagnia; Stiles gli aveva propinato un riassunto abbastanza accurato perfino
con tutti i suoi pindarici giri di parole.
«Studia
qui, al Michigan State University» spiegò brevemente,
senza dilungarsi eccessivamente. Non c’era granché da raccontare, non fatti da
condividere con l’uomo a cui voleva nascondere i suoi problemi irrisolti. «E
sono nel suo appartamento».
«Studia
al tuo stesso college» ripeté risuonandogli sinistro, inverosimile. «E ti
lascia nel suo appartamento da solo?».
«Ogni
tanto, se non so dove studiare» non era nemmeno una vera bugia, Stiles aveva le
sue strategie, cambiava continuamente ambiente di studio, a seconda degli
stimoli e concentrazione che gli servivano.
Okay,
Noah Stilinski non credeva ad una sola sua parola. «State insieme?».
«Cosa?
No» si sarebbe soffocato con la sua stessa saliva per la visione
fantascientifica che suo padre aveva appena dipinto. «Perché dovremmo?».
L’espressione
dello sceriffo si fece piuttosto eloquente. «Ho un paio di idee».
Stiles
tossicchiò, sordo alle implicazioni sconvenienti espresse dal padre. «Non
stiamo insieme».
Era
abbastanza categorico e sicuro, non aveva dubbi al riguardo né ne appariva
dispiaciuto. In realtà, sembrava non averci mai riflettuto su ‒ o
ragionato. Eppure allo sceriffo i conti non tornavano, soprattutto per tutta
quella felicità e divertimento vivo che Derek Hale era riuscito a scatenare con
il nulla dopo anni di simil apatia. «Torna per Natale».
Stiles
si rifletté sullo schermo adagiato sul letto di Derek, ma anche
sull’espressione seria del genitore. «Sì, Natale» ma la matricola non voleva
che quel giorno arrivasse.
«Ciao,
Stiles» le sue orecchie vibrarono subito, non ebbe nemmeno il tempo di
presentarsi al nuovo cliente e offrirgli il suo servizio.
«Mi
hai trovato» disse quando degli occhi azzurri che cominciava a conoscere troppo
bene si palesarono davanti a lui.
La
bocca di Theo si curvò con malizia affascinante, l’attenzione tutta catapultata
sulla matricola di criminologia. «Crescent Moon, ti rispecchia molto».
Lo
sguardo della matricola di criminologia si fece interrogativo, non capendo
minimamente a cosa alludesse. «Dov’è il tuo lupo?» domandò senza tergiversare
il neo arrivato, il blu che scintillava di interesse giocoso.
Sperava
se lo fosse dimenticato. «Il cane lupo» lo corresse con prontezza, scandendo le
parole che dovevano entrargli in testa.
Theo
sorrise come se non potesse giostrarlo. «Allora, dov’è? Lo rincontrerò?».
Per
la tua salvezza, meglio di no. «È tornato dietro il
velo».
«Ah»
accentuò la piega allietata sulla bocca, l’eccitazione evidente che si
accentuava, scatenava. «Sei davvero interessante, Stiles».
Il
figlio dello sceriffo roteò gli occhi da una parte all’altra scocciato,
aspettando che quell’incontro terminasse in fretta. «Mi troverò alle calcagna
anche Donovan?».
Theo
sbatté le ciglia annoiato, cambiando totalmente la sua espressione, quasi ad
avergli fatto volontariamente un torto. «Non condivido le mie informazioni».
«Ahi»
esclamò Stiles con allegria pericolosa. «Non molto sportivo nei confronti del
tuo amico».
«Perché?»
se lo fece scivolare di dosso, come se non lo riguardasse affatto. «Lui non ha
suscitato il tuo interesse, non c’è una competizione in corso».
«Sono
piuttosto sicuro che non la veda così» non che gliene fregasse qualcosa, ma lo
sguardo di Donovan lo percepiva ancora su di sé quando lo incontrava per caso
al College of
Social Science o in compagnia fugace di Theo.
«Non
è un mio problema se non ha colto i tuoi segnali» si giustificò lo studente di
scienze politiche, evidentemente non interessato a quello che una volta si era
presentato come un rivale.
«E
tu, invece, li hai colti?» si fece tagliente e incisivo il futuro criminologo,
gli occhi assottigliati a giudicarlo.
Theo
sorrise ben conoscitore di se stesso. «Ho un’idea abbastanza chiara» il dito
indice andò a sfiorare alcune tra quelle poggiate da Stiles sul bancone in
attesa.
Stiles
né guardò né si scostò, lasciò la mano esattamente dov’era a permettere di
essere corteggiato. «Secondo me hai preso un abbaglio».
Il
ragazzo tenace non demorse e le sue labbra continuarono a restare curve
all’insù, ma con quell’accenno di timidezza studiata per un imbarazzo che
invece non provava. «Forse hai ragione tu».
Su
Stiles aveva costantemente un certo effetto ciò che il viso di Theo esprimeva e
non poteva negare che fosse stato attratto da lui fin dalla prima volta che
aveva posato gli occhi sulla sua figura. Non smetteva di bruciare. «Dovresti
ordinare qualcosa, sai».
«Giusto»
le iridi di zaffiro si innalzarono per leggere gli enormi cartelloni posti
dietro le spalle dei baristi e sopra la porta che conduceva alla cucina, vi
erano scritte ogni specialità, ogni bevanda o piatto ordinabile, tutti gli
ingredienti che potevano essere aggiunti. «Un caffè stretto, leggermente
macchiato, tre di zucchero».
Stiles
era un po’ sorpreso dall’eccessiva quantità di dolcificante, ma non era un suo
problema preoccuparsi del colesterolo degli altri, eccetto quello di suo padre.
Si limitò ad eseguirlo seguendo tutte le indicazioni, allungandogli il
bicchiere in cartone della dimensione più piccola che la caffetteria disponeva.
La mano di Theo si avvicinò nuovamente e sfiorò intenzionalmente quella del
barista, attardandosi più del necessario. «Quando finisci il turno?».
Stiles
non doveva seriamente sorprendersi dell’insistenza del ragazzo, ma in qualche modo
avvenne comunque, particolarità che invece di infastidirlo gli faceva soltanto
guadagnare punti. Agitò un dito indice in diniego, smontandolo sul posto per la
sua avventatezza. «Ti consiglio di ritentare. Sarai più fortunato».
Smorzare
il sorriso di Theo, invece, era impraticabile. «Sì, mi piaci proprio» pagò il
conto con lo smartphone, un’aggiunta del venti percento per la mancia
automaticamente accreditata al servizio alla cassa di Stiles ‒
imparagonabile a quella che regolarmente Derek gli versava, ma era lui ad
essere esageratamente esagerato ‒ e si liquidò con un mezzo inchino ed il
caffè fumante in una presa salda.
«Quello
è nuovo?» si insediò Tracy esattamente un secondo dopo la sua uscita, come se
non avesse aspettato altro.
«Non
proprio» ormai essere colti impreparati da lei era una faccenda quasi
archiviata.
«Che
effetto fai esattamente alle persone?» era impressionata, la capacità di
incantare di Stiles era fuori da ogni concezione logica. O semplicemente chi
attirava era estremamente temerario.
«Ne
so quanto te» il figlio dello sceriffo non le stava prestando particolare
attenzione, stava ancora fissando il punto in cui Theo fino alla fine aveva
flirtato con lui. «Potresti dirmelo tu» si ridestò quando si rese conto di
poter prendere la palla al balzo.
Tracy
ne fu colpita, non si aspettava che Stiles facesse un riferimento così chiaro
ai loro passati trascorsi. Stiles era piuttosto serio con il suo modo di
approcciarsi ai partner occasionali, non voleva repliche, a prescindere da come
si fossero svolte le cose tra loro. «Non cominciare a montarti la testa» lo
sbeffeggiò con amicizia. «Non sono ammaliata da te, ma dal tuo ragazzo».
Ovviamente,
come dimenticarlo. «Non è il mio ragazzo» si ritrovò
nuovamente a correggere Stiles, stanco di quella immotivata ripetitività.
«E
lui lo sa?» lo stuzzicò con audacia e spudorata la compagna di corso, ridendo
sguaiatamente.
«Sei
tremenda» ma davanti a quell’ennesimo equivoco, si domandò se lui e Derek
dessero quell’erronea impressione a chiunque posasse gli occhi su di loro.
Quanto
il suo turno si concluse e si velocizzò per cambiarsi, una volta sulla soglia
dell’uscita sul retro si accorse della pioggia fitta che impattava
sull’asfalto. Imprecò dentro di sé per aver dimenticato l’ombrello e sul non
aver mai riabbottonato il cappuccio removibile del giubbotto.
Affondò
il viso nella sciarpa calda di Derek e alzò la giacca imbottita sopra il limite
della testa, nella speranza di non bagnarsi eccessivamente, di riuscire a
percorrere i venti minuti di cui necessitava per raggiungere l’appartamento del
mannaro e cambiarsi senza incontrare troppi ostacoli.
«Sei
prevedibile» asserì la voce maschile che conosceva meglio di se stesso,
critica, ma anche sarcasticamente divertita.
Le
pupille scure si dilatarono nell’iride d’ambrosia, alzando la testa per
inquadrare meglio il suo interlocutore e notare che non gli cadesse più alcuna
goccia addosso. Derek lo fissava al riparo nel suo classicissimo e
inequivocabile ombrello nero, condiviso con la matricola leggermente inumidita
rispetto al cataclisma che aveva preventivato una volta abbandonato la
protezione del Crescent Moon. «Sei passato di proposito?».
«Sono
passato dal monolocale e ho notato questo» nella mano libera teneva un piccolo
ombrello da borsa ancora chiuso e asciutto. «Sapevo ti sarebbe servito, sento
quando il tempo sta per cambiare».
«Non
dovrò più seguire il meteo, allora» doveva averlo abbandonato sulla scrivania
del licantropo quando aveva preparato la tracolla la sera prima per la nuova
giornata universitaria. Non aveva ancora preso l’abitudine di doverselo portare
ovunque, benché di pioggia e tempeste ne avesse affrontate parecchie in quei
tre mesi, molto lontani dai temporali sopportabili della California di cui
Stiles si era sempre curato poco.
«Non
sai nemmeno cosa sia il meteo, Stiles» lo ribeccò la creatura della notte,
sorda alle sue arrampicate sugli specchi. Fece scattare l’apertura
dell’ombrello con un unico gesto, sprigionando una colata di colori
dell’arcobaleno e offrendolo al figlio dello sceriffo.
«Grazie»
disse Stiles con un po’ di titubanza nel vedere tutte quelle sfumature accese
accostate vicino al capitano della squadra di basket. Accettò l’oggetto e si
spostò sotto di esso, riuscì anche a ricomporsi un po’, ma non aveva molta
intenzione di togliere il muso dalla sciarpa, anche se avrebbe dovuto farla
asciugare una volta tornanti al caldo. «Non era necessario, ma grazie».
Le
dita libere del lupo si mossero fulminee ed erano già intrecciate ai capelli
dello studente di criminologia, rigirandoli e ispezionandoli. «Sei già
eccessivamente bagnato, credo proprio fosse necessario».
Stiles
sbuffò con offesa e contrariato, gli dava enormemente fastidio che Derek lo
considerasse cangevole, come se si ammalasse ad ogni alito di vento; non era
colpa sua se il suo corpo fosse impostato per sopravvivere ad un clima opposto.
«Mio padre ti adorerebbe» era il cane da guarda perfetto per lui, l’essere che
interveniva ogni volta che una situazione si presentava sgradevole o la
anticipava. Non era certo fosse il miglior complimento per un lupo mannaro
scontroso quanto Derek.
Contro
ogni sua aspettativa, lo sguardo del mannaro si fece più intenso ed era quasi
impossibilitato a distoglierlo. «Con te, ogni aiuto è necessario».
Stiles
lo fulminò e si imbronciò da diciannovenne maturo quale fosse, sorpassandolo e
spezzando ogni contatto tra loro, proseguendo per la sua direzione senza
voltarsi indietro. Al suo dispetto, sentì soltanto Derek ridacchiare
sommessamente. Non era mai prolungata e sonora, era sempre una risata
trattenuta, limitata, quasi avesse un timer che gli indicasse la durata e la
bloccasse superato il valore scelto, ma era più di quanto Stiles avesse sentito
nei due anni di liceo che avevano condiviso.
Qualche
secondo dopo, il licantropo era già di fianco a lui sotto la pioggia scoscesa.
«Dove andiamo?».
«Gli
altri hanno proposto pollo e tutta quella roba lì» non avevano un KFC nel
campus, ma non mancavano i punti di ristoro che proponevano le loro alternative
impanate e croccanti.
«O
sì!» Stiles si illuminò come se fosse un giorno di festa, facendo ruotare
l’ombrello per la sua felicità, creando vortici di luce colorata nell’oscurità
data dalla mancanza della luna, ricoperta dai nuvoloni minacciosi.
«Raggiungiamoli, ti prego. Adoro le cosce di pollo. Il petto di pollo. Le
crocchette di pollo».
«Strano
approccio per il ragazzo dei vegetali» lo schernì ironico il playmaker,
digitando la risposta sul telefono da inviare a quel branco mal assortito.
«Quelli
sono soprattutto per mio padre» quando non interferivano le sue paturnie.
Proseguì
un silenzio che poteva risultare anomalo, ad aver toccare un nervo scoperto.
«Quando hai iniziato?».
Il
figlio dello sceriffo sbatté le ciglia varie volte, gocce d’acqua vi erano
ancora incastrate e anche se cambiò la pendenza dell’ombrello, non riusciva a
vedere Derek perfettamente. Era concentrato nel continuare ad andare avanti.
«Ad occuparmi della dieta di mio padre?» domandò a completare il pensiero del
lupo, chiedendosi se fosse quello giusto. Ricevette un mormorio di assenzo da
parte del mutaforma. «Un anno dopo la morte di mia madre ebbe un infarto» non
era un argomento che affrontava spesso, lo ritirava fuori soltanto quando
rimproverava il genitore. «È stato devastante, ho temuto di perdere anche lui,
di rimanere da solo una volta per tutte» in realtà, le occasioni in cui sarebbe
potuto accadere avrebbero dovuto essere molte di più, ma Beacon Hills era
apparentemente stata tranquilla finché gli Hale ero in vita, soltanto che
nessuno di loro era a conoscenza della loro impronta. «La sua vita non è mai
stata troppo equilibrata, ma i pezzi hanno cominciato a disfarsi dopo
l’aggravarsi della malattia di mia madre. Il lavoro, la malattia, la sua morte,
i miei attacchi di panico continui… il suo cuore non ha retto» prese un
profondo respiro, i ricordi amari che tornavano in superficie. «Appena l’hanno
ritenuto fuori pericolo, ho cominciato a lavorare ad una tabella alimentare, a
programmare i suoi pasti ed a bandirne altri».
I
passi si fecero più lenti, l’acqua ghiacciata scorreva per i canali e non era
il caso che l’umano scivolasse tra i torrenti. «Avevi soltanto nove anni».
«Sì»
confermò, non seriamente stupito che Derek sapesse fare i conti, ma che si
ricordasse ogni avvenimento nel corretto ordine cronologico. «Ma che importanza
ha? Io voglio mio padre vivo. Lotterò sempre per lui».
Come
poteva essere diversamente? «Provi un grande amore per Scott e
il tuo branco, ma la persona che ami di più è tuo padre».
Stiles
si bloccò di botto, la pioggia che si faceva più violenta che picchiava sulla
stoffa, le gocce che lo separavano dalla creatura leggendaria. «L’ho quasi
perso di nuovo un anno fa, Derek. Un altro attacco cardiaco, un altro letto
d’ospedale e una sala d’attesa in cui aspettare. Un nuovo infarto perché
l’Alpha delle Chimere mi voleva con sé e doveva colpirmi nel modo più violento.
Non mi interessa se mio padre si è dimenticato di me per mesi, se non sapeva
nemmeno che esistessi, ma forse sarebbe stato più al sicuro. Lo sarebbe stato
ancora prima, quando l’anno precedente il Darach l’ha rapito per sacrificarlo
al Nemeton» Stiles le aveva contate tutte quelle brutali e pessime esperienze,
quando le sue azioni avevano avuto più ripercussioni del solito.
«Quale
pensi sarebbe il suo pensiero?» lo interrogò Derek con più durezza, statuario
davanti a lui, l’ombrello sollevato nella parte frontale a mostrare ogni sua
espressione facciale. «Baratterebbe la sua vita con un’altra? Rinuncerebbe a
te? Credo proprio tu abbia avuto la risposta a queste domande».
Stiles
si trovò con un groppo in gola, un magone che proprio non riusciva a mandare
giù. Sì che aveva avuto quella risposta: il dolore della perdita del proprio
figlio era stato così enorme e dilaniante, da riuscire a creare un essere che
potesse attenuarlo ‒ poco importava se fosse una copia distorta di sua
madre. «Mi spezza il cuore mentirgli sulle mie reali condizioni. Mentirgli ogni
singolo giorno, ma non posso dirgli la verità. Non voglio che lo veda con i
suoi occhi. Non voglio tornare per Natale».
Derek,
nella sua pacatezza, espirò profondamente. «Lo so».
Non
c’era nessuna forma di rimprovero da parte sua né lo stava giudicando
negativamente o in qualsiasi altro modo, avrebbe semplicemente rispettato le
sue decisioni.
L’umano
non aveva mai avuto un alleato migliore del lupo mannaro dalle iridi rubino e
zaffiro.
«Si
mangia!» esclamò con entusiasmo ghiotto Erica, le portate che venivano servite
su cestini di carta e le bevande zuccherate su ogni postazione. Non c’era mai
alcol sul loro tavolo anche se la maggior parte di loro aveva ventun anni, non
avendo alcun effetto sui mannari ne facevano a meno e Stiles lo evitava come la
peste, dopo aver avuto troppe brutte esperienze con sbronze, veleni
paralizzanti da kanima e droghe da banshee. Voleva il completo controllo su di
sé e certamente non avrebbe mai aiutato nella condizione in cui si trovava.
Erano
seduti tutti e cinque vicino alla grande finestra, sulle grandi panche
rivestite in tessuto omologate per tre, Boyd e Isaac ne avevano occupata una
per intera, mentre la mannara aveva cambiato posto appena Derek e Stiles li
avevano raggiunti; la pioggia era ben visibile per la sua violenza, illuminata
dai lampioni sparsi sulle strade, gli ombrelli erano tutti stati abbandonati
all’ingresso, negli appositi contenitori che erano stracolmi e l’umano si
chiedeva se sarebbero riusciti a trovarli nuovamente.
Stiles
accolse trepidante la sua porzione di cosce di pollo fritte, la pastella
croccante che emetteva un rumore divino nel momento in cui veniva addentata o
spezzata, aveva letteralmente l’acquolina in bocca e tra tutti loro c’era da
domandarsi chi fosse davvero l’animale. «Mi è passata la fame» disse invece con
infelicità, l’amarezza che gli avvelenava il palato e il disagio che lo
investiva a fiumi.
Derek
aveva a malapena addentato la sua pietanza, al contrario degli altri che
masticavano voraci, arricchito tutto da chiacchere, e la sua attenzione fu
subito catapultata sulla matricola, una coscia di pollo era stata spaccata a
metà, per via della maniacalità sviluppata di controllarne il contenuto, con
l’evidenza di un’errata cottura. La carne bianca, soprattutto quella attaccata
all’osso, era completamente cruda ed in alcuni punti perdeva anche liquido
scarlatto e violaceo che non otteneva la simpatia di Stiles. In realtà quella
di nessuno. «Lo facciamo sostituire».
Il
figlio dello sceriffo scosse la testa come unica risposta negativa, chiudendosi
a riccio, il viso sbiancato. «Detesto sprecare il cibo».
«Questo
è un errore grave, nessuno potrebbe mangiarlo» a meno che non si aspirasse ad
una morte certa.
«Tu
potresti» cosa potrebbe mai fare della carne bianca cruda ad un lupo mannaro,
era predisposto per staccarla viva a morsi e ingoiarla. «In realtà, tutti voi».
Isaac,
Boyd ed Erica si sentirono chiamati in causa, già concentrati sull’unico umano
della tavola, a cui era stato destinato un infausto scherzetto.
«Nessuno
di noi lo farà» dichiarò chiaro Derek, un ordine per tutti, a sottolineare che
se c’era un problema, andava affrontato. «Scusi» richiamò l’attenzione di una
delle cameriere, alzando il dito quando rientrò nel suo raggio d’azione. «Lo
porti via».
Stiles
si sentiva tramutato in una statua, non riusciva a muoversi e ad affrontare la
situazione, non era nemmeno lui il protagonista di quella spiacevole
situazione. Il suo problema con il cibo era più accentuato di quanto sembrasse
all’esterno, gli dispiaceva che dovessero raccoglierne i cocci, che Derek
dovesse sempre muoversi in sua vece perché in lui si creava un rifiuto totale
che lo annichiliva totalmente.
La
cameriera si avvicinò e osservò il cestino in cartone colorato, soprattutto
notò Derek e si fece subito più interessata, pronta a scattare e servire. Tanta
ilarità sul servire, Stiles sbuffò internamente, roteando gli occhi
contrariato e per niente sorpreso di avere a che fare con un altro essere
vivente che sbavava sul capitano della squadra di basket. «Lo sostituisco
subito».
«No»
dissentì immediatamente il playmaker, gli occhi verdi che si concentravano
interamente sulla disapprovazione dello studente di criminologia, sull’arrivo
di un messaggio differente. «Non ci serve altro».
La
donna esitò, stupita dalla risposta e tergiversò per qualche secondo, prima di
congedarsi. «Scusate per il disagio».
Ci
fu qualche attimo di silenzio sul tavolo, Stiles voleva soltanto andarsene via
e chiudere la serata, ma non era corretto nei loro confronti.
«Puoi
scegliere altro» si intromise Erica. Non le era capitato spesso di vivere
quelle spiacevoli situazioni con Stiles, solitamente lo sbaglio sulla cottura
lo innervosiva e lo rendeva più spietato, ma la sostituzione era garantita.
Stiles
si chiuse ancora di più in se stesso, il torto che sapeva appartenergli. «Non
insistere» disse invece Derek, invitandola espressamente a non pressarlo
eccessivamente, a lasciargli lo spazio di cui bisognava.
Erica
diresse la sua attenzione verso il ragazzo che seguiva da anni, l’indecisione
di aggiungere qualcosa e proporre un’alternativa, ma era consapevole che Derek
avesse vissuto episodi analoghi più di lei.
Il
branco tornò a cibarsi con più attenzione, rallentando i tempi, ma le voci ripreso
il loro corso. L’umano si afflosciò sul divanetto, abbandonandosi contro lo
schienale e rilasciando un respiro liberatorio, ad allentare il macigno che gli
gravava sul petto, districando i nodi nello stomaco.
Sentiva
l’occhio vigile di Derek su di sé, leggermente voltato verso di lui, e Stiles
si incatenò a quell’attenzione non invadente, ma che voleva soltanto accertarsi
che si fosse tranquillizzato. La matricola accennò una curva di gratitudine
sulle labbra e il lupo completo gli accarezzò con il dorso piegato di un dito
il centro della fronte, ad accentuare il suo stato d’animo più sereno.
Per
i successivi cinque giorni si avvalsero esclusivamente di cucina vegana.
Le
ciglia addormentate sfarfallarono, il disorientamento lo colse ed ebbe bisogno
di qualche attimo per comprendere dove si trovasse, cosa stesse accadendo.
Dalla
penombra, infranta dai raggi lunari, vi era la figura del licantropo seduto sul
bordo del letto, i piedi nudi sul pavimento, le lenzuola scomposte, il letto
sfatto, la schiena nuda da cui svezzava il grande tatuaggio nero; era piegata
in avanti, i muscoli contratti, la stanchezza evidente e un misto di emozioni
che Stiles non poteva percepire, ma notava come Derek si stesse tenendo la
testa tra le mani, impossibilitato a scacciare quello che lo angustiava.
«Derek?».
Il
lupo non apparve sorpreso di udire la sua voce, segno che lo avesse già sentito
muoversi o prendere coscienza del mondo della veglia. «Torna a dormire» lo
invitò, a permettergli di lasciarsi scivolare la situazione.
Era
stato un po’ brusco, ma doveva aspettarselo, era Derek, la gentilezza non era
la sua caratteristica principale, soprattutto nelle situazioni in cui si vedeva
in svantaggio, eppure difficilmente si rivolgeva a lui con quell’atteggiamento
da quando erano lontani da Beacon Hills.
Era
indeciso, non sapeva cosa fare, se potesse osare, ma non voleva che il lupo
completo si allontanasse nuovamente come la prima volta in cui l’aveva beccato.
Si alzò sulle ginocchia e scivolò sul materasso, avvicinandosi nella sua
incapacità di fare silenzio al mannaro. «È colpa mia? Ho fatto qualcosa?» era
difficile trovare il coraggio di chiederglielo, trovare le parole giuste che
indicassero tutte le pene e le affiliazioni di cui Derek si stava caricando per
colpa del cervello rotto che Stiles possedeva.
«No,
non hai fatto niente» rispose immediatamente, quasi si aspettasse che l’umano
gli ponesse la domanda da un momento all’altro, il che indicava quanto il
capitano fosse pronto verso la sua direzione, anche quando in crisi era lui
stesso.
Era
rincuorato da una parte, sapere che non gli occupasse tutto il tempo con le sue
problematiche distruttive, ma capiva anche se non era in grado di risolvere il
problema senza indagare.
Si
accucciò dietro la grande schiena del mutaforma, la testa che gli poggiava
contro poco sotto la spalla. Derek non si scosse né lo scacciò, era anche
troppo immobile per i suoi gusti. «Posso fare qualcosa?».
«No»
proferì monosillabico, lapidario.
Era
desolante e faceva male non potere aiutare qualcuno che si spendeva tanto per
lui, per la sua sicurezza e salute. Derek non era tipo da chiedere aiuto,
esattamente come lo era Stiles, ma perfino dopo tutto quello che avevano
condiviso il lupo era tanto ostile nei suoi confronti?
La
matricola respirò sulla sua pelle, il fiato che si infrangeva, il naso che lo
accarezzava labilmente. Gli schioccò un bacio di riflesso, un autonomismo
elementare a sottolineare quanto fosse l’unica cosa da compiere.
Derek
vibrò per un solo secondo a quel bacio sulla schiena e poi tutto entrò
nell’immobilismo.
Il
respiro della creatura della notte era pesante, stava cercando di riprenderne
il controllo, così come delle sue emozioni devastanti, il corpo era più caldo
del solito ed era evidente che avesse sudato di nuovo, ma Stiles non si
ritrasse, rimase dov’era a completo contatto, a vivere l’intero dolore di
Derek.
Si
chiese se fosse concentrato su Paige o sulla sua famiglia, o perfino su quello
che Katie gli aveva fatto; Derek aveva sofferto così tanto che si domandava se
riuscisse a vivere un dolore per volta o fosse tutto così tanto incatenato da
non essergli permesso, testimone di ogni suo piccolo errore portato dalla sua
ingenuità, da schiacciarlo e condannarlo, senza dargli tregua.
Trascorse
talmente tanto tempo da chiedersi se le ore si fossero dilatate. «Der, torna a
dormire con me» era privo di energie, ma avrebbe consumato perfino quelle che
non aveva se a Derek fossero servite.
«Ti
ho detto di andare» fu l’unica cosa che il capitano della squadra di basket
disse, asciutto e irritato.
«Non
farò niente senza di te» erano due testardi, averla vinta era una battaglia
persa in partenza.
Derek
sospirò con stanchezza, si passò le mani sul viso a scacciare tutto quello che
vi era impresso, prendendo nuovamente un respiro profondo, facendo muovere
l’umano con lui. Si scostò e voltò nella direzione del figlio dello sceriffo,
gli occhi negli occhi a scrutarsi reciprocamente in quel buio ingrigito. Stiles
non riusciva a scorgerlo come avrebbe voluto, ma la vista di Derek era
impeccabile, che fosse giorno o notte, lui vedeva tutto. «Che volpe diabolica».
Stiles
si stava a poco a poco abituando all’appellativo con cui Derek lo descriveva di
occasione in occasione, quasi fosse studiato o non fosse più necessario
trattenersi. «Puoi sempre imbrogliarmi».
«Imbrogliarti»
gli fece eco come se ci stesse meditando su, a comprendere il reale
significato. «La vittoria è sempre tua».
Stiles
accennò un sorriso malandrino e prese Derek per mano, conducendolo con la
giusta tempistica verso il suo lato del letto e costringendo entrambi a
distendersi, coprendosi con le coperte fino al collo. «Hai propriamente
ragione, Sourwolf».
Derek
sbuffò sul suo viso con disapprovazione e ribellione e Stiles rispose
inoltrandosi maggiormente verso di lui, un solo respiro a dividerli, ognuno al
limite della punta dei rispettivi cuscini, riflesso l’uno nell’altro. «Io ci
sono» disse la matricola con sincerità e serietà, totalmente prodigata verso il
licantropo, intrecciando le dita della stessa mano che aveva usato per
guidarlo.
«Lo
so» soffiò la creatura leggendaria, le iridi che brillarono di pagliuzze blu e
rosso. «Ci sei sempre».
Stiles
non aveva alcuna idea a cosa Derek si riferisse, ma era felice che potesse in
qualche modo bastargli, che al momento fosse tutto quello che gli era concesso
fare nei suoi confronti.
Socchiuse
le palpebre con delicatezza, sfiorando il naso del lupo, alleggerito rispetto
alla situazione precedente. Derek, a rispondergli, intensificò meglio la trama
delle loro dita e Stiles avvertì che si fece ancora più vicino.
Non
aveva né guarito né risolto le pene che affliggevano il mutaforma, ma non gli
avrebbe permesso di affrontare quella battaglia da solo, sarebbe intervenuto in
ogni occasione offertagli per ricordargli che erano diventati due.