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Autore: amirarcieri    17/04/2024    0 recensioni
Wyatt fin dalla nascita ha sempre sentito la mancanza di qualcosa, come ad essere stato privato di una parte importante di se stesso, ma nessuno gli ha mia dato conferme. Soltanto domande delle quali solo lui era a conoscenza e risposte a cui doveva trovare un riscontro mediante gli altri.
Un giorno Wyatt decide di andare dalla madre per farsi raccontare il segreto che nasconde, ma non è del tutto certo della sua decisione, perché privo di prove certe.
Il caso vuole che proprio nello stesso giorno, Wyatt, incontra una ragazza che lo scambia per un altro ragazzo e allora lì, Wyatt, non ha più dubbi.
Dopo averla invitata a pranzare a un ristorante, è certo che il suo pensiero è pieno di fondamento.
Genere: Commedia, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 9


 

La franchezza non vuol dire sempre giudicare“

 

 

Quando furono a destinazione, l'hostess li svegliò con delicatezza per dirgli di dover lasciare il veicolo.
«Dannazione. Mi sono persa le luci notturne» Diana ne era realmente dolente.
«Joy non si è ancora fatta vedere» disse invece Wyatt senza stare a sentirla.
Sembrava aver fretta di prenotare la sua stanza d'albergo e affondare nelle coperte del suo gigantesco letto.
«Oh si! Grazie per l'ascolto» lo rimbeccò lei, sorridendogli scontrosa.
«Eccomi, scusatemi» la voce di Joy arrivò giusto in tempo per spegnere le fiamme già divampate dei loro caratteri fumini.
«Fa niente» la accolse garbata Diana.
«Allora questo è il mio numero» Joy le passò un fogliettino lilla dove ne aveva precedentemente appuntato le cifre.
«Così potremo risentirci per due chiacchiere» aggiunse dopo facendole l’occhiolino.
«E per restituirci i vestiti» le puntualizzò Diana.
«Si anche quelli» concordò anche se quello era stato l’ultimo dei suoi pensieri.
«Beh, perciò ci vediamo, magari, domani pomeriggio?» la voce di Joy era suonata nettamente esitante.
«Umh! Può darsi» l'intonazione di Wyatt lasciò pensare a qualcosa di favorevole alla sua iniziativa. In mezzo a quella marea di volti estranei, i clacson furiosi delle macchine e la luce dorata dei lampioni, gli occhi di ghiaccio di Joy furono il gioiello più luminoso e incantevole della sera.
«Okay. Allora a domani» Joy li salutò entrambi con due baci sulle guance, e dopo, salendo su un taxi preso al volo, si immerse nel traffico arenato di Ontario.
«La invidio sai?» disse Diana dopo aver agitato la mano per offrirgli un ultimo saluto.
«Non devi» la supportò Wyatt. Ed ecco che l'uomo saggio recondito nelle profondità più abissali di se stesso, si manifestava alle nove e mezza di sera.
«Mister Wyatt» Diana usava l’appellativo Mister ogni volta che doveva dargli una lezione di vita.
«Io non mi riferisco al suo aspetto fisico, ma il carattere» buttò fuori, cadendo contemporaneamente seduta sopra una valigia.
«Io invidio il suo carattere. È così tremendamente forte e piena di speranza. È incredibile a come, dopo tutto quello che ha passato riesce ancora a donare del bene e sorridere al prossimo» se la prima volta che l’aveva guardata negli occhi ghiaccio, Diana le aveva invidiato realmente l’aspetto esteriore, quella superficialità sciatta non era niente se paragonata all’invidia ponderata che stava provando adesso.
Come una ragazzina che voleva imitare la sua eroina preferita, lei aveva sempre sognato di essere come Joy.
Gloriosa, irriducibile, abbattuta, ma mai sconfitta e dotata da un altruismo capace di far riappacificare Russi con Americani.
«Ma tu lo sei già, solo che non lo sai. Devo solo trovare il coraggio di accettarlo» le denotò, appoggiandosi al muretto per affiancarla. Diana sollevò la testa per scoccargli uno sguardo di disappunto, tutto sommato però, cominciò comunque a riflettere sulle sue parole.
Malgrado sembrasse il classico discorso motivazionale da romanzo fantasy che il maestro di arti magiche faceva al suo pupillo, le sue parole non l’avevano colpita, ma forse, lentamente, qualcosa stava cominciando a smuoversi e interagire con il suo cervello.
Solo che Diana era capricciosamente ostinata di natura, quindi pur di evitare di guerreggiarci attraverso un monologo interiore o proseguire l’argomento che lei stessa aveva aperto, cercò di guardarsi calcolatamente intorno per rivoluzionarlo a uno più trasognato.
Anche a quell’ora l'aeroporto di Toronto, era una città piena di vita che faceva palpitare forte il cuore anche a te: l’andirivieni di persone - c’era chi faceva una svagante passeggiata e chi procedeva con il tipico passo di pendolare che non vedeva l’ora di tornare a casa – la facevano sentire parte di quella loro felicità e frenetica esistenza, la scia di profumo lontana dei cibi fatti in strada ti apriva un buco nero nello stomaco, i suoni dei clacson e le luci intense e ammalianti dell'aeroporto – città - ti davano quel senso di stare guardando una parata in festa locale.
Diana avrebbe voluto compiere ognuna di queste cose, ma quello che fece fu solo di immaginare di realizzarle nel mentre che rimaneva al fianco del suo partner in crimini.
Ma proprio allora, in mezzo a quell’uragano di voci, suoni e colori, Diana notò una cosa.
Forse complice l’angolo discreto – posto a sinistra dell’entrata all'aeroporto, in cui stavano aspettando il taxy, nessuno però aveva riconosciuto il gran pezzo di star con uno strillo o l’indice tremolante volto verso di lui.
La cosa le parve strana e sospetta, ma anche rasserenante.
Niente fan che avrebbero potuto ossessionarlo chiedendogli una foto o paparazzi che li avrebbero ritratti come la coppia del momento.
«Non sapevo suonassi la chitarra» gli chiese un attimo dopo, sollevando il capo verso la direzione del suo silenzioso amico. Quando si era voltata verso Wyatt, le pupille avevano puntato per prima cosa in basso, quindi allo strumento musicale poggiato accanto alla valigia del ragazzo, la domanda perciò le era venuta spontanea.
«Cioè lo sapevo, solo che non credevo fosse un hobby abituale» si apprestò a spiegare, tornando a guardare davanti a lei per vedere se era arrivato un taxy.
«È una cosa che faccio spesso, sopratutto prima di andare a dormire o esibirmi in un palco. Mi rilassa molto» le confidò pacato. Dopodiché, lasciandosi la spallina dello zaino ancorata alla spalla, lo rigirò sul davanti e aprendo la tasca in basso, ne estrasse il suo tanto bramato pacco di sigarette.
Stava per accenderne una tutto gongolante, quando Diana lo trafisse con uno sguardo temerario.
Inizialmente Wyatt non capì.
Presumeva che derivasse da una sua repressione ritardata dovuta a qualcosa di offensivo che aveva precedentemente detto, ma poi la ruota del suo cervello cominciò a girare.
Vederla avvolta da quelle luci abbaglianti e fredde dell'aeroporto con quel sorriso amabile che le si dipinse lentamente sul volto, fu come assistere alla manifestazione di un’accecante divinità, apparsa li dal nulla per mostrargli la via giusta da seguire.
«A ogni sigaretta, una canzone» le sue parole lo travolsero come un uragano in piena città.
Diana lo capì e sollevò giocosamente le sopracciglia per incitarlo a mantenere la sua promessa.
Quest'ultimo acconsentì con un movimento allentato della testa e allontanando l'accendino dalla sigaretta, lasciò cadere le mani sui fianchi così da riflettere sul da farsi.
Per impegnare la parola data avrebbe dovuto cantare.
Cantare significava uscire allo scoperto. E non che questo gli pesasse, anzi le trovate improvvisate lo aggradavano di più di quelli “studiati a copione” - come lo pensava sicuramente Diana - ma il suo manager cosa ne avrebbe pensato di questa arbitraria pensata?
Per decidere meglio, Wyatt fece circolare gli occhi in giro: l'aeroporto era accalcato da molta gente, i taxi sembravano aver smarrito la via del ritorno con la loro andatura letargica e l'atmosfera, nonostante ebbrezza cittadina, sembrava delle più favorevoli.
Tutto sommato non poteva lamentarsi.
Anche perché – oltre la strigliata professionale del suo manager - non aveva niente da temere e nel migliore dei casi sarebbe stato individuato per ciò che era, nel peggiore invece, per un barbone dalle corde vocali pregiate.
Wyatt quindi si concentrò, gettando fuori un sospiro tirato, e chiudendo gli occhi, attaccò con un brano celebre e piuttosto melodico.


And you can tell everybody this is your song
It may be quite simple but now that it's done”


Diana gli sorrise lieta e rimembrando il testo della famigerata canzone di Elton John, lo fiancheggiò nuovamente in un duetto.


I hope you don't mind
I hope you don't mind that I put down in words
How wonderful life is while you're in the world”


«Funziona?» gli chiese non stando nella pelle per la curiosità. Per tutta risposta Wyatt rimise la sigaretta nel pacchetto.
«Si» era incredulo lui stesso a dire quel SI.
Appariva inconcepibile quasi quanto uno scienziato avesse appena trovato il rimedio a un anomalia incurabile.
Gli sembrava tutto così assurdo e allo stesso tempo sbalorditivo.
La teoria di Diana non solo aveva il cento per cento in meno di tossicità, ma lo aveva sopratutto disteso.
Improvvisamente, la sua voglia di fumare era stata sostituita dall'istinto irrefrenabile di cantare.
Ancora, ancora e ancora.
Wyatt scoprì che lo desiderava fare per più quante ore di un concerto senza alcune pause di mezzo.
Man mano che loro proseguivano la piccola esibizione, una folla di curiosi si riunì per ascoltarli e a quell’affollamento di curiosi che riconosceva il gran pezzo di Rockstar, se ne aggiungevano altri che filmavano, diffondendo la notizia sui social.
In ben che non si dica, davanti all’entrata dell'aeroporto, si era formata una folla di fan sfegatate che urlavano e piagnucolavano il nome del loro beniamino.
Diana si divertì un mondo a fare il duetto con lui, ma anche a sentire il modesto coro di quaranta persone farlo insieme a loro.
Una volta finito il mini repertorio di canzoni, Wyatt dovette accontentare tutte le fan con foto e autografi, improvvisando la balla “L’ho fatto per mostrare le mie umili origini e dare l'opportunità di vedere un mio concerto dal vivo a chi non poteva procurarsi i biglietti“ alla domanda “Perché questo concerto improvvisato davanti all'aeroporto?” o “Un’amica” susseguito da un sorriso ammorbidito dalla tenerezza a “Chi è lei? Una nuova della band?”.
Mezz’ora dopo salirono sul primo taxy disponibile con il cuore e la mente tronfi di emozione.
«E’ una bella sensazione» disse Diana orgogliosa. Aveva parlato senza guardarlo, anche se nel vero vedeva il suo riflesso nel finestrino.
«Umh» acconsentì Wyatt, accordandosene.
Era stata realmente una straordinaria emozione.
Sovrana all’esigenza di fumare senza indecenza che si era appena dissolta.
Wyatt adesso la stava guardando con occhi pieni di lodevole luce.
Non riusciva proprio a capire come Diana non riuscisse a vedere che ragazza straordinaria fosse, a quanto simile fosse a Joy e a quanto benessere potesse regalare a un altro suo simile.
«Intendo, è una bella sensazione sapere di essere utile» disse Diana, guardandolo colma di soddisfazione.
«Forse hai ragione. Devo solo accettarlo» adesso anche lei si era conciliata con le sue morali.
E aveva capito.
Lei voleva essere come Joy, ma non sapeva di esserlo.
Lo era sempre stata, ma non aveva mai avuto il coraggio di accettarlo.
Diffidava sopratutto delle sue qualità e che non sarebbe mai stata abbastanza per gli altri.
Ma forse erano solo stupide paure.
Paure prodotte da insicurezze nate nella sua giovane infanzia che non era mai riuscita a superare, perché ammirando il viso di Wyatt colmato dall'appagamento che lei stessa gli aveva indicato, si era sentita proprio come Joy.
Forte, impavida e esaudita come quando gli altri lo erano per mano sua o no.
Quando arrivarono a destinazione e scaricarono tutti i bagagli, Diana rimase a bocca aperta per una cinquantina di secondi.
Davanti a lei c’era un albergo a cinque stelle.
Un albergo a cinque stelle.
Lei non aveva mai minimamente sognato di poter mettere piede su un albergo a cinque stelle, ma adesso che ci era le sembrava tutto un abbaglio da canna.
Malgrado il suo abbaglio durò solo per poco, perché una volta entrata, pensò che si trattasse di una candid camera di cattivo, pessimo gusto.
L’albergo era caratteristico – per non dire atipico - e le fece un’impressione solleticante.
Diana non capiva se fosse stato ottenuto da una macchia di giungla o la giungla fosse stata trasferita nello spiazzo.
La superficie, togliendo i cuscini e i lampadari, era composta in acero canadese e rovere grigio, adornato con rampicanti che si tratteggiavano in disegni dalle forme astruse che davano un senso di selvaggio e libero all’ambiente.
Mentre sgambettava all'interno, Diana temette di potersi imbattere in una pantera nera sonnecchiante oppure un orso bruno che ballava a ritmo di “Indispensabile”.
La reception, abbellita con quei tavoli dentellati, ricavati dai fusti di albero, le poltrone stile vecchia preistoria coperte da pellicce di animali antitetici come la zebra e la tigre, il bancone non era altri che una rozza tavola di legno poggiata su altrettanti due pilastri di legno, e per finire, dietro, uno stendardo raffigurava graffiti rupestri di elementare comprensione.
Diana, si stupì che anche lo staff non si fosse improvvisato cosplayer dei Flintstones e indossasse invece i classici abiti formali.
«Vorremmo prenotare due camere» disse signorile Wyatt, quando raggiunsero la reception.
Il Concierge li guardò malizioso e voltandosi con un sorrisetto altrettanto insinuante, prese due mazzi differenti di chiavi.
Aveva l’aria giovanile portata dalla folta chioma argentata pettinata all’indietro, gli occhi vispi come uno scoiattolo davanti a un pacchetto di noccioline e le battutine di un ragazzino fastidiosamente sincero.
Il modo in cui guardava e si rivolgeva alla suddetta vanesia star, le fece capire che sapeva benissimo chi era e non l’avrebbe sconvolta il vederlo chiedergli una foto a fine prenotazione.
«Certo. Fatemi controllare» disse e si voltò con la i mazzi di chiavi infilati nei rispettivi due ind
«Ne abbiamo a disposizione sia matrimoniali» specificò e dondolò la chiave infilata nell’indice destro.
«Sia singole» concluse dondolando le altre due incastrate nell’indice sinistro.
«Bene io prendo quella singola. Lui quella matrimoniale» si affrettò a decidere Diana.
«Perché?» chiese Wyatt, senza sprecarsi di nascondere il fastidio provato nel sentire quelle sue sconesse parole.
Wyatt, proprio come il Concierge, aveva creduto di dover dividere la stessa camera d’albergo con lei, ma a quanto pare Diana si era fatta tutt’altro filmino mentale.
«Allora? Questa chiave?» la ragazza incitò scorbuticamente il Concierge a dargli la chiave, ignorando la domanda ostile che l’amico le aveva fatto.
«Certo» gliela diede il Concierge con ancora l'espressione da stoccafisso stampata in faccia e cercando una spiegazione nella figura importante di Wyatt.
«Grazie!» lo ringraziò adoperando il tono di figlia di papà che lei stessa odiava, ma che in casi come questi tornava di grande utilità.
A Wyatt non restò altra scelta che prendere quella matrimoniale.
«Se volete a voi posso darvi una meravigliosa suite che si affaccia..»
«No, è a posto così, grazie» lo interruppe Wyatt, preferendo una modesta camera anonima, anziché stare in una sgargiante suite sintomatica di una considerevole notorietà.
Una volta sbrigate tutte le prassi di registrazione e pagamento, presero i loro bagagli e si diressero alla volta dell’ascensore, evitando di farsele portare dal facchino incaricato.
L’ascensore manteneva perlomeno un’estetica sobria e non aveva rampicanti che cadevano dal tetto o scimpanzé facchini addestrati a scortarti fino alla tua camera.
«Perché?» le ridomandò Wyatt, dopo un tranquillizzante, cogitabondo silenzio reciproco.
Stava morendo dalla voglia di saperlo e forse qualcosa la sospettava, ma avere una riprova con la diretta interessata, sarebbe stato più soddisfacente delle teorie stesse da lui elaborate.
«Così potrai portarci tutte le ragazze che vuoi durante il soggiorno» Diana non sembrava affatto imbarazzata della confessione appena fatta, anzi si mostrava controllata e supponente.
«Quindi tu la pensi come un dozzinale programma di gossip» affermò, sperando che le arrivassero la rabbia e delusione con cui aveva intinto ogni singola parola.
Stando al fianco di Diana in questi ultimi giorni, gli aveva fatto credere che tra loro si stesse instaurando una connessione empatica speciale, che lei lo capisse e conoscesse più a fondo di chiunque altro, ma forse aveva dato un giudizio affrettato, profondamente influenzato per metà dai pregevoli intrecci che il destino gli aveva offerto.
«Non è che lo penso è un dato di fatto» mentre esponeva il suo schietto pensiero, Diana fissava i numeri dei tasti dell’ascensore così da evitare il suo sguardo ferito.
«E poi non devi giustificarti con me. Non sono tua sorella, tua madre o la tua ragazza. Sei giovane, ricco, ti vuoi divertire, hai gli ormoni che vanno a mille e frequenti erezio..»
«Se condividessimo la stessa camera d’albergo, pensi davvero che potrei fare una cosa simile» la interruppe lui maggiormente irritato.
Era vero che diventare una stella affermata della musica, gli aveva notato una vita libertina all’insegna dei capricci sessuali e l’abuso di alcol e qualche canna di troppo, ma mancare di rispetto a una donna o costringerla a fare qualcosa contro la sua volontà mai. Avrebbe preferito di gran lunga perdere il novanta per cento della sua fama, che commettere una cosa tanto riprovevole.
«Hey, bad boy calmati. Io ti ho detto la mia, tu la tua. Si può sapere che problemi hai?» sbotto lei fuori controllo.
Diana non lo capiva proprio. Perché era diventato di colpo così ostinato?
Poteva avere tutte leragioni del mondo se gli avesse dato del figlio di b*****a o cornuto, ma perché mostrare tanta acredine per un’evidente travisamento di pensieri e parole?
All’ascensore mancavano due piani per arrivare al piano desiderato e sembravano andare anche loro a pari passo con il tempo a disposizione, giungendo ormai alle battute finali.
«Il problema se tu. Temi di essere la prossima che mi porterò a letto» la accusò pesantemente lui su una cosa vera.
Era certo che fonte della sua spropositata paura fosse riconducibile a questo suo incombente timore.
Si sentiva profondamente minacciata di dover condividere il letto con un’altra persona, non tanto per il fatto che fosse un ragazzo, quanto per l’ipotesi che potesse essere il presunto gemello del ragazzo che aveva scaricato – anche se scaricare non era la parola adatta – in preda a una crisi di panico totale d’amore.
«Certo perché tu non approfitteresti della situazione per toglierti l’ennesimo sfizio da Rockstar vanesia che sei» Wyatt avrebbe provato a portarsela a letto perché provava un'inconfutabile attrazione fisica – forse anche mentale – per lei e lei ci sarebbe cascata perché a un certo punto si sarebbe disconnessa dalla realtà, annegando nel ricordo lontano di Xavier.
Diana non dubitava che non l’avrebbe mai forzata a fare alcunché, ma lui non poteva aspettarsi di realizzare ogni suo desiderio con uno schiocco di dita solo perché era Wyatt dei Waves.
I due rimasero in silenzio senza contemplare minimamente l’idea di sbirciarsi per un secondo di sottecchi.
Reprimevano rabbia e considerazioni come se fosse il dolore causato da una botta presa al mignolo dallo spigolo di un mobile, attendendo con impazienza il momento in cui le porte dell’ascensore si sarebbero spalancate.
Poi però, dopo circa quattro secondi, la ragione e empatia presero il sopravvento sulla sgarbatezza e collera.
Tornando parzialmente lucida, Diana cercò di fare pattuire entrambe le parti.
«Senti, siamo stanchi. Il sonno ci fa dire cose insensate. Meglio lasciar perdere e riparlarne domani mattina. Okay?» Diana non voleva litigare con lui e non aveva nessunissima intenzione di rivoltarsi nelle coperte, divorata dal senso di colpa che le avrebbe azzannato dispettosamente lo stomaco per tutta la notte.
«Si okay» le rispose lui collaborativo, ma la voce nervosa che trasparì, fece sembrare le sue parole la stregua di un armistizio forzato.
Le porte dell’ascensore si aprirono proprio allora con un fruscio sommesso.«Beh, allora buonanotte» gli augurò, voltandosi in maniera vaga verso la sua parte.
«Si, buonanotte» ricambiò, uscendo di scena per dirigersi alla sua camera.
Diana lo imitò compiendo l’identica azione senza mai voltarsi a guardarlo.
Una volta all’interno della sua camera, sbatté la porta e senza sprecarsi di controllare l’ora, chiedersi se avesse fame, sete o osservare il luogo intorno a lei.
Distese solo le braccia, lasciandosi cadere sul morbido materasso alle sue spalle.
Entrambi precipitarono nella fluidità di quelle coperte di seta nello stesso istante,ma differentemente da come potessero immaginare non si sentirono affatto rilassati.
Il loro stato d'animo era occupato da una nana scintilla di vaga inquietudine che li faceva sentire in difetto con l'altro.
Chiudere in quella maniera non era stata affatto una buona manovra e lo intuirono solo dopo aver sbarrato le porte delle rispettive camere.
Tutte quelle parole che si erano urlati contro non avevano portato a un buon punto e tendere a rispettare il principio di parare se stessi li aveva intestarditi a tal punto da non intuire che fossero nella parte della colpa.
Si voltarono su un fianco per provare a distendersi meglio,ma il silenzio al quale erano predisposti rendeva più rumorosi i loro pensieri.
Tuttavia non sembrava che avessero avuto una lite accesa,eppure,pareva che qualche torto gli era stato fatto e ne stessero risentendo correntemente.
Infastiditi,misero a tacere il silenzio stesso e chiudendo gli occhi sprofondarono in un sonno permanente per tutta la notte.
Quel regno dove le illusioni prendevano vita e tutta la malvagità di qui eravamo schiavi si prendeva una tregua sostituita dalla pace e la sintonia arbitraria.

 

 

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La mattina dopo Diana si risvegliò con un ora di anticipo.
Ad un certo punto gli assilli erano stati spenti dal cervello stesso, troppo fiacco per riuscire ad opprimersi da solo, ma la notte non era certo stata portatrice di rimedio.
Quella somara sensazione di fallo nei confronti di Wyatt la continuava a martoriare puntigliosa e convinta che lei, da un momento all'altro, avrebbe ceduto alla sua balia, quando in realtà non aveva nessunissima intenzione di dargli credito.
Diana quindi aprì la valigia e indossò un paio di jeans blu abbinati a una felpa grigia corta sull'ombelico e degli stivaletti anch’essi neri con tacco a blocco.
I capelli, essendo troppo pigra e provata dalla nottata, li legò in una bella coda di cavallo alta.
Poi chiuse la porta della sua camera come se le scocciasse persino camminare, e voltandosi a destra, estese la sua vista fino al fondo.
Un sospiro di angoscia fuoriusci dalla sua bocca.
Ma che stava facendo?
Fissava la porta della camera cinquanta, in attesa che questa si socchiudesse anche di un solo millimetro?
Diana non capiva cosa le prendeva e perché stesse immobile al centro del corridoio dell’albergo, aspettando qualcosa che non sarebbe mai successa.
Non si trovava mica in un film o una scontata fanfiction dove la protagonista principale riusciva a rapire il cuore dell'idolo ambito da migliaia di ragazzine in calore.
E per prima cosa manco le interessava esserlo.
«Bleah! Per carità» pensò sentendosi salire un conato di vomito.
Grazie al cielo questa era la vita reale e nella vita reale solo poche opere romantiche prendevano ispirazione da storie d’amore realmente esistite, ma non andava neanche come ognuno sperava dovesse essere.
E poi lei non ambiva a quello, ma solo a delle semplici scuse.
Scrollandosi di dosso quei pensieri come avrebbe fatto con dell’acqua salata di mare, fu risoluta a proseguire indifferente.
Non doveva rimuginarci sopra.
Non doveva aver nessuna motivazione per sentirsi in colpa, tuttavia se esisteva un metodo indicato per questo suo fardello era quello più efficace quanto diffuso.
Per questo decise di dirigersi al bar dell'albergo e sorseggiare una calda tazza di tè.
Oltre a sciogliergli la mente, il suo infuso naturale si sarebbe preso anche la bega di distendere ogni suo muscolo contratto.
Per scendere prese l’ascensore e seguite le indicazioni per la sala ristorazione, giunta a destinazione, osservò l’ambiente prima di prendere posto a uno dei tavoli: il bancone era una corsia di legno raffinato e sgabelli di velluto grigio perla imbottiti, l’area ristorazione era un dedalo di sedie e tavolini in panama, ce n’era persino una a forma di uovo dove potersi deliziare del panorama sottostante, sorseggiando un caffè e una pina colada, a secondo dei gusti e orario. Nell’aria aleggiava l’odore superdelizioso di bontà ipercaloriche della colazione e le chiacchiere soporifere dei primi campioni mattutini.
«Mi permetta, signorina» d'improvviso una voce maschile e gioiosa la distrasse da quella sua vista costante.
Raggiunto il bar, Diana, era rimasta per tutto il tempo a fissare la porta dell'ingresso con un espressione demoralizzata sul volto, dimenticandosi di fare la sua ordinazione.
«Posso?» ritentò il misterioso ragazzo prima di sedersi nell'effettivo, senza aver mai avuto il suo consenso.
Diana finalmente elevò la testa verso il suono della voce e vide un cameriere ventenne dalla carnagione olivastra, un capello petrolio lungo, portato mosso sulla nuca e qualche ciuffo ai lati delle pupille castano ardente, contornati da una fila scomposta di festose lentiggini.
Tutto in lui, perfino il sorriso niveo e disarmante, portava splendore e buon umore dentro quel luogo frequentato di ospiti passeggeri, ma Diana non volle assorbirne la positività.
Non per quel momento almeno.
Perciò confusa da quell'intrusione senza senso, si decise a fare un'ordinazione.
In fin dei conti cosa poteva volere un cameriere da lei?
«Si vorrei ord...»
«Non sono qui per l'ordinazione. Insomma, l'ho vista seduta in questo stato» la interruppe il cameriere, sistemandosi meglio davanti a lei.
«Sola. Triste. Persa a fissare l'ingresso» il ragazzo sollevò il pollice verso l'entrata per indicargli una donna di mezza età vestita in tutta ghingheri rossi e neri.
«E allora?» gli rivoltò addosso lei rustica.
Che tradotto nella sua personale lingua Dianese significava "Taglia corto bello! Che vuoi da me? Mi stai disturbando a livelli incommentabili".
Tuttavia nell'averla spinta a comunicare, il giovane cameriere le mostrò un sorriso luminosamente compiaciuto.
«Io intendo, nel senso che, ho già visto questo tipo di sguardo e tutte quelle che lo possedevano erano donne infelici» spiegò in tono cattedratico.
Diana aggrottò le sopracciglia con il cervello in disordine, ma la lingua dopotutto pronta a colpire.
«E fammi capire, tutte le volte che le hai viste sedute "Sole, tristi e perse a fissare l'ingresso", gli hai concesso una seduta psicologica senza guadagno?» ironizzò lei, servendosi di una frecciatina gelida atta a smascherare le sue false spoglie di psicologo premuroso.
«No, cioè, quello che sto cercando di dirti» il cameriere fu tanto audace da dargli del tu.
«Posso darti del tu giusto?» ma volle sincerarsi di non essere prossimo all’essere strangolato con la tovaglia che adornava il tavolo al quale erano seduti.
Diana storse la bocca e sollevò le sopracciglia per replicare alla sua richiesta e tradurlo in un chiaro “Fai come ti pare, non mi frega”.
«Perfetto» se ne compiacette il cameriere, facendosi scappare un sorrisetto allegro.
«Dunque, quello che sto cercando di dirti è che so da cosa deriva il tuo stato di tristezza»
«A si?» lo interruppe lei, impostando una studiata voce sarcastica.
Lui però la ignorò proseguendo con il suo monologo da pseudo – Freud.
«Avere una lite furiosa con la persona che si ama è una delle cose più brutte che possono accadere a una coppia. Ma proprio in questi momenti di sconforto devi sempre tenere a mente un’ovvietà: se è vero amore non saranno né le incomprensioni o i dubbi a dividervi perché il sentimento reciproco che provate è più forte di qualsiasi altro corrotto» Diana fece una smorfia plateale.
Ammetteva abbastanza facilmente, che lo pseudo – Freud aveva esperienza al parlare alle donne con problemi di cuore e il suo tatto nell’esprimersi era da sposare.
Tutto regolare. Niente da obbiettare, per carità.
C’era solo una nota sulla quale trovava una leggera stonatura: il sentimento - argomento principale di cui tanto ne cantava le lodi.
La sua demoralizzazione non dipendeva dal fatto che aveva litigato con il suo grande amore, ma per aver avuto uno sciocco, equivoco screzio con colui che al lungo andare sarebbe diventato un “amico indispensabile” nella sua uggiosa vita di tutti i giorni, e forse, più per il legame che si stava creando tra di loro, a demoralizzarla e non dargli pace era lo sgarro da lei commesso verso i confronti di Wyatt.
Diana avverti tutta la pesantezza del sospiro flemmatico che emise.
La frenetica voglia di vedere la figura di Wyatt attraversare la sala e accennargli un sorriso acceso di riappacificazione, la stava divorando lenta.
«Bene, grazie per aver condiviso questo tuo perseguibile e ammirevole pensiero» disse poi, emettendo un sorriso di accettazione.
Malgrado i pensieri caotici le gravassero sullo stomaco, la presenza dell’amicameriere era riuscita a stemperarli un po'.
Fotografie di luoghi abbaglianti e calorosi come una radura piena di margherite in primavera o spiagge con un mare scintillante in pieno agosto, le cominciavano a passare nella mente, facendola automaticamente sentire più spensierata.
«Adesso però, potrei per piacere avere una tazza di tè caldo?» infine Diana fece finalmente il suo tanto bramato ordine, poggiando i gomiti sul tavolo e incastrando i palmi sotto il mento.
Quell’innocente espressione assunta, cosparse di zucchero filato il cuore già attratto dell’amicameriere.
«Certamente! Vado subito a farlo preparare» la accontentò tutta entusiasta, aggiungendoci anche la lusinga di un occhiolino.
Diana ricambiò con un sorriso giulivo.
Di tanto in tanto non faceva male avere un po’ di queste tipo di attenzioni, anche per il lasso di tempo di un temporaneo gioco di parole e sguardi.
Certamente non ricaricava il cuore di una calorosa speranza, ma sapeva essere una buona medicina alla solitudine.
Nel tempo che attese il suo tè, Diana non smise un secondo di tenere d’occhio l’entrata principale del bar, tuttavia ciò che si mostrò ai suoi occhi furono solo una famiglia tedesca con due bambine, un uomo in giacca a cravatta che prese un ordinazione lampo e due coppie di fidanzatini apparente contenti del viaggio in terra straniera che stavano facendo.
La figura di Wyatt fu l’unica a tardare a comparire.
«Ecco a te il tuo tè caldo» l’amicameriere comparì all’improvviso alle sue spalle, facendola scattare sulla sedia.
«E non smettere mai di sorridere perché quando lo fai, riesci a illuminare anche il pianeta più distante dalla Terra» le sussurrò poi intimamente a un orecchio, facendo sbocciare tra le sue labbra un lento, raggiante sogghigno.
Soddisfatto dell’operato fatto, il cameriere si voltò e cogliendo un braccio alzato, si affrettò a prendere l’ordinazione del cliente corrente.
Diana si dedicò completamente al suo amato tè.
Il fumo fuoriusciva soporifero, raggiungendo e rilassando le sue narici, mentre le mani entravano in contatto con la ceramica della tazza e si accaloravano deliziate da quel fuoco accogliente.
Sorseggiava il tè cauta, attendendo che da quella porta facesse ingresso il bluff di una faccia sfrontata come quella dei delinquenti tipici delle sitcom anni ottanta, e quando ciò accadde un senso ansietudine la pervase.
Diana fissava il corpo di Wyatt camminare verso la sua direzione più volitivo del solito.
Fluiva tra i tavoli mantenendo un’espressione vacua, gli occhi tesi.
Vestiva con i suoi soliti jeans blu strappati abbinati a una t- shirt bianca ornata da una scritto rossa al centro e una camicia a scacchi rossi e neri sbottonata.
Diana deglutì il sorso di tè appena preso, impietrita dall’ansia.
Attualmente, si trovava in un conflitto interiore.
Non aveva la minima idea di come agire o comportarsi per non peggiorare la situazione
Se guardarlo, l’avrebbe fatta apparire troppo impenitente o nel parlargli le sarebbe uscito fuori un tono innegabilmente provocatore.
Diana non sapeva stabilire quale gesto sarebbe risultato più favorevole.
E se l’avesse aggredita? O peggio ancora ignorata, andando a sedersi a un altro tavolo?
«Hey» disse, scegliendo di approcciarlo con il suo stesso modo da gangster di strada.
«Hey» le rispose lui sonnacchioso.
«Prendi un té?» Diana provò a essere più cordiale del solito, ma poi se ne pentì perché pensò che potesse apparire solo come una lunghissima e umida leccata di vacca.
«Un caffè» la corresse nel mentre che si accomodava sulla sedia davanti a lei.
«E d’accordo» Diana sollevò il braccio per conquistarsi l’attenzione dell’ami-cameriere.
«Si, signorina?» fece lui, ammiccandola con uno sguardo che stentava la poca confidenza.
Diana stette al suo giochetto, fingendo di non averci intavolato un discorso profondo cinque minuti prima.
«Vorrei un caffè per il mio “amico”» ordinò, indurendo l’intonazione alla parola “amico”.
«Davvero?» nel porre quell’interrogativo, le sue sopracciglia si incrociarono ad ali di rondine.
Diana si stampò un sorriso da scema in faccia e confermò la rivelazione appena fatta.
Era ancora fermo sull'idea che fossero una coppia?
Che cameriere casanova da strapazzo che era.
«Certamente!» la fissò tatticamente per dei secondi e facendogli un’audace occhiolino, partì in direzione del bancone a consegnare i nuovi ordini.
Diana spostò nuovamente la sua prospettiva visiva su Wyatt.
Lo vide osservare oltre ciò che la grande finestra gli esponeva spilorcia: aveva un’espressione vuota ed era visibilmente disinteressato allo scambio di sguardi tra lei e il cameriere mandrillo.
Nello scorgere lo stato d’animo cupo del compagno di viaggio, ne fu demotivata di colpo, sentendo sgretolarsi la speranza di potersene riconciliare.
A quanto pareva il signorotto non aveva la minima intenzione di comunicare e quella sua posizione introversa la diceva più lunga delle parole che avrebbe adoperato per farglielo capire. Un nodo alle budella le si strinse arduo privandola per qualche secondo di respiro.
Non era giusto. Quello che stava facendo era immeritato.
Ambiva forse a farla sentire una ripugnanza umana?
Comprendere quanto s*****a fosse?
«Senti un po’ Cicciobello» sbottò lei, in un impeto di incandescente rabbia.
Quel suo sclero improvviso, lo costrinse a stare istantaneamente sull’attenti.
Diana se ne infischiava se lui non voleva parlarle o che pensava fosse una ragazza indegna della sua considerazione.
Che la ignorasse pure. Che esprimesse pure tutto il suo disprezzo in sua presenza, ma non oggi.
Non oggi, proprio quando più di ogni altro giorno l’avrebbe voluta vicina e lei pretendeva di sussistere al suo fianco.
«Io spero che non hai quella faccia solo perché ci sono io davanti a te. Anche perché non ho nessunissima intenzione di chiederti scusa per qualcosa che non ho mai fatto o detto» sputò fuori pungente e iraconda.
Wyatt era stato per accogliere le sue franche ciance con il favore di un sorriso pago, ma il cameriere mandrillo fece la sua entrata in scena.
«Ecco a voi» disse poggiando le ordinazioni sul tavolo.
«Questo lo offro io» specificò il caffè di Wyatt, amicandolo penetrante.
«Grazie» Wyatt era più che spaesato.
Tutto quello che gli veniva in mente di dirgli era “Vuoi un autografo?” pensando che gli stesse pagando la colazione per quel solo, unico e giustificato motivo.
«Niente» l’ami – cameriere diede una svelta occhiata a Diana, che trovò crogiolata in un’espressione contorta dalla rabbia e sofferenza. Avrebbe voluto intervenire, ma pensò che in questo determinato caso sarebbe stato inopportuno, quindi girò i tacchi e tornò alle sue mansioni da cameriere.
«Forse ieri si» riallacciò Wyatt per riprendere la conversazione interrotta. Diana drizzò il collo istintivamente.
«Ma ho riflettuto e ho capito che tu non sei come gli altri. Tu sei solo franca e la franchezza non vuol dire sempre giudicare» esteriorizzò genuino.
Quando il mattino era sopraggiunto sulle ciglia della giovane vanesia superstar, aveva usato tutti i minuti a sua disposizione a chiedersi del perché avesse effettivamente avuto un battibecco pesante con Diana.
Scegliendo di fare il mestiere che faceva Wyatt era entrato a contatto con un mondo fatto di facciate di circostanza che cercavano di accondiscendere a ogni sua puerile capriccio.
O sentirsi autorizzato a passarsi tutti i piaceri di chi si ritrovava con castelli spropositati di soldi e non sapeva cosa farsene.
Ma Diana l’aveva scioccato. Era stata come una secchiata di acqua gelida durante un sonno profondo e fatto di templi d’oro.
A occhi semi – aperti e con la mente ancora annebbiata dal torpore, aveva realizzato che aveva interpretato male il punto di vista di Diana, che lei non gli aveva sputato addosso cattiverie e maldicenze per il solo scopo di ferirlo, ma solamente reso al corrente dei suoi pensieri. Che guarda caso lo portavano faccia a faccia con la realtà delle sue azioni non propriamente immacolate.
E proprio adesso che la stava osservando dritta in quei grandi occhi del colore di un buco nero profondo che ti attirava violentemente a se, si era reso conto che non aveva mai cambiato idea su di lei. Non aveva svalutato la ricchezza della sua persona o invalidata dell’accompagnarlo in questo suo strampalato viaggio.
Pensava che fosse ancora la ragazza eccezionale che si stava occupando della sua anima, proteggendola apprensiva, e dopo questa transizione burrascosa, la sua fiducia in le si era vorticosamente.
«Quindi scusami» la chiuse con un’espressione neutra abbozzata sul volto assonnato.
«Bhe, wow» furono le uniche parole che il cervello di Diana riuscì a concepire nel momento. Perché la ragazza era rimasta francamente sconvolta.
Ricevere le scuse sinceramente risentite da Wyatt degli Heart sounds, rendeva tanto quanto un doppiatore rinomato che leggeva il tuo libro preferito.
«Ti scuso» disse poi dopo aver ripreso la facoltà di ragionare.
Ed era ovvio che accettava le sue scuse. Sarebbe passata non solo per la stronza più incallita dell’umanità, ma sopratutto l’inguaribile immatura dei due.
Così ripresero a cibarsi della loro colazione senza aggiungere parola alcuna.
Wyatt non era più arrabbiato – e neanche lei – tuttavia quel suo mutismo anomalo – la sua loquacità stamattina era sonnolenta – la indispettiva più dell’averci litigato furiosamente.
Difatti, a un certo punto, ne ebbe abbastanza dei brusii confusi dei presenti e il tintinnio ripetitivo delle posate, quindi aprì un discorso – non proprio casuale – ma che necessitava sicuramente di un’indagine approfondita.
«Allora, hai, pensato a cosa dire a tuo padre?» gli chiese, bevendo l’ultimo sorso del suo tè
«Non sarebbe servito a niente» rispose, adesso pienamente rilassato.
«Puoi anche scrivere un discorso, preparatelo a memoria, ma in situazioni di questo genere, proprio come una dichiarazione d'amore, non è di nessuna utilità, visto che sarà il cuore a dettarti ogni singola lettera» dopo le scuse sincere di Wyatt, ogni cosa sembrava essere tornata come sempre, compresa la posa svogliata degli arti di Wyatt e la sua spocchia di uomo vissuto che Diana avrebbe tanto voluto cancellare con una torta di panna in faccia.
Diana perciò, si affrettò a compiere metaforicamente l’azione.
«Ma in teoria tu non dovresti essere abituato? Le star dello spettacolo non sono tipo istruiti a ripetere a pappagallo tutto quello che gli viene detto di dire dietro le quinte?» Diana sapeva che negli spettacoli come San Remo o X Factor fosse tutto un copione studiato a tavolino e recitato ad arte, ma delle interviste si era sempre chiesta se quanto di quello da loro dichiarato fosse attendibile e coerente con la persona reale che davvero erano.
«E’ sempre un nostro pensiero o idea, ma capita che dobbiamo fare passare un messaggio specifico, aumentare o mettere a tacere un gossip e alzare gli ascolti, quindi siamo portati a dire quello che ci viene detto» il vero problema delle interviste non era come lo esponevi o la quantità di aneddoti che avresti raccontato, ma a chi si diceva.
Nel mondo dello spettacolo, Wyatt aveva compreso in fretta, che le cose andavano così.
Se l’intervistatore in questione era intenzionato a calunniarti o rendere losco un tuo incontro alla luce del sole, avrebbe fatto passare delle parole innocenti in sgarbatezze e l’ausilio di un abbraccio consolatorio in un tradimento.
«E tu quante volte hai seguito questo opinabile copione?» gli chiese quindi lei guardinga.
«Per fortuna sono una testa di» disse lui, sollevando e abbassando le sopracciglia come se alludesse a qualcosa di magneticamente irresistibile.
Diana sollevò il suo di sopracciglio sinistro, continuando con un cadenzato «C – A – Z – Z – O?» Wyatt le sorrise malizioso. Poi si alzò flemmatico dalla sedia, pronto a imboccare la strada precedente e farsi arrecare i bagagli al piano di sotto.
«Hey, aspetta! Io non ho ancora finito il mio tè» gli berciò dietro, indicandogli la tazza fumante in questione.
Per poco non imprecò in inglese. Il fatto che non le facesse mai finire una colazione, pranzo o cena da cinque stelle, la innervosiva a tal punto da fargli cominciare a ideare la tortura di una sarabanda di strumenti musicali nella sua camera, che si sarebbero attivati solo al calar della notte fino all’alba del giorno dopo.
«Okay! Ti aspetto fuori» le concesse, mostrandogli un sorriso soffice tra le labbra distese.
Diana sapeva che “fuori” voleva dire “fumare”.
Aprì bocca per ricordargli il suo voto fatto di fronte a un cielo stellato senza fine - e se si voleva essere taccagni - anche al sommo creatore, ma poi decise di mettersi a tacere da sola.
Ora come adesso ne aveva bisogno quasi più di un tossico della sua dose giornaliera.
Doveva affrontare un mostro dalla natura sinistra e per sopraffarlo, avrebbe dovuto essere ancor più inumano di lui.
Mostrarsi inflessibile. Spietato. Un concentrato di insensibilità privo di compassione.
O un muro indistruttibile che respingeva ogni materiale adoperato per sbaragliarlo.
Diana portò alla bocca l'ultima goccia di tè, sorridendo deliziata.
Per questa volta passava.

 


NOTE AUTRICE: mA rieccomi dopo tipo anni? No anni no, ma mesi mesi mesi e mesi, forse un anno o più è passato, ma alla fine che importa? L'importante è che torno sempre no? beh eccovi un bellissimo, litigiosissimo e simpaticissimo capitolo di "Xavier!". I due compagni di viaggio hanno avuto un dissapore che però è stato facilmente chiarito. Voi che ne pensate? Aveva ragione Diana o Wyatt? Entrambi? 
 Dell'ami - cameriere psicologo che ne pensate? Vi ha trasmesso le stesse sensazioni che ha trasmesso a Diana? 
Che altro dire? Che sono super felice di essere tornata ad aggiornare? 
E niente spero che il capitolo sia di vostro gradimento e che anche il mio ritorno vi fa piacere. 
Ringrazio in anticipo chi leggerà solamente, chi recensirà o mi aggiungerà ai favoriti, seguiti ecc...
Alla prossima. Non posso promettere che i miei aggiornamenti saranno costanti, ma ce la metterò tutta per aggiornare, massimo una volta ogni due o una settimana e va bene. 

 

   
 
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