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Autore: _Lightning_    22/04/2024    2 recensioni
Napoli, 1934.
Il commissario Ricciardi è alle prese con un delitto come tanti, almeno per lui che è abituato a vedere i fantasmi delle vittime con i propri occhi. Una rapina finita male, con dei dettagli che, però, non tornano. Non tornano né a lui né al dottor Bruno Modo, collega medico legale e amico in pubblico, ma segretamente unito a lui da sentimenti più profondi, in un'epoca in cui a dare troppo nell'occhio si rischia la vita.
Ricciardi, però, quasi si dimentica del tutto del caso e dei pericoli che corre quando alla sua porta, nel cuore della notte, bussa un evento inspiegabile. Uno di quelli di cui non può parlare a nessuno, nemmeno a Bruno, pena l'essere preso per folle, e che lo fa sentire sempre più lontano dalla vita e sempre più vicino alle schiere di fantasmi che la attorniano.
Cosa si nasconde nel sottosuolo di Napoli?
[Leggibile come originale // Giallo // Ricciardi/Modo // S2 Alternativa]
Genere: Mistero, Noir, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Otherverse, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'In quel di Napoli'
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XV. Gli incubi (erano solo segreti non detti) - Parte 2

          I CIMITERI gli sono sempre piaciuti.

Benché, per qualcuno perseguitato notte e dì dai morti, possa sembrare un qualcosa di illogico, essi sono gli unici luoghi in cui può essere quasi certo di non incontrare alcun fantasma. Lì vi giacciono solo i corpi materiali in eterna pace e, se anche molti di loro avranno lasciato dietro di sé l’eco lugubre del loro dolore, essa non risuona tra le cripte e le lapidi mute.

Fortino, il suo paese natale, non è poi così movimentato ed era stato raramente scosso da fatti di sangue; però, vi aleggiavano comunque una decina di spettri. Morti accidentali, alcuni, un suicida e un paio di omicidi, uno dei quali talmente remoto da lasciare dietro di sé solo un’impronta appena visibile.

Quando era stato abbastanza grande da capire che quelle figure evanescenti poteva udirle e vederle solo lui, aveva preso a rifugiarsi regolarmente nel piccolo cimitero di Fortino, dove regnava per lui il più assoluto silenzio.

Ancor oggi gli capitava, di tanto in tanto, di avvertire l’impulso di tornare laggiù, tra le lapidi ricoperte d’edera e rampicanti e il gorgoglio del vicino ruscello a riempire la quiete, rifuggendo la caotica mescolanza di vita e morte di una città in continuo fermento.

Questo, almeno, era ciò che si aspettava di trovare nei cimiteri consueti.

Il Cimitero delle Fontanelle, però, è tutto meno che consueto; se ne rende conto dall’istante in cui arrivano al suo ingresso monumentale. Nel fianco della collina Materdei, proprio accanto alla Chiesa di Maria Santissima del Carmine, si apre quello che dovrebbe essere il camposanto: una bocca nera spalanca le proprie fauci nella parete di tufo grezzo, aprendosi in una gola ampia, trapezoidale, di cui da fuori non si scorge il soffitto né il fondo.

Ricciardi si arresta di fianco a Maione sulla pavimentazione sconnessa di Via Fontanelle, fissando quel monito affatto invitante. Il vento di scirocco gli tira le falde del soprabito, incanalandosi verso la caverna dinanzi a loro, quasi invitandoli ad affrettare il passo.

«Sarebbe questo, il nostro "cimitero"?»

Maione annuisce in silenzio, il volto contratto da una smorfia indecifrabile. È impossibile dire se sia impensierito, intimorito o irato, alla prospettiva di dover entrare là dentro. Ricciardi lo conosce abbastanza per capire che la sua inquietudine non ha nulla a che vedere col moto di compassione che l’ha scosso poco fa al pensiero di Annina. Non ha mai ritenuto Maione superstizioso, ma è chiaro che quel luogo non gli instilli alcuna serenità.

«Voi siete proprio sicuro, che ’sto Munaciello si nasconde qua dentro?»

Ricciardi lo osserva per qualche secondo, registrandone l’agitazione crescente, prima di rispondere pacato, ma con una stilla di durezza:

«Maio’, io non sapevo nemmeno esistesse, questo cimitero, fino a un paio di giorni fa; ma quello scugnizzo l’ha menzionato, ed è l’unica pista concreta che abbiamo, a meno di voler battere uno a uno ogni cunicolo sotterraneo a Napoli.» Maione, a quelle parole, si ricompone un poco, passandosi però una mano sul collo tarchiato, come ad asciugare del sudore invisibile. «Se c’è qualcos’altro che dovrei sapere in merito, vorrei saperlo adesso.»

«Penso che qualunque spiegazione avrà più senso entrando, commissario. Vi basti sapere che avrebbe una bella faccia tosta, a volersi rintanare qua dentro.»

E, detto ciò, senza nemmeno aspettare una sua replica, si toglie il berretto e si avvia già lungo il breve viottolo sterrato che si dirama dalla strada lastricata. Ricciardi scaccia la brutta sensazione che gli si è posata addosso per un istante e lo segue dappresso.

Superata la soglia d’ombra dell’ingresso, la temperatura si fa appena più mite, rispetto all’esterno ventoso. Non vi sono fonti di luce diretta, se non una quantità di ceri e candele e, lontano davanti a sé, su quella che sembra la parete di fondo dell’ampio ambiente, un fascio di luce soffusa che sembra provenire da un finestrone, a illuminare tre croci su tre piccoli cocuzzoli indistinti.

Sono entrati in una sorta di anticamera, che sembra più una cappella: nota l’ingresso verso la chiesa, che sembra parte integrante di quel luogo. Dinanzi a loro, due larghi corridoi dalle pareti levigate. Forse, un tempo, quegli spazi appartenevano a una cava di tufo; per ampiezza e maestosità, però, ricorda più la navata di una chiesa.

Vi è una sorta di verticalità sacrale, là dentro, che indirizza lo sguardo verso l’alto, verso il soffitto appena visibile, come a scorgervi un affresco o l’illusione dipinta di un cielo stellato.

Quella è un’enorme cattedrale, più che un cimitero. Anzi, una cripta gigantesca. Una catacomba, in effetti, con la quale condivide l’odore umido del tufo, coperto dalla traccia sporca di molti ceri accesi e da quella stordente dell’incenso.

È solo quando le sue pupille si abituano alla luce fioca e si appuntano sulle pareti, che trova la definizione più corretta, mentre un rivolo gelido gli si arrampica sulla schiena e gli strizza il fiato in gola.

Orbite vuote lo fissano da ogni angolo, a corredo di ghigni spenti e nasi forati; curve ossee si intersecano e accavallano, formando un macabro mosaico di forma indistinguibile lungo le pareti, un’anatomia umana che diventa tutt’uno con le viscere di quel luogo. Teschi. Migliaia e migliaia di teschi occhieggiano nella semioscurità.

Ritrova la voce dopo qualche secondo, e non suona così ferma come vorrebbe:

«È un ossario.»

«Più o meno. Qua ci stanno morti di peste.» Maione parla poco più udibile di un lieve mormorio. «Gli ecclesiastici stanno nell’altra navata e di qua,» fa un gesto alla loro destra, in un’alcova ancor più buia, ma ravvivata da uno sciame di fievoli fiammelle, «i poveracci e i disgraziati, quelli senza nessuno.»

Ricciardi fissa il buio punteggiato di quelle che appaiono come lucciole tremule e congelate a mezz’aria. Poi, rivolge di nuovo lo sguardo di fronte a sé, a scrutare quel luogo mastodontico nel suo peso di morte; eppure, così calmo. Anche quello è solo un altro cimitero, in fin dei conti, sebbene qui vi si aggiunga una tinta più cupa.

I cimiteri normali esortano al silenzio e al quieto raccoglimento. Questo, invece, sembra esigere un rispetto assoluto, incontestabile; sembra ammutolire ogni suono vi osi entrare, divorato dalle pareti vertiginosamente alte e dalle schiere ordinate di teschi, eterne sentinelle di quel luogo che, seppur dominato dalla morte, sembra rinfocolare una stilla di vita ben palpabile. Ne sono testimonianza i fiori, freschi o rinsecchiti, i rosari che adornano alcuni crani, i ceri accesi, le teche che sembrano custodire alcuni resti.

Ciononostante, appare deserto. In cuor suo, però, non saprebbe dire se il fruscio costante che ode sia solo il vento intrappolato nelle cavità tufacee della collina, o un bisbiglio umano; o, forse, spettrale. Si volta di colpo a un lieve movimento di Maione, che è semplicemente avanzato di un passo, e si attira lo sguardo interrogativo del brigadiere.

«Facciamo un giro di perlustrazione,» si schiarisce appena la voce, a mascherare il suo scatto; si sente già i nervi logorati.

«Qui ci saremmo dovuti venire con la Squadra Mobile al completo,» commenta Maione, che aveva già suggerito tale mossa mentre lasciavano la Questura.

«Lo so,» sospira piano Ricciardi, «ma non posso permettermi un buco nell’acqua, nel caso il nostro sospettato non sia qui, cosa che temo. Non so quanto spazio di manovra mi verrà ancora concesso, ma suppongo sia molto poco.»

A dire il vero, è inesistente. Può quasi sentire l’OVRA che freme nel buio assieme ai teschi, in agguato, pronta a balzare.

È stato già un rischio notevole perder tempo per rintracciare Corrado Sannio: un uomo insignificante e non particolarmente acuto che, dopo un gran infervorarsi di Maione e l’implicita minaccia d’esser messo agli arresti, aveva infine confermato di non essere stato di guardia la notte del delitto, su ordine di Gigliolo stesso. Avendone poi ritrovato il cadavere la mattina seguente, aveva ben pensato di tenere per sé quel fatto, in un notevole sfoggio d’ottusità.

Non li aiuta molto, se non a constatare che chiunque sarebbe potuto entrare o uscire da casa Gigliolo quella notte. Oltre al fatto che, con tutta evidenza, il colonnello aspettava uno o più ospiti di cui non voleva rimanesse alcun testimone. Che fossero Esposito, Annina, entrambi, o chissà chi altri, non può ancora dirlo con certezza.

«Allora, facciamo ’na cosa ’e journo,» prende l’iniziativa Maione, avviandosi verso la navata più a sinistra, che sembra anche quella più illuminata, «ché qua, meno ci restiamo, meglio è.»

«Perché è mal frequentato?» indaga Ricciardi, nervoso, sì, ma anche incuriosito dal vedere tanta inquietudine in Maione.

«Commissa’, i morti è meglio lasciarli sempre in pace,» risponde lui, adocchiando i crani che ricoprono le pareti, «ma a maggior ragione qui. Qua ci si viene solo se tenete qualcosa da chiedergli, ai morti.»

Ricciardi non può che concordare e pensa che, di cose da chiedere ai morti, ne avrebbe pure troppe, ma che quelli si ostinano a tacere e a rivolgergli parole spesso incomprensibili. Più tempo trascorre in quel luogo, meno gli piace, per quanto il silenzio assoluto sia innegabilmente gradito rispetto a una qualunque voce fantasma.

Arrivati quasi in fondo alla prima navata, quella dei Preti, si ferma suo malgrado. Sotto una cascata di luce proveniente dall’alto, da un punto imprecisato, si erge nella sua nicchia rettangolare una statua decapitata. O meglio, la testa è assente, sostituita però da un teschio adagiato sul collo mozzato. La statua indossa vestiti veri, di stoffa: riconosce  una tonaca monacale, dalla cappa nera che ricade sulle spalle. Regge in mano un ramoscello di lauro in metallo, forse peltro.

Ricciardi si trova a fissare le orbite vacue del teschio in precario equilibrio, con un picco d’interesse: si chiede se sia semplicemente l’agire di un buontempone, quello, o se debba vederci dietro una mano con più intento, dietro al decapitare la statua di un monaco per metterci su un teschio.

«San Vincenzo la testa non ce l’ha mai avuta, che io sappia,» dice a mezza voce Maione, come leggendogli nel pensiero. «La capuzzella, però... quella ce l’ha messa uno scimunito, date retta a me.»

«Magari proprio il nostro Munaciello.» Ricciardi accenna alla veste monacale del santo. Poi continua, tenendo però lo sguardo fisso sulla statua: «Come mai conosci così bene questo luogo? Se non sono indiscreto,» aggiunge, registrando il piccolo fremito di Maione.

«Ci sono venuto un po’ di volte, poco dopo che abbiamo perso Luca,» dice in un mormorio, rigirandosi in mano il berretto con occhi bassi. «Maria, la piccirilla, s’era presa la febbre alta. Due figli, in così poco tempo...» sbuffa piano, a rendere di nuovo salda la voce. «Io non sono superstizioso, commissa’, ma certe volte crederesti pure al niente, se può servire. Se venire qui a chiedere la grazia è servito o meno, io non lo so, però so che Maria è ancora con noi, e tanto mi basta.»

Ricciardi accoglie in silenzio quella confessione, senza aggiungere nulla di più. Ricorda bene il modo in cui lui stesso, affatto credente né religioso, avesse provato l’istinto di pregare qualcosa o qualcuno, quando Rosa si era ammalata, o quando Bruno oscillava tra la vita e la morte dopo il pestaggio. Non è un qualcosa di spiegabile, quell’impulso che fa affiorare alle labbra richieste rivolte al nulla; eppure, è così puramente umano da poterlo capire senza sforzo.

Si limita a riscuotere Maione con un tocco gentile del gomito, facendogli cenno di proseguire verso il fondo della navata, dove si ergono le tre croci. I tre cocuzzoli, ora che sono più vicini, diventano riconoscibili come cumuli di teschi.

Non sa dire, in cuor suo, se quel posto lo affascini, oltre che inquietarlo. Vi è un che di disturbante, nel vedere i resti mortali di migliaia di morti concentrati in tanto poco spazio; e, allo stesso tempo, trova consolatorio il fatto che qualcuno si sia premurato di donar loro un luogo di riposo tutto sommato dignitoso.

Ciò non serve a mettere a tacere le voci dei fantasmi che quei corpi si sono lasciati dietro, certo; ma quello è un luogo vetusto, e immagina che la maggior parte degli spettri sia già scomparsa, sbiadita dal tempo e dal flusso dei vivi.

Non sa cosa succeda, quando un fantasma rimane invendicato e perde infine la sua labile presa sul mondo mortale. Forse, gli viene da pensare, si rifugia in luoghi come questo, dove il confine tra aldilà e aldiquà è terribilmente sottile.

Si rimprovera per quei pensieri, che somigliano più a sciocche superstizioni e peccano d’ogni logica. D’altronde, è da una vita intera che scandaglia se stesso alla ricerca di una spiegazione logica che sembra non esistere. Forse, prima o poi, non gli rimarrà che appellarsi a quelle credenze antiche e del tutto irrazionali che ha sempre rifiutato.

Si chiede cosa ne penserebbe Bruno, di tutto questo. Se magari non possa offrire una prospettiva del tutto nuova sulla questione. Il pensiero lo sorprende nella sua spontaneità.

Ciononostante, la consapevolezza del domani (che è già oggi) ormai alle porte, gli intreccia lo stomaco in nodi di ansia e trepidazione, a formare un unico groviglio di quello che riesce solo a descrivere, in modo incoerente, come sollievo anticipato rispetto a un qualcosa che gli provoca terrore inesprimibile. Non vede l’ora di parlargli e, al tempo stesso, vorrebbe non farlo mai.

Si affretta a raggiungere Maione, che ha guadagnato terreno, per poi svoltare con lui nella seconda navata, quella degli Appestati. Vi è un lieve slargo dove, incastonata sopra un altare, in un’alcova ricavata in un tempietto con timpano triangolare, c’è una statua del Sacro Cuore di Gesù. Non è quella ad attrarre la sua attenzione, però, quanto le pareti del tempietto, che, delineate da una cornice di teschi, sembrano innaturalmente bitorzolute.

A un’occhiata più attenta, capisce che sono ossa, tutte accatastate con ordine e metodo le une sulle altre, a formare una parete a sbalzi irregolari di tibie e femori. Sono state lucidate: nella luce fievole che filtra fin laggiù, sembrano rilucere nel buio.

Sta per riprendere il cammino, sui passi di un sempre più nevrotico Maione, quando un sibilo improvviso fa voltare lui e il brigadiere come un sol uomo.

Lumicini e sottili raggi di luce dall’alto ricambiano il loro sguardo. Il fatto che anche Maione si sia girato gli fa credere che non sia uno dei suoi fantasmi, almeno, ma il cuore gli rimane appigliato in gola. Prima che possa dire qualunque cosa, però, il suono si ripete, più forte e stavolta ben udibile:

«Psst! Commissa’!»

Ricciardi abbassa di un poco lo sguardo e, dietro la parete dell’ossoteca illuminata, oltre una fila di teschi sogghignanti, vede sbucare la tesa di una coppola. A seguirla, uno spicchio di viso infantile sporco di fuliggine e uno sgranar d’occhi marroni.

«Commissa’!» Cristiano sporge appena il braccio a incitarlo con impazienza. «Che state a fare lì impalato come un baccalà? Scetateve e venite ’a cà, ché almeno c’è luce!»


 


Note dell’Autrice
Cari Lettori,
oggi vi prendo un po in giro con un capitolo prettamente introspettivo, ma mi serviva "la rincorsa" prima di fiondarmi sui prossimi che, sì, saranno abbastanza concitati.
E volevo sfruttare al massimo lambientazione del Cimitero delle Fontanelle, che ovviamente si è tramutato in un parco giochi introspettivo per il povero Ricciardi.
Premetto che non lho mai visitato (è chiuso da qualche anno), quindi ho ricostruito come potevo tramite foto e descrizioni: se lo conoscete e notate inesattezze, sentitevi liberi di segnalarlo! Tutta la faccenda delle grazie, e delle capuzzelle verrà spiegata nel prossimo capitolo ;)
Grazie per aver letto fin qui e grazie a tutti coloro che continuano a seguire e commentare la storia ♥
A lunedì,

-Light-

   
 
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