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Autore: French_girl88    22/04/2024    0 recensioni
Risvegliarsi in un deserto, senza memoria di sé e del mondo: questo è solo l'inizio del viaggio di Nemo che, a discapito del suo nome, scoprirà di essere molto più di quello che crede. In un mondo diviso e devastato dalle guerre che l'Impero di Urbia porta avanti da decenni, Nemo incontrerà volti vecchi e nuovi che lo aiuteranno a ricordare qual è il suo ruolo e il suo obiettivo. La verità, però, non sarà sempre piacevole e Nemo dovrà fare i conti con il suo passato e con delle scelte che metteranno alla prova la sua speciale natura di leader.
Genere: Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Camminai per giorni, avevo visto il sole sorgere e illuminare l’immensa distesa dorata che mi circondava tre volte quando, finalmente, mi imbattei nel primo cartello stradale. Il legno era spugnoso, usurato, e le lettere incise riportavano un nome di origine latina, Ianus est. Conoscevo il latino, evidentemente, ma non avevo idea di dove lo avessi imparato. Nel sentiero che conduceva alla strada maestra, scorsi numerosi cippi miliari con iscrizioni e fregi erosi dal tempo. Contenevano per lo più formule sacre che benedicevano il cammino dei viandanti. Sapevo cosa fossero perché le avevo già viste in passato…
Il territorio era arido, la vegetazione per lo più caratterizzata da arbusti rinsecchiti ed erbacce semigrasse. Inoltre, si era rivelato anche piuttosto instabile a causa dei venti che soffiavano tanto violentemente da cambiare la sua conformazione geografica. Le montagne erano lontane e a malapena visibili nella coltre polverosa degli altipiani che si estendevano per centinaia di chilometri.
A un certo punto, intravidi un piccolo villaggio fortificato dove sperai di trovare riparo. Ero stordito, affamato e terribilmente assetato. Ovunque mi voltassi non vedevo che lande desertiche e, ad eccezione della fonte sotterranea dove mi ero risvegliato, non avevo trovato nessun altra risorsa idrica. Continuavo a chiedermi come ci fossi finito in quella grotta, ma non riuscivo a ricordare niente. Non sapevo neppure come avrei dovuto presentarmi – qualora mi fossi finalmente imbattuto in qualcuno. Osservai le mie mani riconoscendovi una pelle chiara e liscia sotto alla quale sentivo i tendini robusti ed elastici. Non avevo idea di quale fosse il mio volto. L’unico che continuava a balenarmi nella testa era quello – ancora confuso - della donna del sogno…
Alla Porta della cittadella non trovai nessuno di guardia, i bastioni erano aperti. Il silenzio era surreale. Attraversai la strada principale in compagnia di enormi boli di sterpi che rotolavano sospinti dal vento. Le porte e le finestre cigolavano, il sordo tintinnio di un campanello echeggiava in lontananza. Era una città fantasma. Mi diressi verso gli uffici della città, deciso a scoprire qualcosa di più di quel posto. Mi avvicinai a un registro, forse di una deputazione, e presi a sfogliarlo. C’erano diverse lettere e dispacci, molti dei quali riportavano la data del centodecimo anno imperii. A quando risaliva? La maggior parte riferiva notizie relative a una carestia che avrebbe decimato la popolazione del villaggio.
Alle spalle dell’edificio si ergeva una piccola chiesa circondata da un peristilio. La brezza prese a soffiare più forte tra le colonne e chiusi gli occhi per ascoltare il suo alitare. Mi parve di sentire risuonare ancora quella musica, come se fosse orchestrata dal vento. Un calpestio di passi, però, mi riscosse e mi nascosi dietro a una colonna di pietra. Tornare a sentire suoni umani mi aveva riportato alla realtà, una realtà di cui non ricordavo nulla. L’istinto mi suggeriva di essere prudente e mi appiattii alla parete mentre cercavo di captare la direzione dell’intruso. Deglutii mentre riflettevo sulla possibilità di essermi imprudentemente introdotto in quel villaggio desolato e probabile covo di sciacalli. Non avevo neppure un’arma con cui difendermi, d’altro canto non sapevo neppure se fossi in grado maneggiarne una.
I pensieri si affollavano farraginosi quando, improvvisamente, qualcosa saettò vicino alla mia testa. Ansimai, in preda al panico, mentre mi voltavo a controllare che cosa mi avesse appena sfiorato. L’asta di una freccia oscillava vicino al mio orecchio e gli occhi si sgranarono sulla punta di metallo conficcata nella colonna di gesso. Mi stavano attaccando. Mi misi carponi e strisciai lontano dalla traiettoria del nemico cercando di soffocare i gemiti. Un’altra freccia si piantò sulla colonna che mi precedeva e capii di essere in trappola, il mio aggressore non era solo. Cominciai a considerare l’idea di uscire allo scoperto con un urlo e di darmela a gambe approfittando dell’effetto sorpresa. La prospettiva più probabile era, però, che mi riducessero a un colabrodo. Sollevai le mani in segno di resa, non potevo fare altro. I nemici si fecero avanti nell’aranciato bagliore del tramonto.
«Chi sei?» disse uno in tono tutt’altro che amichevole.
Aprii cautamente gli occhi e li vidi. Uno, due e tre, erano in tre. Erano tutti armati di arco e frecce, ma potevo distinguere anche dei coltelli di varia forma e dimensione sulla cintura. Due erano giovani, uno sui vent’anni, l’altro doveva averne meno, il terzo invece era maturo e la chioma scura rivelava i primi segni della mezza età. Le espressioni erano parimenti minacciose, indossavano abiti sporchi di fango e sudore.
«Mors o Veritas[1]?» minacciò quello più giovane vibrando un coltello.
Scossi ripetutamente la testa mentre sentivo i battiti del cuore martellare nel petto: «No, no, vi prego. Veritas, veritas» bofonchiai goffamente. Mi sentivo incredibilmente ridicolo ma l’unico sentimento che riconoscevo da quando mi ero svegliato era la paura.
«Parla, maledizione!» intervenne il ragazzo più grande facendo un passo avanti. Quello maturo si limitava a fissarmi in silenzio.
«Sono un pellegrino, ho raggiunto questo villaggio per cercare ospitalità. Lo giuro».
A quelle parole i tre aggressori mostrarono un’espressione incerta, scambiandosi sguardi carichi di scetticismo. Per un lunghissimo minuto non parlarono e il mio cuore fu quasi sul punto di esplodere.
«Da dove vieni?»
Una domanda semplice, diretta, cui seguiva una risposta spontanea, repentina. A meno che non si nascondeva un segreto. Ma come potevo spiegare a quei tre guerrieri che non ricordavo niente della mia vita? Per quanto ne sapessi potevo essere un esiliato, un latitante, un debitore in fuga…
«Vigliacco! Sei un Vigilante, vero?» riprese il ragazzo più giovane pungendomi sul torace con la punta del coltello. Le sue parole mi apparvero tanto incomprensibili quanto bizzarre. E la mia espressione interrogativa non doveva essergli sfuggita poiché allentò la pressione delle minacce rilassandosi leggermente.
«Se non sei un Vigilante e neppure un ribelle, allora chi sei?» riprese più pacato il ragazzo.
«Io… io non lo so. Ve lo giuro, mi sono svegliato ieri con un tremendo vuoto di memoria. Non ricordo nemmeno il mio nome» rivelai in fretta ed esausto.
Quelli ripresero a lanciarsi occhiate, sempre più disorientati. L’uomo brizzolato imbracciò l’arco e ripose la freccia nella faretra. Infine tese una mano senza abbandonare l’espressione arcigna: «Beh, allora dovrai venire con noi, Signor Nessuno» ironizzò.
 
 
La morsa intorno ai polsi mi riportò alla realtà scuotendomi sul pavimento in preda alle vertigini. Presi ad ansimare, il sudore mi incollava i capelli sulla fronte e i gemiti asfissiavano le corde vocali. La claustrofobia mi strozzò come se mi avesse avviluppato intorno al collo una corda e, ormai al limite, cacciai un urlo tanto acuto che attirò qualcuno nella stanza buia. Sulla soglia comparvero le sagome di due uomini appena distinguibili dalla fiamma della torcia che reggevano.
«Vi prego, lasciatemi andare! Lasciatemi andare!» ripetevo tra un gemito e l’altro.
«Sembra che la prigione sia un’esperienza alquanto sconvolgente per te, eh?» osservò quello che si era avvicinato.
L’altro sbuffò: «Sarà un’esperienza “pregressa”» e mi mollò un calcio sullo stinco. «Non è così?»
Sussultai di fronte a quell’inaspettata violenza e mi rannicchiai contro la parete: «Perché mi tenete qui legato? Io non ho fatto niente» reagii debolmente.
«Questo lo vedremo» conclusero uscendo.
L’oscurità tornò ad avvolgermi pesantemente e la testa, sgombra di remoti ricordi, si affollò di funesti pensieri. Dove mi trovavo la civiltà aveva lasciato il posto alla brutalità, e mentre mi tormentavo tra quelle riflessioni la porta si riaprì. La torcia rivelò un volto per la prima volta familiare: era quello dell’uomo che mi aveva trascinato in prigione.
«Su, vieni con me, Signor Nessuno».
Fui letteralmente sguinzagliato fino a un robusto palo di legno, posto al centro di una piazzetta sabbiosa, cui mi vennero legate le mani rivolgendo le spalle nude all’esiguo gruppo di persone raccolte. Era sera, l’area era perfettamente rischiarata dalle torce che la delimitavano. Le gambe tremavano in maniera incontrollabile e la posa curva non mi permetteva di avere il pieno controllo dei miei movimenti. Finalmente il mio aguzzino iniziò a parlare, rivolto ai compagni.
«Guardate queste spalle: pallide, lisce, senza un graffio, né una cicatrice. Nessuna traccia di una battaglia».
L’esigua folla prese a mormorare animosamente e il mio cuore si fece pesante.
«Chi, nelle nostre terre, potrebbe sfoggiare un corpo tanto sano, più puro di quello di un neonato?»
La folla rispose prontamente: «Nessuno! Nessuno!» ripeteva incattivita.
«Chi, nel nostro mondo, potrebbe sentirsi tanto al sicuro da non aver mai dovuto combattere e guastare la purezza del proprio corpo?»
Alla seconda domanda retorica la gente parve compiere un sospiro prima di rispondere, e quando reagì fu più feroce che mai: «Cives! Cives
Sentivo che quel comizio si sarebbe ben presto concluso in una esecuzione abbastanza cruenta da insaporire lo spettacolo.
«Dunque, a chi potrebbe mai appartenere questo corpo incontaminato dai conflitti del nostro tempo se non a un nemico?»
Le voci del pubblico inferocito iniziarono a intonare la parola “morte” accompagnandosi con un pugno rivolto al cielo albeggiante. Ero troppo stanco e avvilito per poter reagire e decisi di prepararmi a subire il mio destino. L’aguzzino tornò a parlare dopo aver azzittito il pubblico con un gesto risoluto: «Prima di punirlo è lecito permettergli di pronunciare le sue ultime parole» e si avvicinò afferrandomi brutalmente i capelli fradici che ricadevano sulle spalle. «Le tue ultime parole, Signor Nessuno?»
Lo guardai attraverso gli occhi gonfi per il pianto e cercai di muovere le mani, paralizzate dalla stretta delle corde. Infine rivolsi la mia attenzione alle sfumature rosa e azzurre dell’alba su cui immaginai di vedere l’incedere di una donna nei suoi veli svolazzanti al ritmo di quella canzone.
«…Vendetta» dissi, non mi venne in mente nient’altro.
D’altronde si trattava dell’unica parola che mi accompagnava fin dal risveglio.
Il pubblico dapprima rumoreggiante, lentamente si acquietò soffocando gemiti di incredulità. Lo stesso aguzzino mi puntò uno sguardo incredulo, rafforzando la stretta sui miei capelli.
«Che cosa hai detto?»
«Vendettavendetta» ripetei dolorante ma improvvisamente lucido. Stranamente quella parola sembrava provocare sul mio nemico lo stesso effetto che provavo anch’io, allora tornai a ripeterla di nuovo, più deciso: «Vendetta. Vendetta
A quel punto la folla riprese a rumoreggiare unendosi a me in quel suono, che profumava di proibito ma che concedeva una piacevole sensazione di frenesia. Il clima era cambiato e, di nuovo, la paura aveva lasciato il posto al coraggio. Non ero più la vittima di quello spettacolo, invece mi sentivo come l’eroe di una storia che non avevo mai conosciuto.
 
[1] “Morte o Verità” in latino.
   
 
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