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Autore: Macy McKee    22/04/2024    0 recensioni
[The Locked Tomb]
Raccolta di AU vari su TLT.
[Capitolo I - A flaw in my code: Zombie!AU e character study, a.k.a. Camilla e Palamedes si ritrovano in un'apocalisse zombie "tradizionale" e non possono accettare di perdere l'un l'altra.]
*
“Avrei voluto proteggerti più a lungo” disse lei, altrettanto perentoria, e qualcosa di acido e caldo corse su per la gola di Palamedes. Vomitò sulle piastrelle, lasciando una chiazza in mezzo alla polvere e ai detriti. Cadde sulle ginocchia per lo sforzo, senza lasciare andare il polso di Camilla.
“Nei soggetti contagiati, l’infezione si propaga in un periodo che va fra le ventiquattro e quarantotto ore.”
Camilla gli lanciò un’occhiata sorpresa. “Anatomia del contagio, volume 1, capitolo 3. L’hai scritto tu, Guardiano.”
Genere: Angst, Drammatico, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Prompt: song-fic per una zombie!au dove A è statx morsx ma per qualche motivo non si è ancora trasformatx e lxi e B vivono in angoscia per paura che prima o poi succeda (bonus se A chiede a B di ucciderlx, ma B si rifiuta e xlx impedisce di spararsi) + La canzone Control di Halsey
Note sull'AU: in un universo ideale, avrei il tempo di scrivere 12 capitoli per questa storia e approfondire l'AU come merita. Nella realtà, nemmeno se mi licenziassi avrei il tempo per farlo.
Sostanzialmente, siamo sul pianeta Terra, nessuno ha la necromanzia, e gli zombie che li inseguono sono zombie nel senso tradizionale del termine. Palamedes è Guardiano di un rifugio anti-zombie (la Biblioteca, appunto.). Ho provato a concepire un universo in cui Camilla non lo chiama Guardiano, ma non ce l'ho fatta. 
Ci ho infilato qualche citazione loro dai libri, perché siamo onesti: sono troppo tristi per non includerle. Questi nerd tragici consumano la mia anima. 

 

A flaw in my code

 
Il mondo stavo crollando oltre le finestre rotte, oltre le schegge di vetro acuminate che svettavano contro il cielo nero.
Sotto di loro, a livello della strada, il gorgoglio disumano delle creature rimbombava fra i palazzi, come il macabro canto di una sirena. I colpi contro la porta barricata – ancora per quanto? -, un ritmo spezzato e lugubre, che assorbivano il ticchettio della pioggia sopra un mondo in frantumi.
Fino a un istante prima, i libri che Palamedes stringeva faticosamente fra le mani erano stati la cosa più importante della sua vita.
Ora, nemmeno il mondo che collassava attorno a loro era importante quanto le dita di Camilla strette attorno alla pistola, il suo sorriso sofferente e rassegnato mentre premeva la canna dell’arma contro la propria fronte. Gocce di sudore si affollavano dove il metallo toccava la sua pelle, gocce di sangue cadevano dal suo braccio lacerato – con sguardo medico, Palamedes aveva colto il luccichio biancastro dell’omero fra i brandelli di carne. Tic, tic, tic, sulle piastrelle luride.
Niente era più importante o più spaventoso dello sguardo risoluto di Camilla, che lo stava fissando e stava parlando, ma lui non la sentiva sotto il ruggire del proprio cuore.
“Cam. No. No, no” riuscì a dire, la voce spezzata dal terrore, supplicando.
“Sono stata troppo lenta”, disse lei, quasi come se si stesse scusando. La Creatura che aveva abbattuto con uno sparo preciso si contorceva ancora nell’angolo, la testa ancora attaccata al collo per pochi centimetri di pelle e la carne del braccio di Camilla fra i denti.
Li separavano tre passi (e un milione di anni luce).
Camilla indietreggiò quando lui la raggiunse e le strinse le dita attorno al polso, quello sano, che reggeva la pistola (così lugubre e grigia in contrasto con la sua pelle, come se qualcuno avesse distorto il colore dei suoi occhi e ci avesse dipinto la canna rozza), ma non cercò di liberarsi dalla sua presa.
Sapevano entrambi che le sarebbe bastato un movimento per costringerlo a lasciarla andare, impotente.
“Non posso lasciarti andare”, disse lui, come se stesse declamando un fatto. Come se stesse leggendo una formula matematica da uno dei suoi volumi spessi. “Ho bisogno di te.”
“Avrei voluto proteggerti più a lungo” disse lei, altrettanto perentoria, e qualcosa di acido e caldo corse su per la gola di Palamedes. Vomitò sulle piastrelle, lasciando una chiazza in mezzo alla polvere e ai detriti. Cadde sulle ginocchia per lo sforzo, senza lasciare andare il polso di Camilla.
“Nei soggetti contagiati, l’infezione si propaga in un periodo che va fra le ventiquattro e quarantotto ore.”
Camilla gli lanciò un’occhiata sorpresa. “Anatomia del contagio, volume 1, capitolo 3. L’hai scritto tu, Guardiano.”
Palamedes annuì, cercando di impedire al suo stomaco di ribellarsi di nuovo e al suo cervello, così iperattivo, di immaginare cosa sarebbe successo se Camilla avesse premuto il grilletto. Il suo corpo che cadeva a terra, i suoi occhi grigi sbarrati, le sue labbra congelate in qualche espressione eroica, per il resto dell’eternità. No, assolutamente no, non finché lui fosse stato in vita. Aveva visto troppo cadaveri nei suoi vent’anni di esistenza, e quello di Camilla non era nel suo futuro. Non l’avrebbe permesso.
“Significa che ho ventiquattro ore.”
“Guardiano, ti seguirò fino al mio ultimo respiro, ma non ti metterò in pericolo. “Tutti i soggetti analizzati perdono il senno dopo la diffusione dell’infezione. Fra i sintomi: violenza, psicosi, forza sovraumana. Il contagio si trasmette tramite il sangue e la saliva. Non sono stati registrati sopravvissuti al contagio.” Volume 1, capitolo 4.”
“Cam, ho scritto una novella, uno spettacolo teatrale e un paper sulle infezioni polmonati in meno di ventiquattro ore. Ventiquattro ore sono più che sufficienti per cambiare il mondo.”

*

Ventiquattro ore, di fatto, non erano neanche lontanamente sufficiente per riprendersi dallo spavento. La pistola di Camilla era ora riposta nella fondina al suo fianco, e la ragazza stava spingendo un tavolo contro la porta, usando il braccio ancora funzionante. Avevano bendato il braccio sinistro: il risultato era eccellente, ma il braccio restava inutilizzabile. La Creatura le aveva lacerato i muscoli e tagliato di netto i nervi.
Palamedes stava scarabocchiando furiosamente sui margini di uno dei libri che avevano recuperato. Uno dei libri che sarebbero costati la vita di Camilla, se lui non avesse fatto qualcosa. Perché era sua, la colpa, ovviamente. Aveva insistito lui per andare al laboratorio, nonostante non fossero ancora tornati i soldati che avrebbero dovuto scortarli. Era stati lui a insistere che Dulcinea non aveva tempo, che non poteva aspettare. Aveva bisogno di quei libri, di quelle formule, per salvarla. Se la sarebbero cavata.
Non se l’erano cavata. Palamedes aveva paura di alzare lo sguardo dai propri calcoli, di sentire il respiro affannato di Camilla. Camilla non era mai sopraffatta, non ansimava mai.
“Guardiano.” Il rimprovero di Camilla lo fece sussultare. Fermò la propria mano a mezz’aria, intrecciata fra i suoi capelli così forte che alcune ciocche si erano spezzate. “è quasi ora”, disse Camilla, guardando l’orologio, come se stesse avvisando che l’arrosto era pronto e non comunicando la sua morte imminente.
“No.”
“Ventitré ore e undici minuti. Non abbiamo più tempo.”
Palamedes scosse la testa. Chiuse il libro e lo spinse lontano da sé, come se fosse stato esso la causa delle loro sventure.
“Non ho intenzione di lasciarti andare, Cam.”
Camilla alzò il mento. Palamedes la raggiunse a passi incerti, come se, una volta che l’avesse toccata, Camilla si fosse potuta dissolvere. Le prese la mano lentamente. “Siamo in questa merda insieme. Fino alla fine.”
“Appena l’infezione avrà fatto effetto, perderò il controllo. Ti farò del male.”
Palamedes scosse di nuovo la testa, freneticamente. “Ti legheremo.”
“Lasciami morire con il mio senno.”
“Mi dispiace, Cam, ma non posso permetterlo. Devi acconsentire a farmi studiare l’infezione. Ti riporterò indietro. Troverò una cura.”
“è così che funziona l’amore, Guardiano? Non sono libera di morire in piedi?”
“Amore e libertà non coesistono. Vieni, questo tubo sembra resistente. Aggancia lì le manette.”
Camilla scosse la testa, obbedendo.
“Sarò la tua fine.”

*

Il ticchettio dell’orologio rimbombava nel suo orecchio, come se le lancette si stessero prendendo gioco di lui per aver voluto un dannato orologio analogico, alla stregua di un reperto storico (Camilla l’aveva avvisato che era una cattiva idea.) Le sue dita erano tinte di rosso cremisi che virava verso il nero, dove il sangue di Camilla si stava asciugando.
Erano passate ventisei ore e dodici minuti e il suo cuore continuava a battere con violenza sulla sua cassa toracica, mentre Palamedes apriva delicatamente la fasciatura sul braccio di Camilla.
Il suo sguardo correva metodicamente fra la ferita e il suo volto, contando meccanicamente i suoi respiri.
Camilla aveva perso conoscenza ventisei minuti prima, e Palamedes aveva pensato che il suo cuore avrebbe improvvisamente ceduto.
Non poteva permetterselo.
Era corso al suo fianco, il viso sudato e le scarpe incrostate di vomito, e aveva cominciato a lavorare sulla ferita. Aveva collezionato, con precisione, sei campioni di tessuto - e aveva ringraziato Dio che Camilla avesse sempre con sé la borsa medica, piena di provette e tamponi. L'avrebbe baciata per questo (l'avrebbe baciata e basta, in un’altra vita, se il mondo un giorno non avesse deciso di impazzire attorno a loro. Avrebbe baciato Camilla e avrebbe baciato Dulcinea, in un universo un po’ più clemente, e Dulcinea non sarebbe stata in fin di vita, malata terminale durante l’apocalisse).
L’universo non era né clemente né giusto, e Palamedes dovette accontentarsi di ringraziare che, con Camilla priva di sensi, poteva lavorare sulla ferita. Fino a che lei era stata cosciente, aveva lottato con tutte le sue forze per impedirgli di avvicinarsi.
“No”, gorgoglio Camilla, cercando di ritrarre il braccio. Le sue ciglia erano scure nel buio, mentre sbattevano per rimettere il mondo a fuoco.
“Mio Dio, Cam, non sono mai stato così spaventato in tutta la mia vita.”
“Allontanati.” La sua voce era roca per il dolore, e il cuore di Palamedes picchiava così forte da fargli male.
Lui scosse la testa. “Dobbiamo tornare alla Biblioteca. Devo portare i campioni in laboratorio.”
Una risata bassa e senza traccia di gioia. “Non posso accompagnarti, Guardiano. Mi sparerebbero a vista, come dovresti fare tu.”
“Allora non possiamo più tornare a casa.”
“Guardiano.”
“No, Cam. Non ha senso tornare a casa senza di te. Sei tu la parte che la rende casa. Se non puoi tornare a casa, allora nemmeno io posso. Lasceremo i libri per Dulcinea dove Gideon può trovarli durante le sue ricognizioni. Lasceremo una parte dei campioni.”
Camilla scosse la testa. “L’infezione…”
“Troverò una cura.”
“Mi trasformerò e ti ucciderò. Non posso permetterlo.”
“Ti terrò d’occhio. Fino ad allora, mi aiuterai a trovare una cura.”

*

Palamedes continuava a scivolare dentro e fuori dal sonno. Era difficile capire cosa fosse reale e cosa non lo fosse. Di alcune cose era ovviamente certo: il respiro di Camilla dall’altra parte della stanza, incatenata a un tubo. I suoi grugniti di dolore, quando pensava che lui non la sentisse. Le Creature – Palamedes si rifiutava di chiamarli Zombie, perché non era scientificamente corretto – che ringhiavano oltre la porta sbarrata. Di altre cose era meno certo: il volto di Camilla insanguinato, gli occhi bianchi dall’infezione, versi disumani che fiorivano dalle sue labbra perfette. La pistola sulla sua fronte. Palamedes si svegliava di scatto quando gli incubi prendevano il sopravvento. Si portava la mano alla bocca per non urlare. Controllava, cercando di non farsi vedere, che Camilla fosse ancora umana.
E cercava di non immaginare cos’avrebbe fatto nel momento in cui non lo fosse stata.
*
Erano passate trentadue ore e Palamedes iniziava ad avere fame. Era abbastanza convinto che anche Camilla l’avesse, anche se si rifiutava di ammetterlo.
Con pazienza, era riuscito a convincerlo a dividere le razioni di carne secca con lui, permettendogli persino di avvicinarsi abbastanza da controllare la ferita.
E lui si era quasi ingozzato con la carne secca, quando si era reso conto che la ferita sembrava essere… migliorata?

*

Erano passate quarantatré ore e Camilla aveva cercato di convincerlo dodici volte a lasciarla lì.
Palamedes stava sudando sui fogli pieni di calcoli. Avrebbe dato il braccio sinistro per avere un laboratorio in cui analizzare i campioni.
Avevano discusso di come far arrivare i libri alla Biblioteca, di come intercettare Gideon. Sapevano dove la ragazza si procurava le riviste zozze di contrabbando quando andava in ricognizione: poteva essere un buon punto di partenza.
Il problema era che Camilla si rifiutava di lasciarlo andare da solo, così come si rifiutava di farsi liberare per accompagnarlo.
Erano giunti a un’impasse, e il tempo stava finendo.

*

Erano passate cinquantadue ore e Camilla era ancora umana. Palamedes non chiudeva occhio da oltre venti ore. La paura gli faceva tremare le mani, ma i suoi occhi brillavano di quella luce che Camilla conosceva come sé stessa: la sete di conoscenza, il brivido del mistero.
perché non si era ancora trasformata?
Non c’erano precedenti.
Occasionalmente, Palamedes la guardava e alla sua visuale si sovrapponeva l’immagine del volto di Camilla sfigurato, il foro di una pallottola sulla sua fronte, mentre immaginava cosa sarebbe successo se non fosse riuscito a convincerla a non premere il grilletto. Non poteva sopportarlo.

*

Le notti erano fredde e gli incubi gelidi.
Alla fine, Camilla aveva accettato che lui le si avvicinasse.
“Cosa pensi succeda quando ci si trasforma?”
Camilla aveva sgranato gli occhi, sorpresa, come per dirgli “abbiamo scritto insieme quel rapporto.”
“Non intendo dal punto di vista fisico. Cosa pensi succeda alle nostre coscienze?”
“Credo che si spengano, Guardiano.”
“E le nostre anime?”
Camilla si era stretta nelle spalle.
“La mia teoria è che nascano delle allucinazioni. Una sorta di stato a metà fra il coma e il sogno.”
“Questo spiegherebbe alcune cose.”
Palamedes aveva inarcato un sopracciglio. “Ad esempio?”
“Sono ventidue ore che sento la voce di Dulcinea.”
 Il cuore di Palamedes era affondato nel suo petto.

*

Erano passati dodici giorni e otto ore.
Il mondo crollava sopra di loro. Si erano rifugiati in un complesso di laboratori sotterraneo, che avevano scoperto quasi per caso.
Camilla aveva accettato di essere liberata per accompagnarlo solo perché Palamedes stava iniziando a presentare chiari sintomi di inedia, per quanto cercasse di nasconderlo.
Passavano le notti nel terrore. Camilla si faceva ammanettare ogni notte, ma aveva iniziato a permettergli di stringerla fra le sue braccia.
“Mi domando, Guardiano.”
“Cosa?”
“Mi accorgerò di essermi trasformata?”
“Non abbiamo raccolto abbastanza prove. Non è proprio facile intervistarli.”
“Intendo dire: e se questa fosse un’allucinazione?”
“Questo spiegherebbe diverse cose.”
“Ad esempio?”
“Sto sentendo anch'io la voce di Dulcinea da tre giorni.”

*

Dulcinea passò una mano sui volti immobili e sfigurati di Camilla e Palamedes. Erano freddi. Gli occhi bianchi per l’infezione, le ferite purulente sui loro corpi in mezzo alle macerie.
Dulcinea sospirò, e sembrò che l’universo stesso avesse sospirato, di infinita tristezza.
“Pensi che possano sentirmi, Pro?” chiese, alzando lo sguardo su Protesilaus. L’uomo annuì, posandole una mano sulla spalla.
“Penso di sì. Spero di sì.”

   
 
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