Anime & Manga > Il grande sogno di Maya
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Autore: LubaLuft    24/04/2024    1 recensioni
Questa storia originale si incrocia con il primo volume del manga Glass No Kamen, da noi conosciuto come Il Grande Sogno di Maya.
I protagonisti sono inventati da me ma le loro vicende sfioreranno quelle del manga, appena appena, per avere un contesto.
Grazie a chi leggerà!
Dal testo:
"In quel micromondo aperto H24 - nel quale il giorno e la notte non avevano una reale consistenza ontologica se non per via di un orologio appeso al muro - una giovane voce maschile annunciava i numeri estratti al bingo, traducendo in fonemi i capricci della fortuna: ichi … gojūroku … hachi … sanjūyon …
Nanako ascoltava quella voce durante la sua pausa-cena, che durava circa mezz'ora (...) Era cominciata così ed era più forte di lei: quando sentiva quella voce, veniva colta da una sensazione di straniamento: i numeri in sé erano un fatto neutro, una successione anarchica di cifre, significavano solo il proprio valore. Non comunicavano nulla. E allora perché quel desiderio di ascoltarlo tutte le volte?"
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Masumi Hayami, Maya Kitajima, Nuovo Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 1 - Chiamami con il “mio” nome

 

“Un tramezzino e un succo d’ananas, grazie."

Nanako prese il suo vassoio e si avviò al solito tavolino del Million Dollar Club. Erano le venti, e il locale era semivuoto quella sera, forse a causa dell'ennesimo temporale che sembrava in procinto di annaffiare Yokohama. Sembrava fosse davvero ricominciata la stagione delle piogge, con un clima innaturalmente caldo nonostante fossero ormai arrivati i primi giorni di dicembre.

Il Million consisteva in un bingo con annessa una grande sala slot, un biliardo e un bistrot interno. Aveva un’insegna enorme, che rappresentava una fonte dalla quale scaturiva oro. La fonte erano le fauci del drago Ryūjin, che brillava illuminando con prepotenza tutta la strada.

Accanto al locale, che si trovava in una zona non lontana dal porto, proprio alle spalle del quartiere cinese, c’erano una fila di piccoli negozi, un love hotel piuttosto trafficato e dal nome evocativo Blue Lagoon, un salone di bellezza che era convenzionato con l’hotel, un ufficio postale, la stazione ferroviaria della JR. C’era poi un piccolo konbini, proprio all'interno della stazione, nel quale Nanako lavorava part time tre volte a settimana: il sabato e la domenica sera, e un altro giorno a scelta, in base alla sua disponibilità.

Nanako frequentava lingue all’università e aveva una stanza in un dormitorio femminile poco lontano dalla sua facoltà. I giorni in cui aveva il turno al negozio aveva dovuto ottenere un permesso speciale "lavorativo" per rientrare dopo la mezzanotte, e la direttrice aveva voluto una copia del suo contratto: il colloquio in direzione era stato piuttosto comico, la direttrice aveva spalancato gli occhi e fatto alcuni rilievi quando aveva realizzato il negozio si trovava all’interno di una stazione ferroviaria e per di più in una zona piena di “luoghi di divertimento di bassa lega”.

Ma Nanako aveva tenuto un profilo basso, non aveva commentato e aveva invece ringraziato con profonda deferenza: a gennaio si sarebbe finalmente presa una stanza in affitto, almeno non avrebbe avuto più orari da rispettare.

Si guardò intorno.

Il Million era di solito un locale abbastanza affollato, e piantato al centro di un quartiere altrettanto affollato, eppure a Nanako trasmetteva sempre la stessa ovattata sensazione di tranquillità: la moquette colorata, le pareti rivestite di una pesante carta da parati color crema, le poltrone rosse imbottite della sala bar, così comode che avrebbe potuto anche dormirci sopra: tutto incredibilmente silenzioso e tranquillo, nonostante i colori chiassosi dei lampadari e le luci intermittenti delle slot machines.

Al confronto, la vicina stazione ferroviaria, con l’atrio che rimbombava di passi e di voci e il caos dei pendolari, aveva invece un qualcosa di infernale. 

Quella sera di pioggia in particolare, il bistrot e l’area slot del locale erano quasi deserti. Nanako solitamente consumava il suo spuntino a un tavolino che confinava con la sala bingo. Anche lì dentro, solitamente c'era più gente.

Secondo Watanabe, il buttafuori - che, per inciso, non aveva mai dovuto buttare fuori nessuno: lì dentro era raro che qualcuno esagerasse con il bere o alzasse troppo la voce - c'era silenzio perché chi andava lì a giocare lo faceva per sfidare da solo la sorte, vincere o perdere, non per fraternizzare con gli altri. Le rare eccezioni all’interno di quel panorama di giocatori solitari erano le coppie di coniugi anziani, per le quali il bingo costituiva un passatempo come qualsiasi altro - una telenovela, il bridge, la ginnastica dolce - oppure le comitive di ragazzi che arrivavano a frotte per bere e mangiare a poco prezzo e che giocavano un paio di mani per il solo gusto di farlo e andare poi a divertirsi altrove. Erano soggetti fuori posto, semplicemente, e come tali ospitati come alieni in pacifica esplorazione.

Il vero giocatore se ne stava invece seduto al suo tavolo, tranquillo, come se si trovasse nel soggiorno della propria casa, a un passo dalla camera da letto. Intorno, pareti invisibili lo separavano dagli altri giocatori, pareti di vetro in uno strano condominio.

Dal suo punto di osservazione, il solito tavolino defilato, Nanako poteva vedere i giocatori del bingo seduti quasi immobili a controllare le loro cartelle: certe volte le sembrava di guardare gli studenti ai tavoli della biblioteca della sua facoltà, ciascuno assorbito dal proprio libro.

In effetti, Watanabe non aveva tutti i torti

In quel micromondo aperto H24 -  nel quale il giorno e la notte non avevano una reale consistenza ontologica se non per via di un orologio appeso al muro - una giovane voce maschile annunciava i numeri estratti al bingo, traducendo in fonemi i capricci della fortuna. 

ichi … gojūroku … hachi … sanjūyon … 

Nanako ascoltava quella voce durante la sua pausa-cena, che durava circa mezz'ora. A quell'ora, c'era sempre lui, una voce senza volto. La ascoltava solo il sabato e la domenica.

La voce era giovane e calda, bassa e carezzevole, non era impaziente, ansiogena, affrettata. Rassicurava i presenti del fatto che dopo ogni numero ne sarebbe arrivato un altro e che tutti i numeri per lei erano importanti allo stesso modo.

Manteneva un ritmo costante, rilassante e aveva la capacità di rilassare anche Nanako durante quella breve pausa.

Terminato il suo spuntino, Nanako usciva poi dal locale, attraversava nuovamente la strada e tornava al lavoro, nel konbini. Il negozio vendeva anche sigarette, giornali e dopo le ventuno, alla chiusura della biglietteria della stazione, anche i titoli di viaggio.

Lavorava fino alle undici, in tempo per prendere il treno di mezzanotte. 

Se era fortunata, nel dopocena riusciva anche a studiare: dopo una certa ora, da quelle parti capitava solo qualcuno che cercava un giornale da leggere in treno, tabacco, gomme da masticare o assurdi gadget di plastica da portare ai propri bambini al rientro da una lunga giornata di lavoro.

Quando lei andava via a mezzanotte, restavano operative solo le casse automatiche, preferite da chi andava di fretta o non voleva interagire con nessuno. Tutto funzionava a basso regime, fino al mattino dopo, quando chi era di turno si riaffacciava alle sei.

Diverse volte Nanako si era chiesta che tipo fosse l’uomo che "dava i numeri" e perché la sua voce la attirasse così tanto. 

Il tutto era iniziato una sera come tante. Lei stava cenando al suo tavolino quando una voce morbida e allo stesso tempo virile l'aveva chiamata con il suo nome, dall'altoparlante: 

Nana

Lei aveva sollevato il viso di scatto, poi aveva sentito un numero e subito dopo un altro ancora. Si era messa a ridere da sola quando aveva realizzato che "Nana" stava a indicare il numero 7 e non il diminutivo del suo nome. Ormai però aveva fatto caso a quelle vibrazioni sonore e aveva teso l'orecchio per ascoltarne altre. Le piacevano.

Era cominciata così ed era più forte di lei: quando sentiva quella voce, veniva colta da una sensazione di straniamento: i numeri in sé erano un fatto neutro, una successione anarchica di cifre, significavano solo il proprio valore. Non comunicavano nulla. E allora perché quel desiderio di ascoltarlo tutte le volte?

Una sera aveva preso una cartella, per divertimento, e si era concentrata al punto tale che quella mano di bingo le era sembrata ospitare solo lei e lui. Le luci della sala, da squillanti che erano, avevano subìto un calo repentino nella sua percezione, e le cameriere che portavano da bere sembravano più lente, tutto era finito in secondo piano.

Per qualche arcana combinazione dettata dal caso, quella sera lui aveva recitato in sequenza la sua data di nascita.

Nanako non aveva vinto nulla ma aveva conservato la cartella come segnalibro, evidenziando il suo giorno, il mese e l’anno.

Giustificava quella piccola follia come un passatempo, un momento rituale per staccare con il cervello, una stranezza come ce n'erano tante in giro. E sotto sotto ne era anche divertita.

Fortunatamente, aveva amiche abbastanza strane con le quali condividere le sue piccole follie:
 

Sachiko: “Scusa, Nanako, sei cliente abituale, perché non chiedi - che ne so, al buttafuori -  come si chiama quel tipo?”

Nanako: “E dopo che gliel’ho chiesto?”

Sachiko: “Ti fai dare il suo numero di telefono. Anzi, te lo fai dire da lui in persona.”

Nanako: “E se poi non mi piace il suo aspetto fisico?”

Akhira: “Ma potrebbe essere comunque già brutto di suo e restare tale per sempre anche se non lo vedrai mai di persona. Che cosa ti cambia? Una scommessa ogni tanto ci può stare.”

Nanako: “Voi non capite …”

Sachiko: “Idea! Potreste incontrarvi al buio! … conosco un  un locale dove si sta con le luci spente, certo devi tenere presente che potresti trovarti davanti un dio come un mostro, ma se il punto fondamentale è la voce…”

Akhira: “È un’idea fantastica! E dopo che ci avrai scambiato due chiacchiere, continuate al buio a casa tua, ti fai recitare tutto il tabellone del bingo mentre ti spoglia e poi vedrai le stelle.”

Sachiko: “Il tabellone è composto da 90 numeri. Al ritmo di un numero al secondo parliamo di una durata di un minuto e mezzo. Akhira, sei proprio certa che in un minuto e mezzo…?”…”

Nanako: “Basta, smettetela!”

Akhira: “Beh, può andare avanti finché vuole.”

 

Sachiko a quel punto aveva assunto un’espressione meditabonda
 

Akhira: “Stai calcolando la durata ottimale di un amplesso espressa in secondi?…”

Sachiko: “Sotto i venticinque minuti, mai. E non parlo di preliminari, dico proprio dal momento in cui lui ti …”

Nanako (ridendo): “BASTA!”

Sachiko: “Ah, e ovviamente deve essere fantasioso in fatto di posizioni, e poi …”

Akhira: “E poi, a proposito del buttafuori … bel tipo, vero?... si chiama Watanabe, giusto… ?”

Sachiko: “Mmm…sì!! Chissà lui fino a quanto sa contare …”

  

Ne avevano riso abbondantemente e lei aveva lasciato cadere l’argomento “voce misteriosa”, non ci pensava neppure a risalire al suo aspetto fisico, doveva rimanere l’uomo del mistero. 

Terminata la sua pausa, Nanako tornò al negozio. Le ore fino a fine turno trascorsero lente e lei poté riguardare i suoi appunti di letteratura inglese. 

A mezzanotte, non pioveva più.

Ricominciò a piovere il giorno successivo, verso l’ora di pranzo.

Con estremo disappunto, e proprio quando era sulla porta di casa, Nanako si accorse di aver lasciato il suo ombrello al negozio.

Evidentemente, la sera prima era uscita sovrappensiero e, complice la fine della pioggia, non si era ricordata di prenderlo. 

Era un ombrello buffo, tascabile, di un rosa acceso quasi fluorescente, decorato a motivi di fragole. Anche il pomello era una fragola. Più adatto a una bambina che a una studentessa universitaria.

Stette a rimuginarci cinque minuti, cercandone un altro nell'armadio ma non trovò nulla. Se ne fece una ragione, indossò l’impermeabile e poi uscì. 

Si fece coraggio e provò a camminare lungo i cornicioni, fortunatamente la strada da percorrere a piedi fino alla stazione non era lunghissima e una volta in treno sarebbe stata all’asciutto.

Quando, arrivò nell'atrio della stazione e al negozio, guardò subito in direzione dei due portaombrelli posizionati accanto all'ingresso: uno, a destra, era quello che utilizzavano lei,  i colleghi e i clienti, l’altro a sinistra era invece quello che conteneva gli ombrelli dimenticati o abbandonati in stazione. Su quest’ultimo era attaccato un cartello che recitava “OMBRELLO DI TUTTI! - si prega di riportarlo qui dopo averlo utilizzato”

I contenitori erano entrambi vuoti: il suo ombrello non c’era in nessuno dei due.

Non le era mai successo di non ritrovarlo lì: aveva un colore e una decorazione talmente improbabili ed eccentrici che nessuno avrebbe potuto prenderlo per sbaglio o scambiarlo per qualche altro ombrello. 

Dubitava addirittura che ce ne fosse uno uguale al suo!

Inoltre, per chi ne avesse avuto bisogno, lì al negozio c’era sempre, appunto, un ombrello di tutti da prendere in prestito per le urgenze e da riportare il giorno dopo: ormai quegli ombrelli senza padrone erano diventati una specie di istituzione ed avevano salvato le acconciature e le giacche di cashmere di chissà quanta gente…

Nanako sentì piombarle addosso un fitto cattivo umore, fitto come la pioggia che continuava a cadere.

Perché proprio il suo ombrello doveva sparire 

Passò il pomeriggio a controllare ossessivamente chiunque entrasse in negozio. Qualcuno, molto diligentemente, riportava l’ombrello che aveva preso in prestito, qualcun altro lo riprendeva per ripararsi.

Del suo ombrellino kitsch, neppure l’ombra.

Alle venti, staccò per la sua consueta pausa e uscì per andarsi a prendere un’insalata al bistrot del Million. Cadeva solo qualche goccia, per fortuna.
 

All’ingresso del locale, vide il suo ombrello, diligentemente piegato e messo a sgocciolare appeso a un ombrello più grande, in modo che non venisse fagocitato dalla scatola che lo conteneva assieme agli altri.

Il rosa shocking misto a fragole spiccava fra le stoffe grigie, a quadri, a righe degli altri parapioggia. Si intonava benissimo ai colori della moquette e delle luci.

Sembrava dire Ehi, sono qua!

Nanako ebbe come prima reazione quella di riprenderselo, poi però si fermò. Fuori continuava a piovere a dirotto, se se lo fosse portato via, chi lo aveva usato per arrivare fino a lì sarebbe rimasto senza e si sarebbe fatto un bagno. Prevalse in lei l’idea che chiunque fosse stato a prenderlo fosse anche in buona fede e avesse commesso un semplice errore. 

Strappò allora un foglietto di carta da un taccuino che portava sempre con sé e lasciò un messaggio.

Ha preso per errore il mio ombrello. Può riportarlo per favore al konbini della stazione JR? Grazie

Si fermò a mangiare l’insalata al solito tavolino.

La voce misteriosa annunciava i numeri così come venivano scelti dalla sorte, eppure detti da lui sembravano quasi selezionati in un ordine necessario. La sua voce li rendeva necessari. 

Il suo nome purtroppo non uscì.

Rientrò al konbini dopo una corsetta, le gocce si infittivano Alle undici non si vedeva ancora nessuno, e non c’era nessun “ombrello di tutti” da poter prendere per ripararsi.

Chiuse il negozio che ancora pioveva e quando uscì dalla stazione nei pressi di casa sua, ormai scrosciava.

Maledisse la pioggia e la sua generosità.

 

(Continua…)

 
   
 
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