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Autore: Frank Miller    19/05/2024    0 recensioni
Dopo la prima guerra mondiale, un fante torna a casa da sua moglie, anni vissuti con la paura addosso di morire o peggio essere mutilato. Ma lui ha con sé un portafortuna, un foglietto con qualcosa scritto dalla sua amata, un portafortuna potentissimo, che lui non ha mai letto.
ora è a casa, ma...
Genere: Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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THE WAR IS OVER
 
 
Mi abbandonai al lento dondolio delle rotaie, accomodandomi sulla panca di terza classe insieme a quella moltitudine di passeggeri vocianti che farcivano il vagone. Quella che un tempo era una tradotta militare ora aveva ripreso le sembianze stupende di un treno civile, con i vecchi, le donne, i bambini, le galline e fiaschi di vino che passavano di mano in mano e festosi, facevano dimenticare il recente passato.
La guerra era finita a novembre, ma mi avevano smobilitato che era febbraio, tre mesi dopo l’ultimo colpo sparato.
E sì, perché prima che i comandi ci avvertissero dell’armistizio, noi tiravamo addosso a loro e quei poveri cristi, sparavano a noi, in quella che era una mortale normalità.
Tre anni in un inferno senza paragoni, trentasei mesi immersi in un calderone fatto di paura e morte e solo chi aveva messo un piede in trincea, poteva sapere cosa volesse dire non contare nulla sulla faccia della terra, solo coloro che avevano respirato quell’aria maledetta, potevano conoscere il valore di una boccata di ossigeno pulito.
Chiusi gli occhi appoggiando la testa sul legno del vagone e cercai di dormire, ero felice, stavo tornando a casa sano e salvo.
Una fortuna sfacciata la mia, rispetto a tanti che erano crepati in quel merdaio o peggio, quelli mutilati e sfigurati dalla forza dell’acciaio.
Li avevo visti in ospedale, tronchi umani senza più un arto buono per piazzarsi una palla in fronte, altri con il volto devastato dalle schegge impossibilitati al ritorno a casa, per non spaventare la propria madre.
A me era andata bene, ero stato colpito due volte e ambedue non gravemente.
La prima, un pezzo di ferro mi aveva rotto l’elmetto e aperto un taglio profondo appena sopra l’attaccatura dei capelli, nulla che con dei punti e una fasciatura stretta non potesse farmi restare in linea, mentre la seconda un po' più grave.
Durante un assalto un proiettile mi trapassò una coscia, ma senza toccare l’osso o
un’arteria e grazie a questo, riuscii a tornare a casa e dopo più di un anno, riabbracciare mia moglie.
Il piccolo appartamento era lindo come sempre e lei… sempre più bella.
Al contrario, invece, qualcosa aveva mutato i miei lineamenti, perché quando mi vide alla porta, sgranò gli occhi e le lacrime le irrigarono la faccia.
Ero dimagrito, con barba e capelli lunghi, non avevo avuto neanche il tempo di spidocchiarmi, appena ricevuta la licenza ero schizzato sul treno.
Così potei costatare che una volta a casa, ero poco più di un peloso fantasma, mi aggiravo per le stanze cercando di riappropriarmi degli spazi che prima del ’16 erano stati miei. Camminavo in tondo sotto lo sguardo silenzioso della consorte.
Mia moglie Lara era una donna di poche parole e io ne ero felice. Ci eravamo sposati e per dieci anni, contenti del nostro modo di fare, ci capivamo solo con gli sguardi.
Giornate intere in assoluto silenzio, persi nei nostri pensieri, pronti a metterci in moto grazie a un’occhiata.
In quella breve licenza, Lara mi sfamò, lavò e rammendò la mia biancheria e quando fu l’ora di tornare al fronte mi diede un biglietto.
“Leggilo quando sarai lassù, ti prego.”.
Anche con la posta eravamo sempre molto parchi, nessuno dei due amava troppo scrivere quei lunghissimi papiri con cui i miei commilitoni, imbastivano la tela del ritorno, io e Lara ci limitavamo a quattro parole con cui sincerarsi della buona salute.
Tornato in trincea non ebbi il tempo di leggere ciò che mi aveva scritto, tempo dieci minuti e l’artiglieria austro ungarica ci scaricò addosso tutto il piombo in loro possesso. Ci bersagliarono per ore demolendo, centimetro per centimetro, le nostre postazioni.
Un obice cadde così vicino che mi scaraventò tre o quattro metri indietro, seppellendomi in una buca.
Fu la mia fortuna, i proiettili successivi, annientarono il mio settore.
Una settimana dopo assaltammo di nuovo e quando giunsi a pochi metri dal filo spinato nemico, la loro mitragliatrice s’inceppò, dandomi il tempo di distruggere la postazione.
“Sicuramente hai un santo in paradiso oppure un portafortuna potente.”.
Cantagallo mi fece notare la cosa ma io, non gli diedi troppo peso.
Non possedevo santini, medagliette miracolose o corni rossi da strofinare come il caporale Ruoppolo. Io non avevo nulla.
“Magari tua moglie ti ha messo San Zopito in tasca e lui ti protegge?”.
“Zopito?”.
“Sì, San Zopito nu sant’ d’Abbruzz…”.
Mollai il camerata e pensai a cosa potesse proteggermi dalla furia della battaglia e mi venne in mente.
“Il bigliettino.”.
Toccai la tasca interna della giubba e sentii i contorni del foglietto piegato, lo tirai fuori e feci per aprirlo, poi, mi fermai.
“Se la fortuna dipendesse da lui, allor dovrei lasciarlo così com’è… in fondo cosa potrà aver scritto mai Lara? Cerca di non strafare… cerca di stare bene… come nelle quattro lettere che mi ha mandato.”.
Così lo rimisi in tasca.
Per chi sa quanto è sottile il filo che lo lega alla vita terrena, un santo, la fede in Dio o un porta fortuna, sono la base per un ritorno a casa e così fu per me. Fino all’armistizio, il 4 novembre del 1918 continuai a guerreggiare incurante del finimondo che avevo attorno.
Poco dopo la disfatta di Caporetto ci attestammo sul Grappa non mollando un solo centimetro e né il freddo, né le bombarde nemiche mi fecero un baffo.
Mentre la gangrena mordeva i piedi congelati di molti soldati o le schegge e le pallottole li decimava, a me non accadeva nulla, anzi, mi sentivo sempre più rinvigorito, più gagliardo.
Quando gli austriaci si ammassarono giù a valle dalle parti di Alano, fui mandato in ricognizione con altri tre. Camminammo di buona lena finché non vedemmo le loro avanguardie. Potevamo sentire il profumo del tabacco delle loro pipe, tanto eravamo vicini, restammo acquattati nella boscaglia, attendendo il momento buono per tornare indietro. Ma si sa, il Fato si faceva beffe di noi mortali e incurante delle preghiere rivolte a Dio, ci scagliò contro quei quindici uomini.
Lottammo senza pietà fin quando lo scontro non presentò il conto, e fummo noi a pagarlo.
I miei compagni dilaniati dallo scoppio di una bomba a mano e io, stordito dal botto, caddi in una buca coperta da sterpaglie, nascosto agli occhi nemici.
A tarda notte riuscii a tornare nella nostra trincea e raccontare quello che era accaduto.
Da quel momento altri fatti d’arme mi videro salvare il culo dalle grinfie della morte e tutto questo grazie al foglietto che mi aveva dato mia moglie.
Il treno frenò bruscamente strappandomi dal sonno, ero giunto a casa.
Nei mesi successivi alla fine della guerra avevo scritto a Lara che sarei tornato, ma come da prassi, non mi aveva risposto. Era normale, perché sprecare carta quando da lì a poco ci saremmo potuti riabbracciare?
Non avevo neanche aperto il biglietto, tanto ero abituato a toccare quel piccolo involucro nella giacca. Lo avrei fatto una volta a casa, con lei accanto.
La stazione non era cambiata di un solo granello di polvere, il vecchio capostazione col cappello bordato di rosso che pareva un generale, i vecchi nell’osteria di fianco e lo stradone coi tigli che mi avrebbe accompagnato fino in via della Marina, dove c’era il mio appartamento.
Le persone avevano ripreso il normale ritmo della vita, concentrandosi su ciò che avevano davanti, mentre il numero di vedove e madri in lutto era paurosamente aumentato.
Gruppi di meste donne camminavano col capo abbassato, lanciandomi sguardi dolorosi quando passavo loro accanto. Io ero tornato.
“Sono stato fortunato… non posso che lodare il Signore e il mio porta fortuna.”.
Pensai imboccando la via di casa e quando giunsi davanti al portone bussai, aspettando che mia moglie mi aprisse.
“Ah, sei tu!”.
“Buongiorno signora Panelli, sono tornato…”.
“Lo vedo, ma cosa ci fai qui?”.
Mollai lo zaino a terra e sorrisi.
“Come cosa ci faccio… ci abito.”.
L’anziana portiera mi guardò scuotendo il capo, poi mi accarezzò il volto.
“Non più…”.
“Come non più… Lara!”. Gridai.
“Tua moglie se n’è andata più di un anno e mezzo fa, non te lo ha detto?”.
“Come se n’è andata, e dove?”.
La donna fece spallucce e mi guardò trista.
“Ma non ha lasciato che so… un indirizzo, un foglio con un recapito…”.
“No, mi spiace.”.
La guardai sparire dietro la porticina della portineria e mi appoggiai al muro,
poi portai la mano alla tasca e presi il foglietto che mi aveva protetto in battaglia.
“Forse c’ha scritto l’indirizzo ed è lì ad aspettare.”.
Lo aprii con estrema delicatezza cercando di non strapparlo, dopo tutto quel tempo chiuso su sé stesso, la carta era più delicata.
Riconobbi la calligrafia minuta di mia moglie ed ebbi un tuffo al cuore.
“Quando lo leggerai sarai lontano, come io non sarò più qui ad aspettarti. Mi sono innamorata di un altro uomo, un chiacchierone che con i suoi racconti, mi ha fatto conoscere una terra lontana come l’America, perciò ti lascio. Abbi cura di te, spero tu sopravviva a tutto questo. Lara.”.
Lo ripiegai nuovamente ma lo lasciai cadere a terra.
La guerra era finita.
 
 
 
 
 
   
 
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