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Autore: Querthe    14/06/2024    0 recensioni
Fracterra, 2215 PDE (Post Deore Epifaneus). In un pianeta Terra distrutto e riforgiato, la giovane cadetto Seerah è addestrata per difendere l'impero dell’Unicratum.
Tutto va bene nel Sacrario 77, ma qualcosa di imprevisto uccide i suoi compagni, le strappa la sua vita e il suo braccio sinistro, fa svanire apparentemente nel nulla il suo amore.
Risvegliatasi su un carro guidato da due umani che vivono nelle terre dei Mutati e decisa a ritrovare la sua amata, sarà costretta a mettere in discussione tutto ciò che ha studiato, aiutata da strani amici e da pericolosi mentori. Imparerà che l’Unicratum non è quello che sembra e che i mostri non sono quelli sui libri.
Il suo viaggio la porterà in giro per l’Unicratum, dai mercati di Murdomaes alle Colline di Ferro, dalle pericolose caverne sotto le Vette delle Sentinelle fino all’imponente Palazzo Sidereo che domina sulla capitale Neuspes.
Ma lì, quando sarà il momento di decidere tra due vie completamente opposte, cosa sarà la sua scelta?
Il romanzo è pubblicato su Amazon (cartaceo, E-book, Unlimited) e Kobo (e-book). Posterò i primi 5 capitoli di 25 per poter permettere di capire se vi può interessare comprarlo.
Genere: Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi, Yuri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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L’enorme e pesante portone si chiuse lentamente alle sue spalle. Fuori la giornata era calda, quasi soffocante, in quell’estate che aveva visto Seerah compiere da alcuni mesi sei anni.
«Non ti preoccupare, ci vorrà un po’ di tempo per abituarti alla nuova situazione, ma i tuoi genitori hanno fatto la scelta migliore per te e per loro.» disse la Mater, prendendo la mano della piccola bimba, dai lunghi capelli arruffati e neri, incapace di capire totalmente ciò che stava succedendo.
Seerah sapeva di aver fatto con i suoi genitori un lungo viaggio, sapeva che erano stati lontani da casa varie notti, anche se non si ricordava esattamente quante. Sapeva di essersi svegliata quando il carro era già partito dalla locanda o dalla casa abbandonata in cui si erano fermati quando calava la notte; sapeva che più si avvicinavano a quella strana, antica e maestosa quanto terribile, spaventosa costruzione, più sua madre sembrava incupirsi, gli occhi rossi come se avesse pianto o volesse farlo.
Suo padre era un contadino, per lei era strano pensare che avesse deciso di allontanarsi così tanto dai suoi campi per qualcosa che lei non capiva. La bimba stringeva forte la sua bambola di pezza, una piccola figura dagli occhi a bottone azzurri, una bocca sorridente di lana e un vestitino a quadri fatto da un pezzo di tovaglia stracciato. Era uno dei pochi giocattoli che aveva, il primo creato da sua madre con degli scampoli e dei materiali di recupero. Eppure, lei non si separava mai da Ladmaah, come l’aveva chiamata un giorno. E come lei stringeva la bambola, così sua madre aveva stretto lei, in lunghi abbracci, lunghi quasi quanto i suoi silenzi.
«Ti troverai bene qui. Ci sono tanti bimbi come te, alcuni anche più piccoli, altri più grandi: siamo una grande famiglia. Con le sue regole e i suoi doveri, ma sicuramente scoprirai che qui la vita è decisamente meglio rispetto a dove abitavi prima.»
«Ma quando rivedrò i miei genitori, signora?» chiese la bimba, sempre stringendo la sua bambola. I piedi erano senza scarpe, coperti solo da degli stracci marroni avvolti fino a poco oltre le caviglie come se fossero delle spesse calze. Il corpicino magro, che faceva risaltare i grandi occhi marroni, era coperto da una tunica di lino grezzo, senza orlo, senza maniche, a sfiorare le ginocchia.
«Non lo so piccola, ma sono certa che un giorno li potrai rivedere. Probabilmente quando sarete tutti in un posto migliore.»
«Migliore di questo, signora?» chiese ancora lei, speranzosa, con quel tono tipico dei bambini di quando sanno che dopo qualsiasi risposta avrebbero posto subito un’altra domanda. Stavano camminando lentamente, tenendo il passo della piccola, attraversando una dopo l’altra enormi stanze di pietra e metallo. In una di esse c’erano grandi colonne, scolpite come figure maestose e possenti di uomini e donne in armatura, a sorreggere volte a botte illuminate da grandi sfere fluttuanti nell’aria che gettavano luci azzurrine, rendendo il tutto apparentemente ancora più freddo rispetto all’afa che c’era fuori. «Qui sembra tutto così grande. Perché è tutto così grande?» chiese rabbrividendo.
La Mater sorrise prima di risponderle. Si fermò, piegando le ginocchia per poter essere quanto possibile con il volto all’altezza della bambina. Aveva occhi neri come il gaietto. «Seerah, qui scoprirai che l’uomo è molto di più di quello che si crede. Scoprirai che l’Unicratum difende tutto ciò che di buono è rimasto non solo nei suoi confini, ma in tutta Fracterra. Per farlo abbiamo bisogno di persone grandi, molto più di me o di te, e di grandi persone. Tu potresti essere una di esse, o entrambe, una grande persona grande. I tuoi genitori hanno fatto bene a seguire il consiglio dei nostri Latratoi che spargono la chiamata. Sono certa che ora stanno pensando a tutto il bene che farai nei prossimi anni. Sai che chi fa del bene all’Unicratum e segue le direttive del Deore, sicuramente avrà un posto d’onore nell’Oltrevita. Mi capisci?»
La bimba aveva già sentito alcuni dei termini che la signora vestita di blu scuro, con la testa, ma non il volto, coperta da uno strano cappello che sembrava un po’ un velo, un po’ un elmo metallico, aveva pronunciato; probabilmente aveva colto un senso generale nella frase. Non aveva davvero afferrato quello che le aveva detto, ma sapeva che gli adulti odiavano dover ripetere le cose ai bimbi; suo padre si arrabbiava molto quando doveva dirle le cose due o tre volte, soprattutto la sera quando era stanco. Quindi decise di annuire e di richiedere la cosa più avanti.
«Sì signora.»
«Brava bimba. Ora, io sono una Mater, una responsabile per voi Noveus. Sebbene sia una donna, quindi una signora, sono prima di questo una combattente e una devota all’ordine, quindi ti chiedo da adesso di rivolgerti a me come Mater Velosta.»
«Mater Velosta? È il suo nome?»
Lei annuì sorridendole. Si alzò nuovamente in piedi, la gonna, che sfiorava le caviglie, a far intravedere quelli che sembravano stivali al polpaccio in lega metallica argentea.
«Esatto, è il mio nome. Ora seguimi, andiamo a conoscere i tuoi nuovi fratellini e sorelline, e direi che necessiti anche di un bel bagno caldo e di un pasto decente.»
All’idea di cibo la piccola si leccò inconsciamente le labbra e chiuse gli occhi, pensando a un bel pezzo di pane non ammuffito con del formaggio, o meglio ancora a un po’ di marmellata tra il pane e il formaggio. Il pranzo dei giorni di festa.
 
Seerah chiuse appena gli occhi in un riflesso incondizionato mentre tentava di assorbire almeno parzialmente il calcio del robot da addestramento. Era un Gladior 6S, un modello da battaglia modificato per l’addestramento dei Legionus. Sebbene fossero almeno due anni che si sottoponeva ai quotidiani allenamenti come tutti gli altri suoi fratelli o sorelle, quell’umanoide corazzato di quasi due metri e mezzo di altezza continuava a darle del filo da torcere, comandato, come ogni altra macchina all’interno del Sacrario 77, dalla Supramater. Il visore nell’elmo della corazza in lega polimerica assaltò i suoi occhi con decine di informazioni contemporaneamente, distraendola invece che aiutarla, tanto che la giovane diciottenne non poté fare altro che cadere a terra una decina di metri lontano, spinta dal calcio. La corazza resse il colpo, ma lo spostamento e il successivo volo, con atterraggio tutt’altro che morbido sul pavimento in pietra della sala di allenamento nel Sepulcrat, si fecero sentire nonostante corpo potenziato della ragazza.
«Stasera avrò un bel po’ di dolori vari…» pensò mentre si rialzava con un colpo di reni, pronta a respingere il robot, che già si stava avvicinando a grandi passi, e contrattaccare. Come lui era disarmata, anche se i pugni chiusi del Gladior 6S valevano come magli. Di certo non poteva pensare di trapassare a mani nude i cinque millimetri di lega di Durhardium che formavano le placche del robot. Attorno a lei vi erano alcune telecamere, piccoli oggetti volanti, sostenuti da fonti di psicoetere, a riprendere ogni cosa da vari punti di vista. Trasmettevano il tutto sugli schermi posti fuori dall’arena di combattimento. Sapeva che Mater Velosta la stava osservando, così come i suoi fratelli e sorelle. «Va bene, basta perdere tempo…» mormorò, abbassandosi per schivare il colpo orizzontale che fischiò sopra il suo elmo. Scattando a velocità sovrumana grazie ai sintomuscoli ed ai riflessi potenziati, Seerah scivolò sotto le gambe aperte del bestione, mentre il visore le indicava velocemente le possibili mosse, tutte di fuga o di attacco, che però lei sapeva benissimo non sarebbero servite a molto. Doveva improvvisare, doveva capire come metterlo fuori gioco. Da quell’allenamento non si usciva con un pareggio, uno dei due doveva andare al tappeto e, normalmente, non era il Gladior 6S. Le altre volte se l’era cavata con dei lividi, con dei tagli o una volta sola una lussazione alla spalla prima che il bestione fosse fermato per evitare che le spappolasse la testa con uno dei suoi piedi. Ma Mater Velosta era stata chiara, quell’allenamento doveva diventare il prima possibile una simulazione di guerra, dove non si poteva gridare basta a un nemico. Uno dei due finiva o alla Cerusiar, o all’officina per le riparazioni.
«Exocarpax, disattivare servoassistenza visiva. Codice verifica 6LSY6I77P09J.»
Il visore lampeggiò di verde un istante, quindi spense ogni indicazione, lasciando solo i suoi parametri vitali e le indicazioni di stato dell’armatura.
«Cosa hai intenzione di fare?» gracchiarono nelle sue orecchie le scariche elettriche di un microfono, assieme alla voce della Mater. «Non sei pronta a un combattimento in naturae. Riattiva la realtà guidata standard della tuta potenziata VQ-15.»
«Mater, so per certo che quei segni in giro per il mio campo visivo non mi sono di aiuto. Mi assumo le mie responsabilità. So cosa sto facendo. Il visore simulativo no.»
«Questa è presunzione, Legionus Supranus Y6.» le disse seria la voce, mentre la ragazza si rialzava a due metri alle spalle del robot, il quale si girò per poter ricominciare l’attacco.
«Forse, ma preferisco vivere presuntuosa che morire santa.» le rispose Seerah, sorridendo. «Situazioni particolari richiedono azioni particolari.»
Avrebbe potuto giurare di aver sentito uno sbuffo di stizza da parte della Mater, eppure era anche certa del sorriso sul volto di lei, visto che aveva citato una delle frasi che la donna amava ripetere, tanto che era stata fonte di scherzi negli anni passati, quando lei e gli altri non erano che degli adolescenti alle prese con le prime operazioni per essere Legionus, con le crisi di identità e il rifiuto delle autorità tipiche della loro età. Mater Velosta, come sempre, aveva mantenuto la disciplina senza alcun atto eccessivo, né di violenza fisica né verbale, lasciando loro un po’ di gioco, ma bloccandoli appena si spingevano oltre dei limiti ben precisi e comprensibili. Era davvero una Mater, era la madre di cui ormai a malapena lei ricordava il volto o la voce e, per quanto fosse un misto indissolubile di obbedienza militare, lealtà alla sua figura di insegnante e affetto, tutti loro le volevano bene e definivano quel sentimento amore.
«Non tirare troppo la corda…» la ammonì la voce della donna. «Ma sei fortunata: hai, non so come, la benedizione della Supramater.»
L’occhio di Seerah vagò veloce sul corpo del Gladior 6S, cercando un punto debole. Doveva esserci, chiunque o qualunque cosa ne aveva almeno uno, incluso il robot, anzi, quella macchina doveva averlo sicuramente, altrimenti non si sarebbe spiegato perché l’Unicratum avesse sostituito quelle bestie di Durhardium brunito con il modello successivo, ancora usato come supporto alla fanteria pesante Vauquir e Bewolv nelle guerre sui Confini Folli. Era un blocco unico, piastre sovrapposte quasi impossibili da scalfire dagli artigli degli Skaincloss, figurarsi dalle mani di una semplice Legionus. Ogni piastra si sovrapponeva ad un’altra, ogni giunto protetto, ma dove allora… dove?
La frase della Mater le riecheggiò nella mente.
«Tirare la corda… Tirare la corda… perché mi sembra che lei mi abbia voluto aiutare?» si domandò, mentre evitava un altro colpo, questa volta diretto dall’alto verso il basso, schivandolo con una rotolata. Il droide era così veloce che a malapena notava l’istante in cui faceva partire il colpo. Solo l’istinto sviluppato negli allenamenti e i riflessi potenziati le permettevano di indovinare la direzione e reagire. Si voltò indietro, sperando di capire cosa stesse architettando la mente della Supramater. Ebbe una fugace visione di un cavo rosso che spuntò, per una frazione di secondo, sotto l’articolazione tra il busto e il braccio, praticamente sotto l’ascella destra del robot. «Non è una corda, ma credo che funzioni lo stesso. Vediamo che succede.» pensò, avvicinandosi, muovendosi veloce attorno a lui, per spingerlo a rivedere i suoi piani ogni qualvolta stesse per colpirla con qualcosa di diverso di un colpo dall’alto verso il basso.
Finalmente lo convinse a rifare il gesto, rischiando di vedersi travolgere dal colpo, troppo veloce e troppo vicino per poterlo schivare o assorbire, se il robot avesse avuto il tempo di cambiare traiettoria al braccio. Lei si gettò praticamente contro il suo avversario proprio quando il cavo rosso fu visibile, un punto scoperto dalle piastre corazzate, verosimilmente per permettere un movimento migliore dell’articolazione. Afferrò, con le dita guantate di lega polimerica, il filo e tirò con tutte le sue forze, strappandolo e provocando alcune scintille mentre lei cadeva a lato, appena dietro di lui. Il Gladior 6S finì il movimento, il pugno a schiantarsi contro la pietra intrisa di psicoetere per resistere anche a colpi del genere, quindi si voltò per colpirla nuovamente. Seerah era per terra, schiena contro il pavimento, pronta a rotolare via se necessario, ma notò subito che il braccio destro non si muoveva come prima. Sembrava non essere più sotto il controllo del sintocervello elettronico, penzolando invece inerme a fianco del torso.
Sentì delle grida di esultanza da parte dei suoi fratelli e sorelle riempire gli auricolari del casco, subito zittiti, probabilmente da uno sguardo risoluto della Mater. Aveva vinto una battaglia, ma non la guerra contro il robot. La macchina aveva ancora l’altro braccio. Sembrava lo sapesse usare bene quanto il destro e sicuramente non avrebbe rifatto lo stesso errore due volte. Doveva cambiare tattica, velocemente. Rotolò lontano per evitare il calcio del robot, quindi si rialzò e iniziò nuovamente a girargli attorno per impedirgli una qualsiasi tattica e prendere tempo. Quella maledetta tuta corazzata la stava stancando, nonostante i muscoli potenziati. Era fatta per simulare un modulo Vauquir, ottima per resistere a dei colpi, ma non era certo un modello Lamiae adatto alle azioni agili e veloci: le giunture erano protette, ma con una mobilità a volte ridotta.
«Maledizione.» pensò, il suo addestramento così radicato da non farle pensare di mormorare nemmeno l’imprecazione. Sarebbe stato un atto di debolezza e i Legionus non erano deboli. «È abbastanza furbo da non rifare lo stesso errore, sicuramente istruito dalla Supramater. Appena mi avvicino, tenta di colpirmi. A questa distanza un colpo al petto o al volto e finisco alla Cerusiar per dei mesi nonostante le sacromacchine. Eppure, non vedo altre possibilità; ma anche arrivando a strappargli l’altro cavo, ha ancora due gambe, il maledetto. Come lo abbatto definitivamente? So che i Gladior 6S hanno il sintocervello nel petto, la testa è solo la sede dei sensori, quindi sarebbe inutile aggredire quella zona, eppure devo riuscire a spegnere quella macchina in qualche modo.» Evitò l’ennesimo colpo, che fischiò troppo vicino per i suoi gusti. «Come se fosse facile. Ci vorrebbe un miracolo, ma non credo che il Deore si scomodi per me dal suo trono nel Palazzo Sidereo.»
«Cosa stai facendo? Devi o abbandonare o finirlo. Hai già dimostrato un’ottima capacità tattica e bellica, puoi ritirarti.» sentì la voce nel casco, senza alcun altro suono, quasi la Mater fosse immersa nell’assoluto silenzio. Il suo cervello immaginò la scena, i suoi compagni a vedere dagli schermi, ammutoliti e forse preoccupati. Sicuramente una lo era. Si concesse un debole sorriso per un istante.
«No Mater, è ancora operativo e pericoloso. Se me ne andassi potrebbe creare altri danni in una situazione non simulata. Il dovere dei Legionus è proteggere l’Unicratum e tutti i suoi abitanti, ce lo hai detto tante volte. Così non sarebbe onorevole. Lasciami continuare.»
«Io non sono in accordo con la decisione della Supramater. Ti concede altri due impulsi maggiori di tempo. Non farmi pentire della cosa. Se finisci alla Cerusiar, quando ne esci ti ci rimando con le mie mani.» disse dura la donna.
Seerah rise annuendo, sapendo che lei la stava vedendo e sentendo. Dal filo strappato sprizzarono alcune scintille che illuminarono per un istante la spalla destra del robot. Questo le fece venire in mente un’idea. Era rischiosa, era folle, ma avrebbe funzionato. Avrebbe dovuto. Ci sperava davvero.
«Exocarpax, espulsione modulo energetico primario. Codice verifica 6LSY6I77P09J.»
«Confermare, l’operazione porterà alla disattivazione dei servomovimenti in due impulsi dall’espulsione.» disse una voce robotica negli auricolari. Sotto quella voce sentì la Mater dirle qualcosa in modo concitato, ma fece finta di non aver sentito.
«Exocarpax, conferma espulsione modulo energetico primario. Codice verifica 6LSY6I77P09J.» ripeté mentre schivava, saltando all’indietro, l’ennesimo colpo del robot. Quello era risultato maledettamente vicino ad essere a segno.
Tutto, all’interno della sua armatura, si spense, mentre il visore diventava una semplice lastra in plasticristallo trasparente, senza alcuna indicazione, utile o meno. Le due piastre pettorali sagomate per accogliere le sue forme femminili si sollevarono con un debole sibilo e il nucleo energetico di psicoetere che alimentava l’esoscheletro venne espulso dalla sua sede, interrompendo l’alimentazione dell’armatura, oramai solo un ammasso pesante di plastica e metallo, che certo manteneva la sua capacità di assorbire i colpi, ma non offriva più l’aiuto nei movimenti che prima permetteva a Seerah di muoversi quasi come se indossasse una semplice armatura di cuoio cotto delle Lande Mutate. Tutto si fece più difficile e faticoso: il peso, comunque distribuito su tutto il corpo, non aiutava assolutamente nei movimenti. La ragazza sapeva che a quel punto era separata anche dalla Mater, solo il contatto visivo delle telecamere rimaneva, ma poteva immaginare la sua reazione: una rabbia repressa che non avrebbe di certo mostrato agli altri Legionus. Il robot funzionava, quindi c’era il nulla osta della Supramater. Rincuorata, Seerah afferrò il nucleo energetico, grande come un'albicocca e pulsante di un tenue viola.
«Sopravvivere al Gladior 6S forse non è l’opzione meno pericolosa.» mormorò tentando l’ultima, disperata, eppure calcolata mossa. Spingendo al massimo i suoi sintomuscoli e sperando di aver calcolato bene i tempi, approfittò del momento in cui il robot caricava il colpo, mostrando il petto, per saltare e sfruttare la superficie non perfettamente liscia come trampolino per un secondo salto, che la portò a un paio di metri di altezza sopra di lui. La massa dell’armatura e l’altezza fecero il resto, quando crollò sulla testa del robot come una palla da cannone vivente, raggomitolata su sé stessa, facendolo sbilanciare e cadere a terra. Il colpo aveva solo parzialmente danneggiato la sede dei sensori, ma aveva fortunatamente lesionato la giunzione cervicale abbastanza da mostrare dei cavi. Fu questione di un istante. La mano sinistra del robot si chiuse sulla vita della ragazza, iniziando a stringere, ma prima che il dolore diventasse qualcosa di più grave e permanente, Seerah infilò con forza il nucleo nel varco da cui si intravvedevano i cavi e lo colpì con forza. Il biocristallo che formava il guscio della fonte energetica si incrinò, ma non si ruppe.
La mano strinse ancora di più, facendo scricchiolare e spezzare come legno secco alcune delle piastre della sua armatura. La combattente sentì un dolore sottile e caldo al fianco sinistro. Una delle piastre rotte le era entrata all’altezza delle reni. Soppresse il dolore, lo canalizzò in adrenalina e colpì ancora il biocristallo, questa volta spaccandolo come un guscio di uovo. Lo psicoetere uscì immediatamente, una sostanza immateriale apparentemente liquida che si riversò dentro il robot, sovraccaricando ogni tipo di connessione elettrica ed elettronica.
Il robot si bloccò immediatamente, mentre l’enorme energia nel liquido violastro si scaricava nel corpo metallico, friggendogli ogni circuito incluso il sintocervello, spegnendolo in maniera definitiva.
Aveva vinto. Era riuscita senza alcuna arma a sconfiggere un Gladior 6S. Seerah sorrise. Avrebbe voluto esultare, ma il peso dell’armatura, lo sforzo e la ferita da perforazione al fianco sinistro la convinsero a rimandare a dopo i festeggiamenti. Riuscì con le sue ultime forze ad aprire la mano che la teneva prigioniera all’ammasso di metallo, quindi cadde a terra, mugolando per il dolore. Lo spostamento fece estrarre il pezzo di lamiera dal fianco, e un fiotto di sangue rosso, quasi nero, mostrò la gravità della ferita.
«Un’altra cicatrice da aggiungersi alla lista se le sacromacchine non si sbrigano...» pensò mentre la testa le girava e lei provava a rialzarsi, inutilmente. Il suo corpo non stava rispondendo per nulla ai suoi voleri. «Maledizione. Odio quando svengo.»
Mentre la sua visione si faceva annebbiata e sempre più ristretta, come se qualcuno stesse chiudendo un otturatore davanti ai suoi occhi, Seerah sentì in lontananza delle voci gridare, ovattate dall’imminente svenimento.
   
 
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