“Ho lasciato
che la mia vita si distruggesse su un destino già stabilito.”
L’odoroso
suono della sveglia destò Seth dal suo torpore mattutino.
Sì,
perché ogni volta che quell’aggeggio suonava lui riusciva a distinguere l’odore
del mattino, un odore a lui conosciuto e che detestava. Quest’odore tutt’al più
sembrava somigliare a una pomposa colazione con tanto di brioche e cappuccino,
ma stranamente tutte le volte che si alzava si accorgeva che era solo un
fottuto odore di ferro battuto.
Si
godeva i suoi cinque minuti di relax prima di affrontare la giornata con quella
finta espressione di gentilezza nel viso che incantava anche i più scettici. Ruperth lo chiamava “Il sorriso ammaliatore” perché zittiva
i ragazzi e faceva impazzire le ragazze. Seth se ne compiaceva, gli piaceva
molto far intendere quello che non era, nella sua vita aveva sempre fatto finta
di nulla. Fin da neonato, sua madre gli aveva raccontato, logicamente quando
non era affaccendata a mandare accidenti a suo padre o a prendere psicofarmaci,
che lui non piangeva quasi mai e lei andava per intuito a dargli da mangiare o
da bere. Diceva che era un neonato di merda e che la faceva impazzire, malediva
il giorno in cui era nato e poi andava a fumarsi una sigaretta con una mano
alquanto tremante, lui al solito scrollava le spalle e tornava ai suoi affari,
d’altronde era lei che lo chiamava e lei che lo cacciava, un classico ormai.
Ad
un tratto si chiese come fosse arrivato a pensare certe cose, di primo mattino
per giunta, così si diede una scrollata ed entrò in bagno.
Mentre
entrava in doccia sentì infrangersi per terra qualcosa che sembrava vetro e poi
le urla, che in sé non significavano nulla, era il buongiorno mattutino di sua
madre e tutti ne prendevano atto. Seth sorrise sommessamente e si chiuse in
quella specie di stretta cabina facendo partire lo scroscio d’acqua che
all’inizio era freddo come ghiaccio e lo riempì di brividi, poi inizio a
scaldarsi fino a diventare quasi bollente. Proprio come piaceva a lui. Quella
sensazione discostante sulla pelle, prima di freddo poi di caldo, lo faceva
sognare. Riteneva sé stesso diverso dagli altri, e lo credeva davvero tanto da
vantarsi personalmente con il suo ego di essere il migliore della famiglia a
sembrare una buona persona.
Aveva
posto la finzione come centro del suo universo, d’altronde non gli era rimasto
altro.
A
volte si stupiva di come riuscisse a rimanere impassibile davanti certe
situazioni, poi si diceva che non poteva che essere meglio così e si adorava
perché l’emotività non faceva parte della sua vita. Mentre si lavava sentì che
aveva un erezione e gli venne un moto di risa incontrollabile, anche se lo
avessero sentito, nessuno ci avrebbe fatto caso, in quella casa di pazzi
nessuno faceva caso a nulla e si viveva felici e contenti.
Uscì
dal flusso d’acqua e si avvolse dentro l’accappatoio, mentre si asciugava e
sceglieva cosa mettere guardò la sua figura allo specchio e pensò che in fondo
era uscito proprio un bel ragazzo.
Capelli
biondo scuro, spettinati naturalmente, occhi verdi con striature marroni e
corpo snello con peluria invisibile. Rivolse di nuovo lo sguardo verso
l’armadio perfettamente ordinato e scelse un paio di jeans lavati e profumati
con sopra una camicia nera anch’essa stirata che emanava odore di ammorbidente,
badava sempre lui alle sue faccende: stirare, lavarsi i vestiti, prepararsi da
mangiare, lavare la sua stanza, erano tutte cose che lui faceva abitualmente e
che lo rendevano una bella persona.
Ma basta curare l’esterno per
essere veramente una bella persona? Non bisognava curare anche l’interno?
Molte
volte se lo chiedeva, ma si convinceva sempre di non aver tempo di pensare
anche al proprio io interiore, il suo esteriore gli dava già abbastanza
grattacapi senza dover pure pensare ad altro.
D’altronde
chi poteva vedere dentro di lui? Nessuno. Per cui non importava.
Finì
di vestirsi, si spruzzò un po’ di profumo e scese giù.
Sua
madre aveva le sembianze di una strega, la sottoveste bianca con cui era
agghindata era trasparente e faceva intravedere tutto l’intimo, i suoi capelli
erano ingarbugliati all’inverosimile e c’erano ancora rimasugli di trucco nel
suo viso che, come al solito, stava piangendo.
Dopo
aver distrutto l’ennesimo servizio di piatti (ormai ci pensava lui a comprarne
uno al giorno), si era seduta davanti a un’enorme tazza di caffè bollente e lo
stava osservando come se non sapesse cosa farci. Seth pensò di suggerirglielo,
poi abbandonò l’idea pensando che non erano affari suoi.
A
terra c’erano migliaia di cocci bianchi e le sue scarpe provocavano un rumore
sordo che stranamente gli piaceva, cercò di camminare il più possibile mentre
si preparava il suo cappuccino bollente.
<<
Buon giorno, mamma.>> disse mentre zampettava qua e là. Il suo tono era
gioviale nonostante la situazione non lo fosse per nulla. << Vaffanculo. >> rispose lei di rimando.
Seth
fece un sorriso ampio. << Ti voglio un mondo di bene anche io, mamma.
>> sua madre lo guardò torva e sussurrò un sommesso “fottiti”, poi si
rigirò a osservare la sua tazza di caffè come se dovesse farlo per tutto il
giorno, ma lui sapeva già che avrebbe fatto la fine del servizio di piatti di
lì a poco.
Mentre
toglieva la tazza bollente dalla macchinetta, scese suo padre, un uomo alto,
sporco e con l’addome sporgente più del dovuto. Aveva anche un principio di
calvizie sulla testa e sembrava la tipica persona che di lavorare non ne vuole
sentire. Invece lui a lavorare ci andava, solo che poi la sera andava ad
ubriacarsi per benino e tornava a casa fradicio di alcool, e la festa aveva
inizio.
<<
Che cazzo succede qua dentro? >> disse con la sua voce roca e impastata
dal sonno e dai postumi della sbornia. << Buongiorno papà. >>, lui
lo guardò indifferente poi rispose con qualcosa che sembrava un soffio, almeno
lui lo faceva.
Prese
anche la seconda tazza di cappuccino, e salì le scale in direzione della stanza
del suo fratellino che stava sicuramente dormendo. Lasciò suo padre a imprecare
contro sua madre e quest’ultima a urlare che non ce la faceva più, che quella
situazione non sarebbe potuta durare a lungo.
Peccato
che durava da venticinque anni e nessuno dei due cedeva.
Abbassò
la maniglia con il gomito e aprì la porta col piede, scostandola lievemente per
evitare che il cigolio dei cardini svegliasse Vincent dal suo sonno. Quando
aprì la porta però vide che il bambino lo fissava con occhi spalancati e
stringeva la coperta fin su al mento, era rannicchiato in posizione fetale e
gli sembrava che tremasse impercettibilmente. Il suo sguardo color pece non
ammetteva discussioni e appena lo vide entrare, ancora immerso nel buio,
divenne subito più rilassato, quasi felice.
Posò
le tazze sulla scrivania e alzò la saracinesca che avevano pulito il giorno
prima insieme, bagnandosi interamente con la schiuma del detersivo e ridendo
come pazzi, approfittando dell’assenza della madre. Aprì le tende e gli rivolse
un ampio sorriso benevolo.
<<
Buongiorno, Vince. >>
Il
bambino si tolse le coperte e volò tra le braccia del fratello. <<
Buongiorno, Seth. >>
Lui
non chiese nemmeno il motivo del perché era già sveglio a quell’ora, doveva
sicuramente aver sentito i piatti infrangersi per terra e i mugolii strozzati
senza senso.
<<
Stupida troia che non sei altro è così che tieni la casa? C’è puzza di muffa
ovunque, perché non prendi un fottuto straccio e dai una pulita, Cristo
Santo?>>
Intanto
giù urlavano forsennatamente, Seth pensò che tra poco sarebbero volati pensili
ed oggetti vari, sperava dopo che lui e Vincent fossero usciti, ma le
possibilità erano scarse.
<<
E tu pensi che dovrei governare la casa di uno schifoso ubriacone come te? Tu
sei fuori, se tanto ci tieni puliscitela da sola la casa, bastardo! >>
urlò di rimando la madre. << Chi cazzo li porta i soldi a casa eh? Io mi
spacco il culo dalla mattina alla sera, non come te che stai attaccata al
telefono o davanti quella fottuta tv, persino tuo figlio è più responsabile di
te. Sei una donna inutile, ecco cosa sei! >>
Seth
chiuse gli occhi, troppo tardi.
Si
sentì infatti un fragore come di qualcosa di infranto contro il muro, volarono
altri insulti e smise di ascoltare, voltò lo sguardo verso il fratellino e
sentì montare dentro di sé la pietà. Era rannicchiato nella sedia e cercava di
bere il cappuccino, ma gli tremavano troppo le mani e per poco non se lo versò
addosso. Seth si inginocchiò e gli prese le manine guidando la tazza verso la
sua bocca e aiutandolo a bere correttamente, Vincent lo guardò con gratitudine
e si accorse che aveva gli occhi lucidi.
<<
Ascoltami piccolo birbante, non devi dare ascolto a loro, litigano spesso e
volentieri e certe volte esagerano, ma tu devi solamente ignorarli, devi
concentrarti su ciò che stai facendo ed estraniarli dalla tua mente, come
quando devi fare i compiti e vuoi ardentemente giocare al gioco nuovo, ti
impegni per eliminare quel pensiero e rimanere concentrato sullo studio no?
>>
Il
bambino lo guardò poi rispose: << O almeno ci provo...>> e un
principio di sorriso apparve sulle sue labbra, allora Seth ne approfittò, posò
la tazza e gli fece il solletico che lo fece morire dal ridere.
Nel
frattempo si sentirono provenire dei passi dabbasso, il bambino smise di ridere
e una faccia terrorizzata gli si dipinse in volto, pensando al peggio. Seth lo
guardò con aria comprensiva e scosse la testa, dicendogli che andava tutto
bene, che papà non avrebbe mai fatto loro del male.
Nick,
il padre, stava dietro la porta con una mano appoggiata al legno, quei tre
figli che aveva voluto con tutte le sue forze stavano crescendo bene, anzi
benissimo, ma di certo non per merito suo, e neanche per merito di Samantha se
per questo. Ma solo per merito di Seth, che non si scomponeva mai, che non
abbandonava mai quell’aura tranquilla e posata e che mai aveva avuto paura
delle sfuriate dei suoi genitori, si vergognava miseramente di aver fatto certe
cose davanti a lui e ringraziava il cielo che almeno lui non ne avesse subito i
danni.
Sean
era morto.
Il
suo primogenito non aveva resistito, a sedici anni lo avevano trovato con la
gola tagliata nella vasca da bagno, aveva ancora le lacrime agli occhi. Seth
aveva solo quattro anni allora, ma anche in quell’occasione non versò una
lacrima, al funerale se ne rimase in disparte ad osservare la tomba in silenzio,
sembrava star pensando qualcosa, ma quello non era il momento di occuparsene e
non ci fece molto caso.
In
seguito, però, se ne sarebbe pentito.
Lasciò
scivolare la mano e si diresse nella sua stanza, mentre faceva finta di non
sentire i singhiozzi della moglie.
Seth
sospirò e prese la tazza del fratello. << E’ ancora tiepido, mandalo giù,
su. >> disse dolcemente. Il bambino lo guardò con quegli occhioni tanto grandi da far paura, poi prese la tazza
dubbioso e infine ne trangugiò tutto il contenuto d’un fiato, Seth sorrise e
bevve il suo.
Lavato
e vestito Vincent prese la cartella e se la mise in spalla, poi diede la mano
al fratello e insieme uscirono dalla porta ad aspettare il bus per la scuola
elementare. Non salutarono prima di andare, perché non avevano nessuno da
salutare visto che il padre era andato a lavoro e la madre non era
rintracciabile.
L’autobus
arrivò presto e Seth salutò Vincent con la mano raccomandandogli di stare
attento, poi si avviò a piedi verso la sua scuola poco distante da casa sua. Il
suo passo era leggero, risuonava con il canto delle cicale del mattino che
allietava l’arrivo dell’estate, molte volte aveva pensato che quel canto era
triste e che ricordava molto un particolare lamento, come se le cicale il
realtà si disperassero e piangendo intonassero un canto triste. Mentre
camminava la luce del sole si insidiava nel cielo, era un bello spettacolo che
si godeva ogni mattina, quella vista gli permetteva di rilassarsi e riposare la
mente per non pensare a tutto quello che in realtà doveva pensare.
<<
Seth, caro mio, hai visto ieri che stupenda puntata di Fantasy face? Mi sono
anche commosso ad un certo punto, tu no? >> lo accolse calorosamente Ruperth all’ingresso della scuola con un’espressione
gioiosa sul viso, Seth si chiese se anche lui non stesse in realtà recitando.
<<
Beh, non mi ha lasciato sicuramente indifferente. >> disse guardando
altrove.
Ruperth
era cresciuto con gli zii, ogni volta che chiedeva dove si trovassero i suoi
genitori loro gli rispondevano che erano tragicamente morti in un incidente
stradale. Ruperth non aveva mai fatto discussione su
questa verità e nessuno gliene aveva mai trovato motivo, finché una volta non
rispose al telefono, contravvenendo agli ordini della zia che glielo aveva
severamente proibito, e a rispondergli fu una donna che quando sentì la sua
voce iniziò a singhiozzare convulsamente. Prima che la zia gli togliesse il
telefono dalle mani, lui sentì perfettamente dire: “Ruperth
sono la mamma...”, quando aveva chiesto spiegazioni alla zia questa gli aveva
risposto che aveva sicuramente sentito male perché la donna al telefono era una
collega di lavoro, sicuramente la mancanza dei genitori gli aveva fatto sentire
qualcosa di non vero.
Ma
Ruperth non ci aveva mai creduto.
Da
quel momento però aveva sofferto in silenzio, cercando di non far capire nulla
alla zia che si sarebbe sicuramente irata a scoprirlo mentre pensava ancora a
quella storia.
Ruperth
sapeva che i suoi genitori erano vivi, è una cosa che i figli in un modo o
nell’altro avvertono nel profondo del cuore e Ruperth
lo sentiva. Decise che una volta diventato maggiorenne li avrebbe cercati,
costasse quel che costasse.
Entrarono
a scuola e salutarono il resto dei compagni, si prospettava una giornata
noiosa.
Uscito
dall’istituto Seth s’incamminò per tornare a casa, quando dietro uno dei
pilastri del cancello vide spuntare la testa del fratellino in attesa che
tornasse. Fu sorpreso di vederlo lì visto che di solito tornava a casa da solo.
Si avvicinò e vide il suo sguardo diventare luminoso, s’inginocchiò davanti a
lui e sorrise. << Cosa ci fai tu qui? Birbantone...>>
e gli arruffò i capelli castani. Lui ridacchiò, ma dopo poco ritornò serio.
<< Le cose a casa sono peggiorate, sono andato dietro la porta ma ho
sentito mamma che urlava e a casa papà non c’è, la mamma urla da sola
adesso...>> lo guardò sull’orlo delle lacrime, Seth allora gli mise le
mani sulle piccole spalle. << Allora facciamo un gioco Vince, tu sali
sulle mie spalle a cavalluccio e io calmo la mamma una volta tornati, che dici? >>, il bambino assunse
un’espressione gioiosa e annuì. Seth si girò e porse le mani indietro per
accoglierlo, dopo poco sentì il suo peso piuma accovacciarsi sulle spalle e si
alzò, salutò Ruperth e s’incamminò adagio verso casa.
Vincent
aveva appoggiato la sua testa in quella del fratello e si godeva l’aria
tranquilla di quella stradina deserta, in quel momento era circondata di foglie
a causa dell’autunno, ma quel viale era bello sempre. In primavera spuntavano i
ciliegi, d’inverno la neve, d’autunno le foglie secche per terra e d’estate i
frutti che abbellivano i muri. Lo
chiamava “Il quadro delle stagioni” perché ogni volta che mutava il tempo
mutava anche il viale. Era una cosa che lo aveva sempre impressionato dal
profondo.
Era
talmente felice di avere suo fratello che mai avrebbe voluto perderlo, era
l’unica cosa buona che gli rimaneva, se non avesse avuto lui non avrebbe saputo
come fare. Non riusciva a spiegarsi come lui sapesse sempre star tranquillo e
sorridere, ma questo era suo fratello e lui ne andava fiero.
Mentre
stava per addormentarsi, arrivarono a casa. Le urla erano apparentemente
cessate e Vince ne fu contento, aveva paura di vedere la mamma in uno stato
ancora più pietoso. Entrarono in casa e chiusero la porta, non c’era alcuna
traccia di profumo in quelle mura, le cura che la donna di casa le dedicava
erano veramente esigue ed essa ne dava a vedere gli effetti in maniera
consistente.
Ma
non puzzava ancora. Non ancora.
Vince
scese dalle spalle del fratello e insieme videro la madre riversa nel pavimento
in posizione fetale, constatarono che dormiva e la misero a letto sotto le
lenzuola.
<<
Vince? >> chiese Seth quand’ebbero finito. << Mh?
>> << Ti andrebbe se suonassi il piano? >>, gli occhi del
bambino si spalancarono. << Si, magari la melodia allieterà i sogni della
mamma...>>.
Si
recarono nella stanza attigua dove risiedeva un pianoforte vecchio di decenni,
appartenuto al nonno del padre e trasferito di generazione in generazione dove
in ognuna di essere c’era sempre stato un particolare talentuoso per il piano.
Nella
loro famiglia il genio era Sean.
Si
sedette nel seggiolino davanti il piano e si sistemò per bene, Vince si sedette
invece nel divano dietro, mentre la luce del sole filtrava tra le tende della
finestra donando una luce celestiale a quelle due creature.
Poi
lui suonò.
E
tutto sembrò essere risucchiato, le note che s’intrecciavano tra di esse, il
sentimento delle mani nel loro movimento melodico, la schiena di suo fratello
che tremava impercettibilmente e la sua figura umilmente triste davanti quello
strumento che da che esisteva poteva solo riprodurre suoni malinconici. Vince
provò l’impulso di alzarsi e andare là davanti per non lasciarlo solo nel suo
oblio di suoni.
Si
alzò, lo raggiunse e lo vide sorridere. Si sentì allora il cuore più leggero e
sorrise anche lui mentre entrambi si perdevano nel paradiso di quella melodia
triste.
<<
Lo suonava sempre Sean, Moonlight Sonata di
Beethoven, era la sua preferita. >> il suo sorriso vacillò e anche se Vince non aveva idea di chi fosse
Sean le lacrime presero a scendergli nelle guance grassotte.
Lo avvolse goffamente da dietro e cercò il più possibile di consolarlo.
<<
Seth. >> bisbigliò mentre stava ancora suonando. <<Mh? >> << Chi è Sean? Un tuo amico? >>
Seth
se ne rimase in silenzio per un po’. Poi sussurrò: << Nostro fratello.
>>
Silenzio.
Vince non capiva.
<<
E’ morto tanti anni fa, si è tolto la vita, io avevo quattro anni e lui la mia
età. Non ha retto, ma io gli volevo bene. Molto. >>
La
melodia stava giungendo al termine, d’altronde tutto ciò che iniziava doveva
pur finire, il tremito della sua schiena s’intensificò e Vince temette di non
riuscire a colmare la sua immensa solitudine.
<<
Ti voglio molto bene anch’io, Seth. Ti prego non morire. >>
Il
ragazzo sorrise, il ciuffo di capelli gli copriva i chiari occhi, suonò la nota
finale e se ne rimase lì immobile mentre suo fratello continuava ad
abbracciarlo, per molto tempo.
Sentì
aumentare il peso corporeo di suo fratello e capì che si era addormentato. Si
scostò lentamente e lo prese tra le braccia, portandolo nel suo letto e
mettendolo sotto le coperte. Era rimasto solo in casa e ne approfittò per
andare in veranda. Di solito gli piaceva rimanere a guardare il viale, a volte
pensava, a volte non pensava affatto e si lasciava trasportare da suoni e
colori. La sedia a dondolo faceva un rumore di vecchiaia, e lui se ne sentì
particolarmente affezionato.
Probabilmente
perché ricordava di esserci stato insieme a Sean, un infinità di tempo prima.
Ricordava
di aver voglia di un gelato quel pomeriggio, ma ovviamente il frigo ne era
sprovvisto, lui non aveva fatto storie anche se quella voglia incondizionata lo
aveva preso e mise su una faccia impettita. Sean non mancò di accorgersene, lui
si accorgeva sempre di tutto, sembrava come se avesse potere sulle sue
concezioni.
<<
Seth.>> lo chiamò lui con la sua voce quasi inesistente. Il bambino si
girò e lo guardò con sguardo interrogativo. << Mh?>>
<< Ti va di osservare le stelle in veranda?>>, Seth sembrò
rifletterci un po’, poi annuì senza alcun tipo di espressione. Sean andò per
primo e a lui sembrò che la sua schiena fosse anche più grande di quella di suo
padre. Camminava in modo strano, quasi curvo e metteva sempre le mani in tasca.
Anche quando sorrideva, gli occhi
di Sean erano tristi.
Seth
si sedette sulle ginocchia del fratello e puntò il naso verso il cielo. Non ci
trovò nulla di interessante, per lui erano una serie di punti sconnessi in un
immenso blu. Poi si voltò a guardare il fratello e vide che stava piangendo, se
ne stupì moltissimo, pensava che lui fosse una specie di divinità che non si
lascia mai sopraffare dalle emozioni, ma evidentemente non era così.
<<
Perché stai piangendo, Sean? >> chiese con voce atona Seth. Lui si voltò
ad osservarlo a lungo come se cercasse di trovare la risposta nei suoi occhi,
poi assunse un impercettibile sorriso e si rimise a guardare il cielo, al
riflesso della luna i suoi occhi brillavano.
<<
So che probabilmente capirai poco di quello che ti dirò. Sono stanco, veramente
stanco di sopportare giorno per giorno tutto ciò di cui mi fanno carico. Sono
stanco di ascoltarli, sono stanco di far finta di nulla, sono stanco di
sorridere senza gioia e sono stanco anche di non poter avere una fottuta
famiglia felice. >>
Ora
la sua faccia era una maschera di dolore e Seth ne provò un’incredibile
tenerezza, aveva capito tutto a discapito di ciò che pensava lui. Gli prese la
testa e se l’appoggiò al petto, lasciando che suo fratello si sfogasse.
Morì due giorni dopo.
Si
costrinse a mandar via quel ricordo spiacevole e a riconcentrarsi sul viale che
aveva bisogno di una ripulita, che ovviamente non sarebbe arrivata molto
presto. Quando si voltò verso lo stipite della porta vide sua madre appoggiata
al muro che lo fissava, non avrebbe saputo dire da quanto tempo. Non lo
disturbava affatto quello sguardo, infatti lo sostenne con assoluta
tranquillità.
<<
Somigli troppo a tuo fratello, tu.>> disse rabbiosamente la donna.
Seth
sorrise. << Siamo fratelli, dopotutto, no?>>
Lei
lo guardò male, c’era qualcosa come disprezzo e disperazione mescolate insieme
nei suoi occhi, Seth pensò che era normale per lei assumere quello sguardo,
così si voltò nuovamente.
Sua
madre lo osservò ancora per qualche tempo, sempre con quello sguardo.
<<
Manca il latte, andresti a comprarlo per favore? >> disse senza mutare la
sua espressione.
Seth
rimase in silenzio per pochi secondi, poi si alzò e se ne andò.
La
donna lo guardò finché non lo vide girare l’angolo e allora si diresse nella
stanza di Vincent.
Aprì
lentamente la porta, c’era semibuio a causa del far della sera, osservò quel
bambino innocente sotto le coperte che dormiva beatamente e iniziò a piangere
lentamente, non voleva svegliarlo. Per quello che aveva intenzione di fare era
necessario che lui rimanesse assopito.
Si
sedette sul bordo del letto e lo osservò a lungo, il suo respiro era regolare e
sembrava proprio una creatura scesa dal cielo. Poggiò una mano sulla sua testa
accarezzandogli piano i capelli e sentì come erano morbidi e setosi. Non si era
mai curata di lavarglieli e in quel momento si rese conto di che razza di madre
fosse stata. Aveva ragione suo marito, non era degna di allevare dei figli, ma
nonostante ciò ne aveva partoriti tre.
Uno
era morto e gli altri due erano cresciuti da soli.
Le
lacrime scesero una dopo l’altra, in fermento, come se volessero fermare il
folle gesto che avrebbe compiuto di lì a poco. Il bambino continuava a
respirare piano. Il tramonto continuava a scendere lentamente verso
l’orizzonte. Doveva far presto o Seth sarebbe tornato.
Estrasse
un coltello dalla sottoveste, in quel buio la lama luccicò in modo
terrificante. Le labbra della donna presero a tremare e cercarono di sorridere,
ciò che ne venne fuori però fu solo una smorfia di dolore acuto. Continuava ad
accarezzare i capelli di Vincent in modo meccanico.
<<
Vince, sono la mamma, so che stai dormendo e non puoi sentirmi, ma io voglio
parlarti lo stesso perché probabilmente sarà la prima ed ultima volta che lo
faremo. Io vi ho amati, tutti e tre, vi ho amato come figli e come persone,
come bambini e come ragazzi. Ma non sono una tipica persona che esterna il suo
amore verso gli altri e questa è la conseguenza. Mi dispiace tanto se mi hai
odiato e mi odi ancora per tutte le pazzie che ho commesso, ma giuro che questa
sarà l’ultima. Ti risparmierò dal fare la stessa fine di Sean, ti risparmierò
lo stesso sguardo di Seth, che poi era lo stesso sguardo di Sean. Ti
risparmierò la disperazione di non avere il coraggio di ucciderti, ti
risparmierò il dolore di crescere con due genitori come noi, ti risparmierò di
andare all’inferno perché un bambino come te può solo andare in
paradiso.>>
Prese
a singhiozzare, trattenendosi più che poteva. Vincent aprì lentamente gli occhi
a fessura, vedendo sua madre brandire quel coltello, capì.
A soli sette anni capì che era
giunta la sua ora. Chiuse gli occhi lasciando libera una lacrima. “Addio
Seth...” pensò.
<<
Perdonami, se puoi.>> sussurrò la donna prima di conficcare il coltello
nello sterno del bambino, proprio sopra il cuore.
Morì
sul colpo, sentì solo una piccola fitta e poi il buio avvolse le sue membra.
La
donna continuò a piangere, fino a che non svenne.
Era
una scusa.
Una
fottutissima scusa.
Se
ne rese conto quando fu a metà strada, spalancò gli occhi con lo sguardo
rivolto a terra e si fermo in mezzo alla strada. Le persone non ci fecero caso
e gli passarono accanto tranquillamente.
Nella
sua mente balenò una consapevolezza che lo terrorizzò dal profondo.
Girò
i tacchi e tornò indietro.
Corse
a perdifiato perché non era più una consapevolezza, ma una certezza. Lo sguardo
di sua madre, il suo atteggiamento, la mano che tremava più del solito, e
quell’espressione che travolgeva sé stessa in un vortice di disperazione.
Dentro
la sua testa mille pensieri si affollarono, nessuno coerente con l’altro, ma
che per la prima volta lo mandarono in crisi.
Per
la prima volta era talmente spiazzato da voler gridare.
Quella
dannata casa non si avvicinava mai per quanto lui stesse correndo, per quanto
le sue gambe si sforzassero di essere veloci, quella casa rimaneva lontana.
Le
sue certezze rimanevano dubbi e la sua tranquillità si distruggeva.
Poi
vide spuntare un tetto familiare e capì che era la sua abitazione, accelerò il
passo e dopo pochi minuti si ritrovò davanti alla porta silenziosa come un
baratro. Si sentì invadere da tremiti
involontari che non erano di freddo.
Era paura, terrore, orrore.
Aprì
la porta, la sentì cigolare. Per un momento si sentì paralizzato all’ingresso,
non riuscì a muovere un muscolo, atterrito da quel silenzio sinistro.
“ Seth, anch’io ti voglio molto
bene, non morire...”
Si
precipitò nella stanza di Vince e vide ciò che sapeva già. Suo fratello in una
pozza di sangue, immobile nella posizione in cui dormiva sempre. Sua madre
svenuta accanto a lui.
“... un'ombra sulla mente ecco che
passa
come quando a mezzodì
il sole possente una nube avvolge.”
Le
sue pupille volteggiarono da una parte all’altra come una pallina di biliardo
in un tavolo vuoto. Poi tutto si fermò e il suo urlo fu acuto e spettrale.
Quando rimase senza fiato, continuò a guardare in modo ossessivo la scena che
si presentava davanti i suoi occhi. Ansimava e stringeva i pugni tanto da aver
creato dei solchi, poi nell’oblio della pazzia afferrò il coltello sfilandolo
dal torace di Vince, il suo sangue gocciolò dappertutto andando a bagnare il
viso di sua madre ancora rannicchiata sul bambino, apparentemente senza sensi.
<<
Te la farò pagare, maledetta te la farò pagare, mi hai tolto tutto brutta
stronza!!! >>
Mentre
urlava sua madre aprì gli occhi lentamente, mettendolo a fuoco. Vide il
coltello gocciolante brandito dal figlio, sapeva che era rivolto a lei, sapeva
che presto glielo avrebbe conficcato nel cuore proprio come aveva fatto lei con
il piccolo. Sapeva che era la cosa giusta, lei sapeva. E questo bastava.
Non
aveva mai pensato all’opinione altrui, non aveva mai messo in conto che
esistevano anche gli altri. L’egoismo aveva sempre regnato nella sua vita,
contava solo ciò che lei riteneva giusto, non c’erano altre vie o scorciatoie.
Se lei aveva deciso che tutti dovevano morire, così doveva essere.
Perché loro non meritavano di
vivere, non meritavano di fingere la felicità.
Odiava
quel ragazzo che si ostinava a sorridere, si ostinava a trasmettere pace al
fratello, si ostinava a non tremare di paura e a non piangere nemmeno quando
Sean era morto. Odiava quel ragazzo, che era suo figlio, con tutta sé stessa e
per punirlo doveva farla finita insieme a tutti gli altri. Doveva perché era
suo dovere di madre impartire una lezione al figlio. Anche se questa lezione era il più esemplare
atto di pazzia. Così gli aveva insegnato sua madre, “Vendicati, figlia mia. Non
lasciar mai passare nulla, piccolo o grande che sia falla pagare a tutti dal
primo all’ultimo.” così gli diceva sempre e così lei aveva sempre fatto, anche
con lui, il figlio che gli era rimasto dopo il suicidio del primogenito. Dopo
la prova di essere stata una pessima madre, dopo essersi resa conto di essere
una pessima persona, dopo aver congiunto le mani in preghiera e aver chiesto a
Dio che la punissero come lei puniva gli altri.
Ma
ciò non era avvenuto. Nessuno la odiava, nessuno la puniva, nessuno vendicava
Sean.
Era
come se tutti si fossero scordati di lui e nessuno avesse più bisogno di
piangere sulla sua tomba, ma non era così. Non poteva essere così.
Odiava
suo marito perché tornava a casa ubriaco e non la picchiava, odiava suo figlio
perché non aveva mai esternato alcuna emozione che non fosse un sorriso falso e
uno sguardo diffidente. Non c’era amore in quegli occhi, lei che cercava tanto
una comprensione, un affetto per togliersi di dosso la morte del figlio.
Nessuno
l’aveva punita e nessuno l’aveva confortata.
In
quell’istante sentì un dolore bruciante partirle dal ventre e mescolarsi tutto
intorno come una ragnatela e la sottoveste bagnarsi quasi istantaneamente, capì
che di lì a poco sarebbe morta dissanguata. Guardò il figlio che singhiozzava
davanti a lei guardandosi ossessivamente le mani, gli aveva tolto ciò di cui
aveva più bisogno e solo alla fine le aveva rivolto parole accusatorie.
Parole che l’avevano finalmente
punita.
Iniziava
a rantolare, il respiro cominciava a farsi più corto e sentiva la vista
annebbiarsi poco a poco, allora si
costrinse a sollevare una mano e a poggiarla sulla guancia di Seth,
immediatamente gli lasciò una traccia di sangue e si ricordò di quando era
piccolo e si sporcava la faccia di sugo perché non sapeva ancora mangiare
correttamente e lei rideva dicendogli che sembrava un clown, Seth allora rideva
con lei durante quei rari pomeriggi in cui il suo umore era buono.
Ma
ora non era sugo quello che c’era sul suo volto cresciuto e bello, ma era il
suo sangue, un addio dal profondo.
<< Mi dispiace, Seth, perdonami.
E...grazie.>> sussurrò lasciando scivolare due lacrime in direzione delle
orecchie e spirando per sempre, mentre la mano insanguinata ricadeva sul letto
e Seth tremava e piangeva, tremava e piangeva.
Si
scatenò un forte acquazzone quando Nick uscì dall’ufficio. Era strano in quel
periodo della stagione che piovesse in modo così violento, si mise la
cartelletta sopra la testa e si precipitò in macchina.
Quella
sera non aveva voglia di bere, non aveva voglia di tornare a casa e non capire
nulla, quella sera aveva voglia di rientrare e fare pace con la moglie e magari
di giocare alla play station con i suoi figli. Quella doveva essere una sera
divertente, come da tanto tempo non la passavano.
Mentre
camminava a velocità sostenuta, passò davanti un negozio di giocattoli e vide
in vetrina uno di quei modellini di macchine d’epoca che tanto piacevano a
Vince, decise di entrare e fargli un regalo.
Mentre
si aggirava per il negozio vide uno degli spartiti che Sean amava tanto, gli
diventarono immediatamente gli occhi rossi e cercò di nasconderli col cappello.
Alla fine prese il modellino a Vince e lo spartito a Seth e tornò in macchina,
era sicuro che sua moglie ne sarebbe stata contenta, aspettava da molto tempo
una serata serena insieme a tutta la famiglia. “Domani possiamo andare a
visitare la tomba di Sean, è tanto che non ci si va...” pensò mentre si stava
avvicinando a casa.
Entrò
nel garage e scese dalla macchina chiudendo l’avvolgibile servendosi del telecomando,
sentì un distinto suono di pianoforte provenire dalla stanza e se ne rallegrò,
poteva suonare il piano insieme a Seth e far sognare il piccolo Vince. Sorrise
ed entrò.
Si
pietrificò quando capì che l’altro rumore di sottofondo erano singhiozzi. Mentre rimaneva lì fermo a
sentire quella melodia le sue narici avvertirono l’odore del sangue e tutto ciò
che la sua mente avvertì fu: morte.
<<
Muoviti, muoviti, muoviti, MUOVITI
STRAMALEDIZIONE!!>> urlò con tutto il fiato che aveva mentre il
suono del piano no n cessava e i singhiozzi si facevano più disperati. Le sue
gambe si mossero simultaneamente e per poco non ruzzolò per terra, afferrò il
pensile e si rialzò goffamente continuando a correre verso la stanza da cui
proveniva quel maledetto odore di sangue.
Sostò
lì davanti per un tempo indeterminato mentre la pioggia continuava a battere
sul tetto e sulle finestre, mentre la melodia continuava e il pianto si
strozzava.
Sostava
davanti a due cadaveri, il suo cervello bloccò gli occhi su quell’immagine e se
la piantò per bene in testa.
Poi
urlò.