Spiccava nel grigiore comune con il suo abito vermiglio, le scarpe nere, i capelli dai riflessi ramati raccolti in una lunga treccia che ricadeva elegante sulla sua spalla pallida. Nonostante i modi pacati si faceva notare. O meglio, IO la notavo. E la pensavo.
La incontrai per la prima volta in un piovoso pomeriggio autunnale. Non aveva l'ombrello, così le prestai il mio, incantato dalle sue labbra vermiglie che abbozzarono leggere un sorriso di ringraziamento. La guardai allontanarsi calma, con il passo di chi si sta godendo una passeggiata sotto il sole di primavera. E non la scordai più.
Tornato a casa, avevo ancora in testa l'immagine di questa bellissima donna vestita di rosso. Ero rimasto incantato, e con questo aggettivo mi spiegavo coma mai iniziai a pensarla sempre più spesso, ogni giorno, ogni ora, ogni secondo. Volevo rivederla, oh, se lo volevo. Non sapevo quanto lei desiderasse lo stesso ma non mi importava: ormai mi era entrata in testa. E non riuscivo a farla uscire.
Iniziai a frequentare assiduamente i luoghi in cui lei andava abitualmente, mettendomi però in disparte, cercando di non farmi notare troppo. Non volevo spaventarla o farle credere che la stessi inseguendo o facendo qualcosa di strano. Infatti mi limitavo semplicemente a... dedicarle del tempo. E' un gesto gentile, romantico. Continuavo a considerarlo tale anche quando mi ritrovai a dedicarle più tempo del previsto. Era nella mia testa in ogni momento, ogni cosa mi raccontava di lei o la richiamava in qualche modo. Il tamburellare della pioggia sui vetri con quel tic-tac simile a quello di un orologio che scandiva gli amari secondi quando non la vedevo; l'odore dei campi di lavanda nella campagna vicino casa sua, il gusto dei cibi afrodisiaci di cui sicuramente sapeva ogni centimetro del suo corpo, della sua pelle, delle sue labbra infuocate. Stavo diventando perverso, e quando la vedevo era ancora peggio. Ma LEI non voleva uscire dalla mia testa. E finché rimaneva lì, non potevo fare a meno di dedicarle quei dieci minuti la mattina, osservandola mentre innaffiava le piante, con quel suo vestito vermiglio; poi la accompagnavo al bar a fare colazione e, sempre sotto il mio attento vegliare su di lei, andava in un palazzo a scartabellare dei fogli e regolare dei conti. Per me era estremamente facile ammirarla lì, data la fortunata coincidenza di lavorare nel suo stesso posto. Beveva il caffè durante le pause, poi tornava a casa e si metteva a dormire. A volte andava in palestra o, semplicemente, usciva per una passeggiata o con qualche amica. Ma io non la abbandonavo mai , qualsiasi cosa facesse. Quando mi accorsi di esserne completamente ossessionato, ormai era troppo tardi per uscire da quel vortice di abitudini malate che mi ero creato per... tenerle compagnia con lo sguardo. Non giudicatemi, ve ne prego: più volte provai a farla uscire dai miei pensieri, ma anche quando sembrava essersene andata qualche minuto dopo ritornava a sorridermi con le sue labbra vermiglie, ringraziandomi per la millesima volta in quella giornata per l'ombrello.
E vermiglio era il suo vestito, e vermiglia era a mia passione per lei, e vermiglio era il sangue che avrei versato per averla. Stavo impazzendo. Mi svegliavo per lei, respiravo sotto il suo comando, restavo sveglio per vari giorni di fila pur di starle vicino anche di notte, cullandola con lo sguardo acquattato dietro un albero che aveva messo le sue radici proprio davanti alla sua camera da letto. Ero un maestro nel mimetizzarmi in ogni luogo, ma un giorno, forse per un dito troppo sporgente o un lembo di camicia che creava contrasto con l'ambiente circostante, lei mi notò. Scappò via. La vidi correre, poi sentii un tonfo. Da quel giorno, non la vidi più.
Dov'era? Che fine aveva fatto? Non sentivo più neanche il suo odore, ingerito da quello dello smog e di gente che non aveva mai avuto a che fare con lei.
Quando sarebbe tornata a casa? Io ero lì ad aspettarla, ne campo di lavanda, nel suo giardino, davanti alla sua porta di casa.
Quando sarebbe tornata a casa? Non vederla era straziante. Diventavo sempre più nervoso ogni giorno che passava. Non potevo non vederla, no, non reggevo la situazione, era impossibile....
Quando sarebbe tornata a casa? A quanto pare mai! Lessi la notizia su un vecchio giornale con cui stavo ricoprendo dei vasi, in giardino, dopo averli innaffiati. I miei genitori mi dicevano sempre, quando ero piccolo, di guardare a destra e a sinistra prima di attraversare. Magari i suoi non le avevano mai detto nulla o era stata quando era piccola una bambina parecchio disobbediente perché, evidentemente, lei non aveva guardato da nessuna parte, se non dritta. Ed era stata investita, proprio davanti casa sua. Stava correndo.
La rabbia che avevo represso fino a quel momento esplose in una furia distruttrice. Stracciai il giornale, ruppi tutti i vasi, distrussi i fiori e l'intero giardino. Non sarebbe più tornata a casa, mai più, e urlavo e sbraitavo, avevo gli occhi rossi, vermigli di pianto e di rabbia. Dopo quelli che mi parvero essere alcuni minuti mi calmai, ma non del tutto. Dal momento stesso in cui avevo letto quella notizia avevo un solo pensiero, rimasto attaccato come un chiodo fisso: volevo rivederla. Viva o morta che fosse.
Alcuni fiori erano miracolosamente rimasti quasi intatti: li presi e mi diressi verso il cimitero. Il giornale era vecchio di qualche settimana circa, quindi era certo che ormai i funerali erano stati fatti e Vanda Verre era stata sepolta.
C'era un unico cimitero nella nostra città. Visitai tutte le tombe, una per una, controllando ogni foto, ogni biglietto, ogni data, ogni minimo indizio che mi avrebbe potuto portare da lei. E tornai anche il giorno dopo, e quello dopo ancora.
Ribadisco che c'era un solo cimitero nella nostra città. E lei era... Andata. Ma non era lì.
Eppure era stata investita mentre correva. Mentre scappava via. Il suo corpo insanguinato era steso sull'asfalto in una posizione che sembrava ancora richiamare quella corsa che non si sarebbe mai conclusa. Stava scappando, alla ricerca di un nascondiglio. Un nascondiglio che non avrebbe mai trovato perché io avrei continuato a cercarla seguendo il suo vestito vermiglio e il suo odore afrodisiaco. E fiutandola l'avrei trovata e stancata, quella rossa volpe che tanto furba non era.
Dopotutto, c'era un solo cimitero nella nostra città. Un solo ufficio dove lei scartabellava i fogli. Un solo campo di lavanda che odorasse di le. Un solo giardino dove lei innaffiava fiori vermigli.
Fiori che si sarebbero seccati, perché lei non sarebbe più stata lì ad innaffiarli. I fogli si sarebbero ammucchiati, la lavanda avrebbe perso il suo odore.
Il cimitero sarebbe rimasto lì, immobile, ad ospitare migliaia di grige lapidi tranne quella di lei, che mai si sarebbe eretta tra le altre. Perché Vanda Verre non sarebbe mai tornata. Perché Vanda Verre non era mai stata in nessuno di quei luoghi. Perché Vanda Verre non era mai esistita, era solo un prodotto vermiglio della mia mente malata. Ma io ne ero comunque ossessionato.