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Autore: Fox_Symbol    21/07/2024    0 recensioni
Hannah è una ragazza come tutte le altre. Ha una famiglia affiatata, una cara amica e tanti progetti. Non vede l'ora di finire la scuola e godersi il suo meritato anno sabbatico, a dispetto di quello che pensa suo padre. Tutto sembra andare di bene in meglio ma un giorno un incendio cambia ogni cosa. Tutto dipenderà da come affronterà il cambiamento. Non sarà facile perché la sua vita non sarà più la stessa.
Genere: Avventura, Malinconico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ero sicura che il risveglio più strano mai avuto sarebbe stato quello in ospedale dopo che avevo inavvertitamente bruciato la scuola. Mi sbagliai. Quello dopo fu ancora più inquietante. Ero confusa, intontita e spaesata ma non quanto la prima volta. Avevo immancabilmente la flebo conficcata nel braccio. Feci una risata nervosa, quasi isterica. Ultimamente erano più le volte che mi svegliavo in un lettino ospedaliero che a casa nel mio letto. Probabilmente era il liquido che mi stavano iniettando a rendere le cose parecchio buffe. Alzai il collo incriccato e mi guardai meglio intorno. Non ero in ospedale. Mi trovavo in una piccola e cubica stanzetta grigia. La lampada al neon incastrata al soffitto sfarfallava ritmicamente. Provai a sedermi. Ero su una barella molto simile a quella degli ospedali ma ero sicura di non essere lì. Niente finestre, niente armadi, niente telecomandi per chiamare l’infermiera. Niente di niente. Come se non bastasse avevo addosso vestiti sconosciuti: una felpa nera di due taglie più grandi e dei pantaloni della tuta grigi con l’elastico per regolarli. Più mi guardavo in giro, più la situazione si faceva spaventosa. La stanza era vuota e l’unica cosa che la occupava erano la barella, la flebo ed io. L’unica via d’accesso era una porta blindata. Mi fiondai disperatamente verso di essa e provai ad aprirla, senza successo. Cominciai a guardarmi ovunque, in cerca di qualsiasi indizio che mi potesse dire dov’ero o che stesse succedendo. Niente. Non c’era neanche uno straccio di telecamera da cui potermi sorvegliare ma non sapevo se esserne sollevata o ancora più preoccupata. Improvvisamente udii un rumore provenire dalla porta. Qualcuno doveva aver inserito una chiave o un passe-partout perché iniziò ad aprirsi. Non sapevo che fare. Se fosse stato un malintenzionato avrei potuto usare l’asta della flebo per colpirlo ma il tubicino che mi collegava ad essa non era molto lungo. Non ebbi molto tempo per pensare.
 
 - Dottor Harris! – esclamai – Dove ci troviamo? Che ci faccio qui?
 
Con calma, con così tanta calma da innervosirmi, si avvicinò a me per togliermi l’ago della flebo e si scusò: - Hannah, mi dispiace che ti sia risvegliata qui da sola. Mi sono semplicemente allontanato per andare alla toilette.
 
 - Dove mi trovo? Che posto è mai questo? Dottore, che sta succedendo?
 
Il dottore iniziò sempre con molta calma, a spiegarmi tutto: - Chiamami pure Ryan. In questo momento ci troviamo in una base top secret, non molto lontano dall’ospedale. Non ti devi preoccupare. Qui sei al sicuro.
 
Non ci capivo niente. Ogni parola che gli usciva di bocca era assurda. È pazzo lui o lo sono diventata io? Il dottor Harris, Ryan, si tolse gli occhiali e cominciò a giocherellarci. Non mi era ancora chiaro se il medico fosse un amico o un nemico ma ritrovarmi in quella situazione non giocava in mio favore. Ero costantemente in allerta. Sembrava dovermi dire qualcosa di difficile. Cercava di perdere tempo: - Vedi, come hai ben scoperto, tu non sei una semplice ragazza. Sei speciale. Hai capacità e doti straordinarie che la gente comune definirebbe impossibili.
 
 - Capacità? E lei si aspetta che me la beva? Dove ci troviamo? Me lo dica subito!
 
I suoi occhi non mentivano: diceva la verità. O almeno lui credeva che quella fosse la verità.
 
Ryan aprì la porta: - Vieni a vedere tu stessa.
 
Mossi qualche passo fuori, oltre la porta, e finii in un corridoio altrettanto grigio e sinistro.. Lui era sotto lo stipite a sorridere. È pazzo! Dove mi ha portata? Feci qualche altro passo scrutando tra la luce sfarfallante qualche via d’uscita. Appena notata una porta metallica senza serratura in fondo al corridoio feci un lungo respiro. Fissai il dottor Harris aspettando che abbassasse la guardia. Poi cominciai a correre.
 
- Ehi aspetta!
 
Non mi guardai indietro. Fu facile scappare, aggrapparmi la gelida maniglia metallica e tirarla con forza. Ero spaventata. Finì per scivolare e cadere faccia avanti. Mi alzai di scatto in pieno panico finché non mi resi conto di dove ero finita.
 
Oltre quella porta c’era un’immensa stanza, così immensa che i soffitti parevano infiniti da quanto erano alti. Al suo interno c’era un vero e proprio esercito. Uomini e donne in abiti militari lavoravano e trasportavano enormi macchinari. Nonostante si muovessero tutti in maniera estremamente ordinata, in quel posto regnava la confusione. Non mi aspettavo niente del genere. Ero scioccata. Così scioccata che mi irrigidii e rimasi immobile cercando di capire cosa stesse succedendo. La paura mutò in confusione.
 
 - Non capisco. Che posto è questo? Dove mi hai portata?
 
Ryan si mise davanti a me: - Questo posto è l’Elect Project. Tutte le persone che vedi qui, beh, militari a parte, sono come te.
 
Ero stupefatta. Solo dopo quell’affermazione mi resi conto che tra i soldati c’erano anche diverse persone in abiti civili. Ma non erano molti. Quasi si perdevano in mezzo a tutto quel grigio mimetico.
 
Tentai di tornare alla realtà ma ancora non capivo: - Cos’è l’Elect Project?
 
Ryan rispose con lo sguardo perso tra la folla: - I ragazzi che vedi qui sono come te. Hanno dei talenti che li rendono speciali, unici al mondo. Noi ci facciamo chiamare gli eletti.
 
Altri come me? Forse pensava che sarei stata felice di sapere che qualcun altro stava affrontando la mia stessa situazione, qualcun altro mi capiva. Non era così.
 
- Ne parli come se fosse qualcosa di esaltante. Qualcosa di positivo. Io però non voglio averci niente a che fare. Ho rischiato di uccidere qualcuno a causa di questa storia!
 
Julie. Un breve ma doloroso pensiero mi trafisse il cuore.
 
Ryan mi prese per una spalla. Il suo costante sorriso rassicurante cominciava a darmi sui nervi. Mi incoraggio a fare una passeggiata in questo hangar.
 
 - Sai, tutti si sono sentiti così con la prima onda – iniziò a spiegare – Ti senti in colpa e non trovi nessuno in grado di capirti. Di capire il dolore e la confusione che stai passando.
Non ci capivo niente: - Che cos’è la “prima onda”?
 
Ryan si fermò per guardarmi mentre spiegava: - Si chiama onda la prima manifestazione del proprio potere. Nel tuo caso si è trattata anche di un’onda letterale che scaturisce da dentro, come un’esplosione.
 
 - Capisco. – dissi non nascondendo il mio scetticismo – Io però ne ho avute due. Come lo spieghi?
 
- Non lo so. Quello che ti è successo è alquanto raro. Ma quello che tu credi sia orribile è qualcosa di straordinario, unico.
 
Il suo sguardo si incupì: - Ogni dono però ha il suo prezzo.
 
Che vuoi dire? Non è già abbastanza terribile così? Ci fermammo contemporaneamente ed io rimasi a guardarlo in silenzio, in attesa di una risposta.
 
Sembrò raccogliere il coraggio e ripartì con la spiegazione: - Vedi da quando il potere si manifesta, il corpo non è in grado di contenerlo. Per compensare il tutto, qualcosa comincia a decadere. Alcune volte si vede dalla nascita ma nel tuo caso si scoprirà dopo un po’ di tempo cosa sì sia aggravato nel tuo fisico.
 
Parte di me non credeva a nulla di quello che stesse dicendo ma ero anche molto preoccupata. Che sia vero?
 
 - Ma sono mali preoccupanti? Sono gravi? Possono portare a… peggio?
 
- Tranquilla, non è mai qualcosa che causi la morte.
 
Iniziai a scaldarmi: - E questo dovrebbe rassicurarmi? Posso causare la morte di altre persone ma devo stare tranquilla perché a me non succederà niente?
 
Scossi la testa, digrignai i denti e arricciai le labbra per il furore.
 
- Perché sono così? Almeno questo siete riusciti a capirlo?
 
- No.
 
Rispose in maniera così schietta chi mi lasciò un attimo destabilizzata.
 
- Non lo sappiamo. Almeno non con certezza. C’è qualcosa di diverso in te, in tutti quelli come te. Fino ad ora abbiamo trovato solo una particolarità che accomuna tutti: un’anomalia cromosomica.
 
- Non tutti siamo dottori. Spiegati meglio.
 
- Chi ha di queste anomalie di solito nasce con la sindrome di Down, di Edwards o altre. Chiamiamo i nostri poteri doni perché non so come ci hanno impedito di contrarre una di queste sindromi. Non sappiamo come e non sappiamo perché ma non possiamo sottovalutare ciò che abbiamo scoperto.
 
Troppe informazioni da digerire tutte in una volta. Informazioni che potevano essere false, anzi sicuramente lo erano, ma non avevo nient’altro a cui aggrapparmi. Era troppo assurdo ma sembrava avere una risposta a tutto.
 
Il cercapersone di Ryan cominciò a suonare: - Scusa ma è un’emergenza. Ti posso presentare una persona? Così concluderà il “tour”.
 
Non aspettò la mia risposta e si perse un attimo tra la folla. Ogni persona lì dentro sembrava impegnata e indaffarata. C’era chi sperimentava con fiale, ampolle e becher e c’era chi era più forzuto che si occupava di carico e scarico merci. Sembrava che i soldati non volessero confondersi con gli altri se non fosse stato estremamente necessario. Avevano tutti un ruolo. Tutti aveva uno scopo.
 
Dopo poco Ryan tornò in compagnia di una ragazza asiatica con un paio di occhiali enormi e tondi, ma essendo sottili e dorati non oscuravano il viso tondeggiante. Era parecchio bassina, alta un metro e quaranta o poco più. Masticava un’enorme chewingum in maniera abbastanza rumorosa scoppiando una bolla di tanto in tanto. Mi diede parecchio fastidio nonostante il luogo fosse abbastanza caotico da poter coprire facilmente il rumore della sua masticazione. Aveva i corti, scuri e lisci. Doveva esserseli tagliati da poco perché continuava a sistemarsi la frangia e il riflesso blu dei capelli era ancora molto acceso. Indossava una maglietta ironica con scritto “mangia, dormi, hackera e ripeti” e dei jeans che dalla cintura eccessivamente stretta e dai vari risvolti fatti si capiva che non erano della sua misura.
 
Ryan ci mise l’una davanti all’altra: - Allora Mei, lei è nuova e si chiama Hannah. Hannah questa è Mei, la mia ragazza. So che avrete tante cose di cui parlare.
 
Poi se ne andò via rapido dandoci una lieve pacca sulla spalla. Imbarazzata misi le mani nelle tasche e cominciai a ciondolare avanti e indietro.
 
Lei rimase immobile, con la stessa espressione neutra e gli stessi occhi spenti. Non la smetteva di fissarmi e masticava imperterrita la stessa fastidiosa gomma. Non avevo la minima idea di come iniziare una conversazione. Come si poteva pretendere di bombardare qualcuno enormemente confuso con tutte quelle informazioni per poi metterlo davanti ad una sconosciuta e andarsene.
 
Il silenzio si fece più rumoroso dei carrelli elevatori, delle casse in metallo trascinate qua e là e del vociferare che echeggiava nell’immensa stanza.
 
Fui io a mettergli fine: - Sei da molto qui? Voglio dire nel progetto… perfetti?
 
- Eletti. – mi corresse senza muovere un muscolo – Da nove anni.
 
Mi guardai intorno cercando di mandare via il disagio. Ma ero ancora spaventata. Spaesata.
 
Lei era impassibile: - So cosa stai passando e so che tutto questo ti sembra surreale.
 
 
Sembrava mostrare empatia ma non lasciava trasparire niente: - Non ti sembra vero quello che sto provando, giusto?
 
 
 - Come dici scusa?
 
- Le espressioni, non provo nulla. Ti starai chiedendo il perché e lo capisco. Succede tutte le volte. Il fatto è che non posso.
 
Avevo provato a nascondere l’incredulità dalla mia voce ma fallii miseramente.
 
- Oh no, provo felicità, tristezza, rabbia,... esattamente come in quel cartone idiota di Inside Out. Solo che non riesco a esprimerlo. Mai.
 
Tutto questo mi sembrava ancora assurdo. Così assurdo da non riuscire a mostrare un minimo di empatia nei suoi confronti. Inarcai le sopracciglia e strinsi i lati della bocca, rivolgendole uno sguardo di sufficienza, gesto di cui mi sarei pentita amaramente più tardi.
 
- Credete che abbocchi a certe cose? Quello che dici è impossibile. Prima d’ora non mi è successo niente del genere e chi mi dice che non vogliate abbindolare con strani trucchetti?
 
Ero indispettita. Era tutto troppo folle e troppo insensato. Non riuscii a frenare la bocca e le vomitai addosso l’ira, lo shock, la paura, il rimorso e tutto quello che avevo represso in appena una giornata che consideravo inconcepibile.
 
- Non so a chi devo credere. Non so nemmeno se credo a quello che è successo. Sono confusa e spaventata. A nessuno è mai successa una cosa del genere e nessuno ne ha anche solo sentito parlare. Quindi se avete qualcosa da dire o da mostrarmi che possa aiutarmi a capire bene che sta succedendo, vi scongiuro di dirmelo immediatamente.
 
Non si capiva bene se stessi piangendo o avendo uno scatto d’ira ma non so come mi sentii meglio. Feci un paio di respiri quando incredibilmente riconobbi la suoneria del mio cellulare che si faceva spazio nel chiasso circostante. Feci cenno con la mano per fermare temporaneamente la conversazione e rispondere.
 
- Chi è?
 
- Hannah, mi riconosci?
 
Sentivo a malapena la voce femminile uscire dal debole autoparlante del mio telefono. Premetti la mano sull’orecchio opposto per sentire meglio e cercai di dirigermi verso una zona meno caotica.
 
- Mi scusi ma chi parla?
 
- Mi chiamo Chen Mei e sono la ragazza dietro di te.
 
Arricciai le sopracciglia tanto da provocarmi un lieve mal di testa. Smisi di parlare e mi voltai lentamente verso Mei. Mi resi conto che la voce era identica. Ma non era lei a parlare.
 
- C-cosa… - esclamai a fatica.
 
Si avvicinò: - Volevi avere risposte e prove immediatamente…
 
- …ed io te le ho date. – continuò lei al cellulare.
 
Non apriva bocca, non aveva un cellulare con sé e nemmeno un auricolare. Ma era indubbiamente lei al telefono. Era tutto troppo surreale per crederci.
 
- Sono tecnopatica. – spiegò subito dopo aver chiuso la chiamata – Sono in grado di controllare uno o più macchinari tecnologici alla volta con la mente. Un potere invidiabile.
 
Invidiabile?
 
- Mi piace vedere il bicchiere mezzo pieno, anche se a volte lo preferisco pieno di vino. – scherzò.
L’ultima cosa che ti aspetteresti da una persona apparentemente fatta di ghiaccio è che inizi a scherzare. Lasciai andare lo stato confusionale in cui mi trovavo molto più frequentemente del normale e feci spazio ad un lampo di lucidità.
 
Mamma e papà!
 
- Ma i miei saranno in pensiero! Non sanno che fine ho fatto e… da quanto tempo mi trovo qui? Che ore sono?
 
- Tranquilla, adesso chiamo Ryan che ti spiegherà passo dopo passo cosa fare. – mi rassicurò.
Si comportavano con troppa tranquillità per i miei gusti. Come se non si rendessero conto della situazione. Della mia situazione.
 
Ryan arrivò con calma, con molta calma: - Hannah, prima di indirizzarti e spiegarti al meglio come funziona qui vorrei presentarti il fondatore e dirigente di questa struttura, il sergente Moore.
 
Mi ritrovai davanti un possente uomo e tutto muscoli. Indossava abiti militari che qui sembravano andare tanto di moda ma lui aveva un’evidente toppa sulla manica sinistra da cui risaltavano linee e stelle dorate. Un uomo chiaramente di alto rango. Era il classico tipo nato e cresciuto nell’esercito con i capelli ormai tutti bianchi che si rasava regolarmente. Gli occhi molto piccoli e neri erano circondati da piccole rughette che si disperdevano lungo il viso. Sembravano nascondere qualcosa, come se non volessero far trapelare ciò che aveva vissuto. A prima vista il suo aspetto intimidiva, ma non appena mi vide sfoderò il più grosso e radioso sorriso mai visto.
 
 - Piacere, sono il sergente maggiore Clark Moore, ma tutti qui mi chiamano semplicemente Moore. - disse cordialmente – Tu devi essere Hannah Jackson, giusto?
 
 - Come mi conoscete? – chiesi.
 
 - Noi cerchiamo di conoscere al meglio ogni singola persona con un talento speciale, unico nel suo genere. – spiegò – L’Elect Project si occupa di aiutare i giovani come te a controllare le proprie abilità.
 
Era tutto il tempo che mi ripetevano le stesse cose assurda ma avevo lasciato perdere. Facevo posto ad altre preoccupazioni: dovevo tornare a casa.
 
Fortunatamente la conversazione terminò subito: - Ora però so che sei in ritardo e non posso dirti altro. Ogni supplementare informazione te la darà a Ryan.
 
L’uomo ci salutò calorosamente e poi si voltò a parlare con un ragazzino biondo, pelle e ossa, che seguiva sempre Moore.
 
Raggiungemmo l’esterno ed entrammo in una berlina scura. Rimasi un attimo in silenzio per riflettere sul da farsi. Era chiaro che volessero aiutarmi. Ryan continuava a parlarmi di quanto mi sarebbe stato utile per proteggermi e per proteggere anche gli altri. Disse che la scelta doveva essere impellente. Come facevo a fare una scelta del genere in poco tempo?
 
- Se poi aiutarti ti dico solo questo: questo potere non è come una lampadina che puoi spegnere e accendere, ma con il giusto addestramento si può controllarne l’intensità. Noi possiamo aiutarti e da quanto ho visto, il tuo potere ha necessità di addestramento. – disse guardando il vuoto per un attimo, come se si dovesse soffermare su un vecchio ricordo – La cosa più difficile, però, sarà convivere con il grosso cambiamento e farsi travolgere da esso. Purtroppo, questa è una battaglia continua e se decidi di non seguirci dovrai portare questo enorme peso da sola. La domanda è: te la senti?
 
Ciò che aveva detto mi aveva fatto capire che parlava per esperienza e non era una di quelle piacevoli. Julie.
 
Decisi d’impulso. Pronunciai la parola che cambia per sempre la mia vita: - Accetto.
   
 
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