Attenzione: questa storia è la seconda parte di una serie. Si ambienta subito dopo "Premure tra sospettati".
Relazione Segreta
Capitolo 1
Dopo l’arresto di Butch Gilzean per l’omicidio di Galavan, le preoccupazioni abbandonarono Jim Gordon e la vita tornò quella di un tempo.
C’era solo un piccolo, piccolissimo e segreto dettaglio che era cambiato rispetto a prima. Ovvero la sua relazione con Oswald Cobblepot.
Jim aveva capito di esserne attratto e sapeva che il criminale lo ricambiava, il che lo aveva reso molto felice. A risultare problematico, però, era il fatto che dovessero capire come gestire il loro rapporto, che era imperativo restasse segreto.
E così all’inizio erano rimasti l’uno lontano dall’altro, sentendosi giusto al telefono o per messaggio. Ma era stato solo l’inizio, il tempo che le acque si calmassero davvero.
Poi Jim aveva ricominciato a raggiungerlo al suo club con ogni possibile scusa, per finire a scambiare due parole con lui mentre bevevano un drink seduti al bancone in orario di chiusura. Altre volte aveva bussato alla porta del suo ufficio e qui, nella segretezza della stanza, avevano ripreso a baciarsi con passione come quella prima volta, a casa sua.
Si vedevano anche a cena quando possibile, ma sempre nell’appartamento del detective. A volte lui prendeva qualcosa d’asporto, altre Oswald si offriva di cucinare e lui era ben felice di lasciarglielo fare.
Farsi vedere insieme in un luogo pubblico, che fosse per una cena o altro, sarebbe stato troppo rischioso, per questo decisero di comune accordo di evitarlo.
In ogni caso, dopo aver mangiato e dopo essersi scambiati qualche bacio bisognoso, Oswald se ne andava sempre via con la scusa di un impegno importante che lo attendeva quella sera stessa o l’indomani mattina presto.
Jim iniziava a sentirsi frustrato, ma se Oswald voleva andarci piano allora non lui non aveva niente da ridire. Lo avrebbe aspettato, non era un problema.
Ciò che gli importava di più al momento era riuscire a stare insieme quando possibile e avere l’occasione di conoscersi meglio, oltre che di capire cosa volevano entrambi e se aveva avuto senso dare inizio a quella relazione.
Non che fosse successo dopo una riflessione ponderata. Era successo e basta, e nessuno dei due aveva chiesto all’altro cosa fossero, né aveva attribuito un nome al loro rapporto. E per il momento a Jim andava bene così.
Da quando loro due si frequentavano, la situazione in città era migliorata gradualmente. La malavita agiva in modo più sottile, riuscendo a coprire le sue tracce e senza scatenare grossi problemi.
Oswald gli disse che aveva ridistribuito i territori delle bande per evitare che se li contendessero in una guerra, ma non doveva aver fatto solo quello dato quanto andassero bene le cose.
Gli omicidi non mancavano mai a Gotham, ma c’era una strana calma per le strade che lui non aveva mai sperimentato. Persino Harvey se ne era accorto, infatti un giorno aveva commentato ironicamente la cosa.
Quella sera, Jim e Oswald si erano dati appuntamento a casa del detective per la cena. Era sabato, il che implicava niente lavoro, non per lui almeno.
Oswald invece aveva degli impegni comunque, ma si era liberato la sera per lui e Jim gliene era grato.
Immaginava quanto fosse occupato e sotto pressione, a dover gestire dei criminali per tutto il giorno. Poteva solo immaginarlo ma ne aveva conferma dai suoi racconti, perciò non dava affatto per scontato il loro tempo insieme.
Quel giorno Jim aveva avuto molto tempo libero, perciò aveva dato una pulita alla casa e così facendo si era ritrovato tra le mani un vecchio libro di ricette che non sapeva di avere. Lo aveva preso come un segno, iniziando a sfogliarlo in cerca di qualcosa di semplice che avrebbe potuto preparare senza problemi.
Non era un granché in cucina, anche se sapeva preparare le cose basilari come la colazione. Per il resto, preferiva affidarsi ai ristoranti o alle persone con cui usciva.
Alla fine trovò la ricetta di un piatto italiano, e avendo la pasta e tutti gli altri ingredienti necessari optò per quello. Sapeva che Oswald, per un periodo, aveva lavorato nel ristorante di Don Maroni, ed era certo che qualsiasi cosa preparata da lui non sarebbe mai stata all’altezza dei piatti che vedeva lì, ma aveva voglia di mettersi alla prova.
Si mise ai fornelli nel tardo pomeriggio, sperando che il tempo a sua disposizione gli bastasse per preparare il sugo e tutto il resto.
Solo quando sentì suonare il campanello si rese conto di che ore fossero. Abbassò il volume dei fornelli per andare ad aprire, ma prima si accorse dello stato pietoso in cui versava la cucina. Utensili abbandonati qua e là, piastrelle schizzate di sugo, eppure lui aveva da poco finito di pulire tutto quanto...
Inoltre non si era cambiato, e a dimostrarlo c’era una piccola macchia di pomodoro sulla sua maglietta.
Si vergognò di tutto quanto mentre si avviava alla porta, ma ormai era troppo tardi per nascondere il danno. L’aprì e si trovò davanti Oswald, ben vestito come se avrebbero cenato in un ristorante costoso anziché lì, con un gran sorriso sulle labbra e una bottiglia di vino in mano.
“Ciao,” gli disse, stranamente intimidito dal suo aspetto impeccabile, tutto l’opposto del proprio.
“Ciao James,” rispose lui, e il detective si spostò per permettergli di entrare.
Chiuse la porta e finalmente poté dargli un bacio sulle labbra.
“Stavi cucinando?” gli chiese Oswald, sorpreso, notando prima la macchia sulla sua maglietta e poi le pentole sui fornelli accesi.
“Sì… è quasi pronto ma la cucina è un disastro, mi dispiace. Ho perso la cognizione del tempo,” ammise, grattandosi nervosamente la nuca.
“Non importa, non hai di che scusarti,” rispose Oswald, che sembrava impaziente di scoprire cosa avesse preparato.
Il che era positivo, anzi bastò a ripagarlo dell’impegno che aveva messo nella preparazione.
“Vieni a sederti, intanto apparecchio,” lo invitò, tornando in cucina per primo.
“Se vuoi posso darti una mano,” si offrì Oswald, avvicinandosi ai fornelli con lui.
“No, non ce n’è bisogno. Ho tutto sotto controllo… Anche se non si direbbe,” aggiunse, provando un filo di imbarazzo per il disastro che aveva lasciato sul bancone.
Oswald non insistette più e si accomodò, quindi Jim mise in tavola piatti, bicchieri, posate e tovaglioli, stappò il vino e insieme brindarono. Poi ricordò che doveva controllare la cottura, quindi tornò ai fornelli e un attimo dopo li spense.
Mise gli spaghetti nei piatti prestando molta attenzione a non sporcare in giro, e alla fine la presentazione non risultò poi tanto male, era proprio come sarebbe stata quella di un ristorante in cui si mangiano porzioni abbondanti di cucina casalinga.
Peccato che solo l’aspetto fosse accettabile.
Con un primo assaggio, Jim si accorse che la pasta era troppo cotta e il sugo era insipido, segno che avrebbe dovuto controllare il sapore prima di decretare terminata la cottura, ma ormai era troppo tardi.
Rivolse uno sguardo deluso al suo fallimento, dopodiché si azzardò a scoprire quale fosse l’espressione di Oswald.
Inaspettatamente lui stava cercando di trattenere un sorriso. Sembrava molto divertito dalla situazione, il che lo spiazzò per un istante.
“Scusami Jim, ho visto la tua reazione,” ammise, non riuscendo a celare il suo divertimento nel tono di voce.
“Mi spiace… È la prima volta che faccio una cosa del genere e probabilmente anche l’ultima. È stato un disastro…”
“Non è vero, è buona,” rispose Oswald prima di assaggiare un’altra forchettata, ma Jim non riuscì a crederci.
“Non serve mentire, e non sei costretto a mangiarla se non ti va,” puntualizzò, rigirando la forchetta nel suo piatto e scoprendo che molti spaghetti si erano inspiegabilmente attaccati tra loro.
“Dico sul serio. Non è così terribile e sono contento che tu abbia voluto cucinare per me,” gli disse, e questa volta Jim gli credette.
Gli rispose con un sorriso, grato che i suoi sforzi non avessero portato a un totale fallimento.
“Allora la prossima volta mi impegnerò di più per riuscire a fare di meglio,” dichiarò, anche se dubitava che avrebbe trovato presto il coraggio di riprovarci.
“Magari potremo cucinare insieme,” propose Oswald, e la sua idea gli piacque molto di più.
“Volentieri,” rispose.
Se la cavava bene ai fornelli, a differenza di Jim, perciò avrebbe sicuramente potuto imparare molto preparando qualcosa con lui. Inoltre gli sembrava un programma divertente.
“Come hai passato la giornata?” gli chiese Oswald.
“Più che altro a pulire casa. Anche se so che non sembra,” aggiunse trattenendo una risatina nervosa e spostando d’istinto lo sguardo sul disastro che aveva lasciato sul piano cottura.
Ancora una volta Oswald gli rivolse un sorriso divertito.
“Tu invece?”
“Oh, io…” iniziò, e prese tempo tamponandosi la bocca con il tovagliolo. “Ho dovuto mediare nella disputa tra due bande che operano nei Narrows… E sono andato a riscuotere in un locale che è sotto la mia protezione, ma che non aveva pagato in tempo,” disse, abbassando con nonchalance lo sguardo sulla tavola e facendo un sorriso tirato.
Non era la prima volta che accennava a qualcosa di spiacevole relativo al suo lavoro. E ogni volta si comportava così, come se si aspettasse subito dopo un giudizio da parte di Jim.
E in effetti Jim non era propriamente felice di sentire certi racconti, ma sapeva di cosa si occupava. Lo sapeva sin dall’inizio e, finché non ne sarebbe stato coinvolto in prima persona, o finché le sue azioni non avrebbero attirato le attenzioni della GCPD, gli andava bene.
Era sceso a patti con questo lato di Oswald ormai, in caso contrario non avrebbe mai deciso di uscire con lui.
“Sono contento che mi parli di queste cose,” gli disse, e Oswald sollevò su di lui uno sguardo sorpreso, perché chiaramente non si aspettava quelle parole. “So perché non mi racconti tutto, e non serve che io sappia davvero tutto, ma sono sollevato dal fatto che non mi menti. Se non fosse così, mi sentirei preso in giro e non riuscirei a mandarlo giù.”
“Io non voglio mentirti, James. Solo… credo che conoscere i dettagli potrebbe farti cambiare idea sul mio conto.”
“Ne dubito. Abbiamo ucciso Galavan insieme, niente potrebbe sconvolgermi. Comunque, non è questo il punto,” sottolineò. “Mi piace che riusciamo a mantenere il nostro rapporto il più trasparente possibile.”
“Piace anche a me,” concordò Oswald con un sorriso, e gli sembrò sollevato.
Jim gli versò del vino notando che il suo bicchiere era vuoto.
Conversarono ancora, e dopo mangiato Jim si alzò per prendere i piatti ma soprattutto per pulire di nuovo il bancone della cucina. Buttò quindi gli scarti che aveva lasciato in giro, mise a bagno utensili, pentole e tutto il resto, e si preparò alla fatica che lo aspettava.
“Ti aiuto,” dichiarò Oswald, togliendosi la giacca e appoggiandola con cura sullo schienale della sedia.
“Non serve, ho fatto da solo questo casino, e poi non vorrei che ti sporcassi.”
“Starò attento,” insistette, mentre già slacciava i polsini della camicia per tirare su le maniche fino ai gomiti.
Jim non si oppose più, felice di fare insieme a lui un’attività tanto semplice e quotidiana, anche se non si era aspettato un risvolto di quel tipo per la loro serata.
Il detective finì di sgomberare il bancone e procedette a lavarlo e asciugarlo, poi passò ai fornelli che erano altrettanto sporchi di sugo. Nel frattempo Oswald iniziò a lavare i piatti.
Inaspettatamente fu Jim a finire per primo. Dopo, anziché offrirsi di aiutarlo, appoggiò lo straccio sul tavolo e si avvicinò a Oswald di spalle. Appoggiò il mento nell’incavo del suo collo mentre con le mani avvolgeva il suo corpo, facendolo sobbalzare.
Il piatto che aveva in mano scivolò e finì di nuovo a bagno nel lavello, ma per fortuna i suoi vestiti costosi non si schizzarono di acqua e sapone.
“Jim, che stai facendo?” gli chiese Oswald, con una nota di allarme nella voce.
Lui rimase fermo così per un istante, a ispirare il suo profumo e godersi il calore che la sua vicinanza gli provocava.
“Ti abbraccio,” disse poi, sottolineando l’ovvio, e gli posò un bacio sul collo facendolo inspirare rumorosamente. “Non posso?”
“N-non mentre lavo i piatti,” ribatté Oswald, ma non tentò di spingerlo via.
“Finisco io più tardi,” dichiarò Jim, facendolo voltare verso di lui e dandogli un bacio sulle labbra. “Ti va di fermarti qui stanotte?”
Jim continuò a guardarlo negli occhi da quella breve distanza e gli parve di leggere del panico nel suo sguardo, seguito poi da qualcosa di triste.
“Non credo sia possibile… Ho un impegno più tardi…” rispose Oswald, abbassando gli occhi.
“Dovrei sentirmi geloso?” gli chiese Jim, mettendo una mano al centro del suo petto e disegnando dei cerchi con il dito indice sopra alla sua camicia.
In realtà si sentiva rifiutato apertamente, e quella per lui era la prima volta. C’era qualcosa che non gli stava dicendo e questo non gli piaceva affatto.
“Certo che no,” ribatté il criminale, guardandolo con espressione incerta.
“Se c’è qualcosa che non va puoi dirmelo,” sottolineò Jim, preoccupato. “Non dobbiamo per forza fare sesso, se vuoi andarci piano io rispetterò la tua volontà.”
Oswald sgranò gli occhi, ma poi li abbassò e al detective parve che stesse riflettendo, ponderando le sue parole successive.
“Tu sei il mio primo, James…” gli disse, senza guardarlo negli occhi.
Jim sentì un peso sollevarsi dal suo petto. Non lo stava davvero rifiutando, voleva solo andarci piano come lui aveva sospettato.
“Non serve dire altro,” rispose Jim.
Lo strinse gentilmente mentre gli dava un bacio sulla guancia sinistra.
“Per me tu sei il primo uomo,” parlò a sua volta, decidendo di aprirsi sulla questione dato che Oswald si stava mettendo a nudo, e voleva che fossero pari. “Mi sono sempre piaciute le donne… Non mi era mai capitato…”
Non finì mai la frase, perché si allontanò il tanto che bastava per guardare Oswald negli occhi e notò l’intensità con cui stava ricambiando quello sguardo. Un’intensità che gli tolse il fiato.
Fu il criminale ad avvicinarsi per baciarlo, e subito chiese con la lingua l’accesso alle sue labbra. Jim le schiuse e il bacio si fece più intenso.
Il detective tenne la testa inclinata verso di lui per tutto il tempo, ma poi qualcosa scattò dentro di lui e così fece scivolare le braccia dalla sua schiena al suo sedere, cedendo all’impulso di stringerlo e facendolo gemere.
Un istante dopo lo aveva sollevato e messo sul bancone della cucina appena pulito, per spingersi tra le sue gambe.
“Ah, Jim! Non posso… Non stasera,” ripeté, tra i baci. “Perdonami…”
“Non hai niente da farti perdonare,” sottolineò, accarezzandogli le ciocche di capelli che gli ricadevano sulla fronte. “Che ne dici… se continuiamo senza togliere i vestiti?” sussurrò nel suo orecchio.
Aveva ancora l’inguine appoggiato al suo e ciò lo stava rendendo impaziente, tanto che forse sarebbe impazzito. Era forse un animale? Non riusciva a pensare lucidamente in quel momento, era più forte di lui.
Ma se Oswald gli avesse detto ancora di no, o lo avesse spinto via, allora si sarebbe allontanato per impedirsi di fargli qualsiasi cosa. Lo avrebbe lasciato libero per quella sera, sperando che non iniziasse a odiarlo. Sperando di potersi far perdonare in qualche modo.
“Sì,” disse invece Oswald, con un’urgenza nella voce che fece tremare Jim d’impazienza.
Il detective si spinse contro di lui, gemendo sommessamente a quella piacevole frizione, mentre sentiva Oswald fare lo stesso. Quando prese a muovere il bacino contro il suo temette di nuovo che sarebbe impazzito.
Riprese a baciarlo avidamente sulle labbra e poi passò al collo, anche se la sua camicia abbottonata non gli lasciava molto spazio di manovra, ma in quel momento non gli importava.
Si aggrappò alla sua schiena e si beò dei suoi gemiti, e quando questi si fecero più forti, molto più forti e Oswald si inarcò all’indietro, Jim si sentì percorso da un brivido intenso e venne.
Rimasero l’uno appoggiato all’altro e riprendere fiato, le mani di Jim ferme sul bancone per riuscire a sostenere il peso di entrambi.
Lui poteva sentire il respiro caldo di Oswald sulla pelle del suo collo, il suo petto che si alzava e si abbassava contro il suo, ma l’impulso era passato, il desiderio soddisfatto e, anche se gli sembrava di essere tornato un adolescente alle prime armi, Jim si sentiva anche felice, anzi in pace.
“Va tutto bene?” chiese a Oswald, e si allontanò appena per guardarlo in faccia mentre con una mano gli accarezzava la schiena.
Lui annuì più volte a capo chino e poi gli rivolse lo sguardo. Aveva gli occhi lucidi, le gote arrossate e le labbra schiuse. Jim le osservò e si leccò le proprie, ma si impose di non avvicinarsi più di così.
“Vuoi fermarti da me? Per dormire, intendo,” specificò, visto il primo tentativo fallimentare di convincerlo a restare. “Non faremo altro, ma… mi piacerebbe svegliarmi con te domattina. E poi, domani è domenica.”
“S-sì, piacerebbe anche a me…” rispose Oswald dopo un attimo di silenzio, ancora con il fiato corto.
E Jim gli sorrise, davvero felice che non fosse scappato via.
“Va’ pure a farti una doccia se vuoi. Io ti porto un cambio e finisco di lavare i piatti,” dichiarò, dandogli un’ultima carezza tra i capelli prima di allontanarsi davvero per permettergli di scendere dal bancone.
Oswald non se lo fece ripetere due volte e sparì nel corridoio che portava al bagno. Una volta solo, Jim sospirò. Forse sarebbe stato davvero difficile trattenersi, ma era in grado di farcela e voleva rispettarlo.
Si diresse nella sua stanza e prese dei vestiti puliti tra quelli comodi che indossava per dormire. Poi aprì il cassetto dell’intimo e fu felice di aver riposto lì, per ogni evenienza, dei boxer nuovi ancora chiusi nella loro confezione.
Aveva fatto qualche acquisto in quei giorni, per assicurarsi di essere pronto qualsiasi cosa fosse successa.
Esitò ancora qualche istante, poi si posizionò fuori dalla porta del bagno e bussò.
“Sto per entrare, ti ho portato il cambio,” annunciò, ma attese comunque un paio di secondi prima di farlo davvero.
“Va bene,” sentì dire oltre la porta, così si decise ad aprirla.
“Giuro che non guardo,” promise, anche se il vapore era già tanto e avrebbe impedito di vedere qualsiasi cosa attraverso il vetro opaco della doccia.
Non ricevette alcuna risposta mentre posava i vestiti puliti sul mobile del bagno, e subito dopo averlo fatto uscì senza dire altro.
Per tenere impegnata la mente tornò subito in cucina a finire di lavare i piatti, quindi li asciugò e li mise via. Poi andò nella propria stanza a preparare un cambio d’abiti anche per sé, ma soprattutto a controllare che la stanza fosse in ordine.
Aveva pulito anche quella, per ogni evenienza, ma ora che sapeva che avrebbero finalmente dormito insieme nello stesso letto sentì comunque l’esigenza di verificarne le condizioni. Non voleva fare altre brutte figure, dopo il disastro che gli aveva fatto trovare in cucina.
Appurato che fosse tutto in ordine, tornò in salotto e accese la televisione giusto per passare il tempo e riempire il silenzio.
Oswald non ci mise molto in bagno, e quando uscì con indosso i suoi vestiti aveva l’aria decisamente imbarazzata ma felice. Gli stavano leggermente grandi, e Jim lo trovò adorabile. Non resistette e si avvicinò per dargli un bacio sulla tempia destra, tra i capelli puliti.
“Mi lavo anche io, intanto fa come se fossi a casa tua,” lo invitò.
Recuperò il suo cambio dal mobile dove lo aveva appoggiato e si infilò in bagno, dove fece la doccia più veloce della sua vita. Una volta fuori, si domandò se Oswald lo stesse aspettando in camera e il pensiero gli agitò qualcosa nello stomaco. E no, non si trattava di quel macigno di pasta che si era sforzato di mandare giù.
Invece lo trovò seduto sul divano e si impose di calmarsi prima di raggiungerlo e sedersi al suo fianco.
Facendo zapping aveva trovato un film interessante, un poliziesco. Lo guardarono per un po’, commentando il comportamento stupido del cattivo e le imprecisioni nel lavoro della polizia, che era stato raccontato palesemente da qualcuno che non conosceva affatto le procedure.
Poi, dopo un po’ che si erano fatti entrambi silenziosi, Jim si voltò appena per guardare Oswald e gli parve che fosse stanco. Fece intrecciare le loro mani e così attirò la sua attenzione su di sé.
"Andiamo a dormire?” gli chiese, e lui annuì con un sorriso.
Ebbe un che di strano dirigersi mano nella mano verso la sua stanza e mettersi a letto l’uno accanto all’altro. C’era ancora della tensione tra loro, qualcosa di irrisolto e di rimandando per il futuro. Alla fine, però, la stanchezza ebbe la meglio e Jim si rilassò completamente sul materasso.
Dopo quell’iniziale momento di insicurezza, si fece più vicino a Oswald e lo prese di nuovo per mano, guardando i suoi occhi chiari appena visibili nel buio della stanza, rischiarato solo dalle luci della città che filtravano attraverso le tende alla finestra.
Chiuse gli occhi, e fu allora che Oswald ruppe il silenzio.
“Domattina… mi piacerebbe se ci svegliassimo presto per andare a prendere la colazione da qualche parte... Per mangiarla passeggiando, dove nessuno può riconoscerci,” disse, al che Jim riaprì gli occhi e capì, dal suo tono di voce e dal suo sguardo, che non stava parlando tanto per dire. “E mi piacerebbe andare insieme a te alla tomba di mia madre. Sempre se ti va.”
Jim annuì, non trovando le parole giuste da rivolgergli in quel momento.
“Poi potremmo fare la spesa, prendere anche del gelato magari, e tornare qui per cucinare il pranzo insieme,” continuò.
E Jim tremò a quell’idea che rifletteva una semplice quotidianità che credeva non avrebbe mai vissuto con lui.
“Facciamolo,” sussurrò in risposta, e si avvicinò per posare un bacio sulla sua fronte.
Lo voleva, lo voleva davvero. Forse sarebbe stato difficile, ma intendeva provare a realizzare quel desiderio… che inaspettatamente sentiva anche suo.
Gli sembrò che Oswald stesse sorridendo, con il viso disteso e rilassato. Però era buio, e lui era troppo stanco per riuscire a fare qualsiasi altra cosa. E senza che se ne rendesse conto si addormentò profondamente.
L’indomani aprì gli occhi e si sentì subito bene, riposato come non si sentiva da tanto tempo. Un istante dopo si rese conto di avere Oswald tra le braccia, ancora nel mondo dei sogni. Gli dava le spalle adesso, e Jim doveva averlo stretto nel sonno perché aveva le braccia intorno al suo corpo e le gambe intrecciate con le sue.
Il detective si scostò appena per controllare la sveglia sul comodino. Erano quasi le sette, il che implicava che si era svegliato prima di quanto accadeva di solito, secondo il ritmo ormai dettato dal suo orologio biologico.
Era ancora presto, perciò appoggiò il viso contro la sua nuca e si godette ancora un po’ quel momento. Poi ripensò alla serata trascorsa insieme e gli tornarono in mente le parole di Oswald, pronunciate poco prima che lui si addormentasse. Non le aveva sognate, vero?
Era abbastanza presto, considerando che era domenica, perciò diede a Oswald un bacio sul collo domandandosi se così facendo si sarebbe svegliato. Quando lui mugugnò qualcosa di indefinito ebbe la sua risposta.
“Buongiorno,” sussurrò al suo orecchio sinistro, e Oswald finalmente si svegliò del tutto, voltandosi subito verso di lui.
Sembrò sorpreso di trovarsi lì all’inizio, ma poi la sua espressione si distese e lui riappoggiò la testa sul cuscino.
“Buongiorno, James,” sussurrò, una nota chiaramente felice nella voce.
Il detective raggiunse con le mani le sue, ferme sul suo petto, e le strinse con delicatezza.
“Che ore sono? Torna a dormire,” si lamentò quando Jim gli diede un altro bacio, questa volta sulla guancia.
“Quasi le sette. Ehi, vuoi ancora uscire per colazione?”
Oswald sollevò di nuovo il capo, sul viso un’espressione sorpresa che da sola bastò come risposta.
Si alzarono e Jim gli propose di prendere in prestito qualcuno dei suoi vestiti, ma alla fine Oswald, dopo un’attenta ispezione del suo armadio, scelse solo un maglione nero e semplice, che decise di indossare con i pantaloni e la giacca del completo della sera prima. Così recuperò il tutto e si chiuse in bagno.
Nel frattempo anche Jim si cambiò, scegliendo uno dei suoi completi neutri e un maglione comodo da mettere al di sotto della giacca. Faceva decisamente freddo in quel periodo, inoltre era mattina presto, il che non aiutava.
Quando entrambi furono pronti uscirono, quindi Jim si mise al volante della sua auto mentre Oswald gli si sedette accanto con una cartina di Gotham in mano.
“Scegli una zona in cui è improbabile che ci riconoscano,” lo invitò Jim, e per Oswald non ci volle molto per nominare alcune delle loro opzioni.
Alla fine, tra queste, scelsero di comune accordo un quartiere multietnico in periferia e Jim diresse l’auto là. Arrivarono in zona dopo circa una mezz’oretta, intenzionati a guardarsi intorno per scegliere dove prendere la colazione.
Tra le tante caffetterie che videro, li attirò particolarmente un locale piccolo e colorato, che aveva sull’insegna una parola impronunciabile che Jim immaginava fosse in tedesco. Parcheggiò poco distante e insieme scesero dal veicolo.
Jim si guardò attorno inspirando a pieni polmoni la freschezza dell’aria di Gotham, in una strada ancora poco trafficata a quell’ora. In giro c’erano giusto un pugno di persone e nessuna di esse li stava osservando, il che fu un sollievo.
“Entriamo?” gli propose Oswald, che sembrava impaziente quanto lui di vivere quella mattinata di apparente normalità.
Jim annuì e si avvicinò con lui alla vetrina della caffetteria, quindi entrò per primo tenendo aperta la porta per Oswald.
Il profumo di caffè li travolse mentre si guardavano attorno, scoprendo il locale ancora più piccolo di quanto sembrasse dall’esterno. Inoltre non c’era nessuno, a parte una barista e un signore che sedeva a un tavolo in un angolo, intento a leggere un libro.
Prima di ordinare guardarono le proposte sul bancone e convennero entrambi che c’erano dei bagel molto invitanti.
“Prendiamo due caffè da portar via,” ordinò Jim, per entrambi. “O forse preferisci del tè?”
“Sì, grazie,” rispose Oswald, sorridendo perché aveva avuto la premura di chiedere.
“Allora un caffè e un tè. E anche due di questi bagel, in due sacchetti diversi.”
Dopo aver ordinato tirò fuori il portafogli per pagare e Oswald cercò di fermarlo dicendo che avrebbe offerto lui, ma Jim non intendeva permetterglielo.
“Potrai offrire tu la prossima volta,” gli disse con un sorriso, al che Oswald arrossì leggermente e ricambiò il sorriso con uno ancora più ampio.
Con la loro colazione tra le mani, tornarono al freddo della strada e si misero a passeggiare parlando del più e del meno. Scoprirono che c’era persino un piccolo parco più avanti, quindi lo esplorarono.
Quando aveva fatto una cosa del genere, l’ultima volta? Barbara non era il tipo, mentre con Lee non c’era mai stato il tempo dato che erano entrambi sommersi dal lavoro.
“Quella caffetteria potrebbe diventare il nostro posto segreto,” disse Oswald, subito dopo aver gettato in un cestino il sacchetto del suo bagel ormai vuoto.
“Già. Chi potrebbe mai cercarci qui?” concordò Jim.
Si sedettero insieme su una panchina e, constatando che nel parco non c’era davvero nessuno, si presero per mano senza timore di essere visti.
Le dita di Oswald erano sottili e si erano raffreddate a causa del gelo di quella mattina. Jim le avvicinò alle sue labbra con l’intenzione di scaldarle un po’ con il suo respiro.
Quando spostò lo sguardo dalle sue dita a Oswald, lo trovò che lo osservava con un’intensità che accese immediatamente in lui il bisogno di baciarlo, e così fece. Fu solo un attimo, un incontro di labbra timide che si univano dopo diverse ore di solitudine.
Dopo averlo fatto, Jim si guardò intorno per assicurarsi che nessuno li avesse visti.
“Non c’è nessuno, James,” gli disse Oswald, e lo tirò a sé per dargli un secondo bacio, indugiando qualche secondo di più sulle sue labbra.
Poco dopo buttarono anche i bicchierini delle loro bevande calde e tornarono alla macchina.
La loro seconda tappa della mattinata era il cimitero di Gotham, per fare visita alla tomba della madre di Oswald.
“Vuoi fermarti a prenderle dei fiori da qualche parte?” gli chiese Jim, quando ormai erano a poca distanza dalla loro destinazione.
“No, non serve. Gliene ho portati alcuni qualche giorno fa, questa volta basterà dargli dell’acqua,” rispose, con una voce calma che non tradiva alcuna tristezza.
Oswald non gli aveva più nominato sua madre dopo la sera in cui aveva preparato il gulash. Adesso ne parlava con più serenità, segno che forse era in una diversa fase del lutto. Sembrava stare meglio, in generale, e lui ne era felice.
Parcheggiò l’auto nel primo posto libero che trovò e aspettò che Oswald scendesse per primo, seguendolo subito dopo. Quel giorno non aveva con sé l’ombrello che gli aveva dato Jim, bensì un bastone decorato dall’aria costosa.
Il detective raggiunse il suo fianco, posizionandosi abbastanza vicino da sentire il suo calore corporeo senza però rischiare di toccarlo, perché quella era una zona di Gotham più rischiosa, per loro, rispetto al quartiere in cui erano stati prima.
La tomba di sua madre, Gertrud Kapelput, tuttavia si trovava in una zona del cimitero più lontana dall’ingresso, inoltre erano quasi le nove perciò eventuali persone presenti dovevano trovarsi a messa nella vicina cappella.
Non c’era nessuno intorno a loro, così Jim, dopo averlo guardato dare l’acqua ai fiori presenti sulla tomba, gli rimase vicino nel caso avesse bisogno di conforto. Ed evidentemente doveva essere così, perché poco dopo Oswald si aggrappò con la mano sinistra al suo avambraccio destro.
“Era una brava donna… Mi ha sempre incoraggiato e sostenuto,” gli raccontò, con lo sguardo fisso sulla sua foto. “Anche nei suoi ultimi momenti ha avuto solo parole gentili per me… Anche se aveva capito che gli affari di cui mi occupo non sono puliti.”
Jim rimase ad ascoltarlo in silenzio, guardando a sua volta l’immagine di sua madre.
“Sono certo che ti avrebbe adorato,” aggiunse e sorrise con aria malinconica.
“Mi sarebbe tanto piaciuto conoscerla,” disse Jim, accarezzando con la mano sinistra quella di Oswald per un breve istante.
“Scusate…” disse loro un uomo che si era avvicinato, e che non avevano notato fino a quel momento, concentrati com’erano a parlare.
Si fecero più in là di un passo per permettergli di passare, ma Oswald non spostò la mano dal braccio di Jim, forse perché in quel momento sentiva davvero il bisogno di quel contatto.
L’uomo sconosciuto aveva l’aria gentile ed era vestito in modo elegante. Portava con sé un mazzo di bellissimi fiori bianchi e lo appoggiò con cura sulla lapide, gesto che fece sorridere Oswald, chiaramente felice che qualcun altro avesse voluto bene a sua madre e le riservasse un pensiero del genere.
“La conosceva?” gli chiese, intavolando una conversazione gentile con quell’uomo che non doveva aver mai visto prima.
“Sì… era da molto tempo che non la vedevo, in realtà. L’ho ritrovata solo dopo il suo funerale, purtroppo,” spiegò con aria rammaricata. “Mi chiamo Elijah Van Dahl. Voi siete suoi parenti?”
“Io sono suo figlio, Oswald Cobblepot,” si presentò, per poi rivolgere uno sguardo smarrito a Jim, che non capì subito cosa volesse dirgli. “E lui è il mio amico James Gordon.”
Ah, ecco cosa. Si era domandato come presentarlo e aveva cercato un segno da parte sua, ma lui non gliene aveva dati. Gli fece un po’ male sentirgli dire che era solo un amico, però capì che era la scelta più prudente. Inoltre, non avevano ancora parlato chiaramente della loro relazione.
L’uomo sembrò sorpreso, confuso forse.
“Quanti anni hai?” gli chiese.
“Trentuno, signore. Perché?”
“Perché Gertrud non me l’aveva mai detto… che ho un figlio.”
Quello che successe dopo accadde molto velocemente. Oswald si commosse alla scoperta che suo padre fosse ancora vivo, e l’uomo gli fece sapere che intendeva accoglierlo in famiglia. Lo invitò con insistenza ad andare subito a casa sua, al che Jim si sentì decisamente il terzo incomodo.
Provò a lasciarli soli, ma il signor Van Dahl insistette dicendo che anche il caro amico di suo figlio sarebbe stato il benvenuto.
Così poco dopo si trovarono entrambi nella sua macchina e poi davanti a un’enorme villa in una zona tranquilla quasi fuori Gotham.
“Sicuro che non ti dispiaccia che io sia qui?” aveva chiesto sottovoce a Oswald, poco prima di entrare.
“Sì, sarei stato troppo agitato a venire da solo,” aveva ammesso lui.
All’interno la villa dei Van Dahl sembrava ancora più grande, e se Jim avesse dovuto descriverla con una sola parola avrebbe scelto opulenta. Ogni mobile o soprammobile su cui posava lo sguardo aveva decorazioni incredibili, per non parlare dei tappeti e dei quadri di famiglia alle pareti.
Era un po’ come Jim immaginava la residenza di una persona di nobili origini.
Anche Oswald sembrò sorpreso da tutto quello sfarzo, perché si guardò attorno con aria assente per un lungo istante.
“Grace! Ho un figlio!” aveva esclamato il signor Van Dahl, e poco dopo il salone all’ingresso si era riempito.
L’uomo era sposato con una bella donna, Grace appunto, che aveva due figli, Charles e Sasha, ovvero i fratellastri di Oswald. Quell’inaspettato incontro al cimitero gli aveva fatto scoprire di avere non solo un padre, ma anche una famiglia, e ciò aveva chiaramente riempito Oswald di gioia e commozione, cancellando la malinconia di poco prima.
Inoltre nel momento in cui aveva scoperto che quello era suo padre, Oswald aveva fatto scivolare via la mano dal braccio di Jim e ora si teneva a qualche centimetro di distanza da lui, cosa che non mancò di notare. Forse non voleva rischiare che leggessero qualcosa in un eventuale contatto fisico tra loro, per paura di non essere accettato dal padre che aveva improvvisamente ritrovato.
Non che Jim non lo capisse, visto che si trattava di un momento delicato, però gli diede un po’ fastidio e desiderò di andarsene, anche per poter impiegare meglio il suo tempo.
Anche se era solo metà mattina, una domestica servì loro del vino e brindarono tutti insieme al ritrovamento di Oswald, dopodiché Sasha gli si avvicinò e gli diede un bacio su una guancia.
Jim sentì i peli della sua schiena rizzarsi per il fastidio, ma strinse i denti e non disse nulla perché non c’era nulla che poteva dire.
Dopo il brindisi si sedettero in salotto, solo loro due e il signor Van Dahl, e qui lui raccontò a Oswald del suo rapporto con Gertrud, di quanto l’avesse amata seppur osteggiato dalla sua famiglia e di come l'aveva persa.
Oswald era commosso, Jim un po’ meno ma era comunque interessato a sentire tutta la storia. Quell’uomo aveva amato davvero sua madre, e fino a quel momento non aveva saputo di aver avuto un figlio da lei.
Anche Jim trovava il racconto toccante, ora che Grace e i suoi figli li avevano momentaneamente lasciati soli a parlare tranquillamente.
Elijah Van Dahl raccontò poi che la sua famiglia aveva un atelier, e che si erano costruiti la loro fortuna dal nulla, lavorando sodo. Era un uomo ricco eppure umile, e ascoltandolo Jim immaginò come sarebbe potuta essere la vita di Oswald, se solo sua madre non fosse stata allontanata dai genitori di lui che non li volevano insieme.
Sarebbe cresciuto con due genitori che lo amavano, in una bella casa dove avrebbe imparato il mestiere di famiglia.
Jim poteva immaginarlo fin troppo bene, guardando loro due insieme e notando come Oswald dovesse aver ereditato lo stile dal padre.
Immaginò che Oswald fosse un sarto anziché un criminale, e di rimanerne comunque affascinato. Forse anche di più, dato che non ci sarebbero stati tutti i problemi relativi ai loro opposti ruoli nella società. Sarebbero stati altre versioni di loro stessi, con meno preoccupazioni e con la possibilità di vivere la loro relazione alla luce del sole.
E pensarci gli provocò una stretta dolorosa al petto.
“Ma dimmi, cosa fai per lavoro, figlio mio?” gli chiese il signor Van Dahl, interessato.
“Sono il proprietario di un club,” gli disse, dopo un attimo di esitazione.
“E tu caro?” domandò a Jim. “E come vi siete conosciuti?” aggiunse poi, spostando lo sguardo dall’uno all’altro.
Erano le prime parole che rivolgevano esplicitamente a lui da quando aveva messo piede lì dentro, perciò Jim si trovò a corto di parole per un istante. Inoltre notò il modo in cui li guardava, come se avesse intuito che non erano soltanto amici.
“Sono un detective, signore, della GCPD,” rispose, dopo essersi schiarito la voce.
“Ci siamo conosciuti…” iniziò Oswald, ma Jim lo vide esitare e perciò decise di intervenire.
“Per lavoro. Ero andato al suo club per dei controlli, ci siamo conosciuti così,” disse.
“Interessante. Che ne dite di fermarvi per pranzo, ormai è quasi ora,” li invitò l’uomo.
La prospettiva di pranzare da solo con Oswald, a casa sua dopo aver cucinato insieme, si infranse. Comunque, Jim decise che lo avrebbe lasciato alle attenzioni di suo padre smettendo di fare il terzo incomodo. Lo trovava più giusto.
“Io temo di dover andare,” disse quindi, alzandosi in piedi.
Oswald gli rivolse un’espressione confusa e Jim poté rispondere solo con un sorriso tirato che voleva trasmettergli il suo dispiacere, ma anche il suo bisogno di andare.
“No, che peccato. Davvero non puoi rimanere un altro po’ con noi?” provò a insistere il signor Van Dahl, ma Jim non intendeva cedere.
“Mi spiace. È stato un piacere conoscerla,” aggiunse, dopodiché si avviò alla porta con l’intenzione di chiamare un taxi.
Aveva da poco chiuso la telefonata quando la porta si aprì alle sue spalle e vide che Oswald lo aveva raggiunto.
“Che succede? Scusa se scappo via,” si affrettò a dirgli, dopo aver confermato che fosse solo.
“Non preoccuparti, vengo con te.”
“Come?”
“Mi dispiace farti andare da solo, dato che avevamo dei piani,” rispose, sorprendendolo.
“Ma… si tratta di tuo padre, vi siete appena incontrati per la prima volta… Sicuro che vuoi venire via con me?” gli chiese, non riuscendo a capacitarsi di quella scelta, anche se lo aveva reso felice.
“Sì, va bene così,” disse Oswald accennando un sorriso. “Gli ho promesso che saremmo tornati domani.”
“Bene. Come, saremmo?” chiese poi, accorgendosi solo in un secondo momento che in quella promessa era compreso anche lui.
“Ha invitato anche te,” gli spiegò Oswald, con una nota di felicità nella voce. “E poi, la tua presenza mi ha tranquillizzato. Non ci conosciamo ancora bene e avere un alleato con me mi dà una sicurezza in più.”
Jim sorrise, colpito. Certo, non gli piaceva l’aria che si respirava in quella casa, la trovava opprimente, e probabilmente avrebbe fatto qualche figuraccia a tavola… Ma sapere che Oswald lo voleva comunque al suo fianco gli fece piacere.
“L’invito è per domani a cena. Ti posso venire a prendere a casa dopo il lavoro, se per te va bene.”
Jim annuì, registrando nella mente l’informazione che si sarebbero rivisti per cenare insieme. Non sarebbero stati soli, ma per il momento decise di non pensarci.
Il taxi li lasciò al cimitero dove poterono riprendere l'auto di Jim e avviarsi verso il suo appartamento.
Qui, dato che non mancava poi molto all'ora di pranzo, si misero a cucinare con quello che c’era già in casa. Quindi Jim si ritrovò a dover tagliare delle verdure, non senza qualche consiglio da parte di Oswald.
Cucinare insieme si rivelò piacevole e mangiare da soli, in tranquillità, fu riposante dopo la mattinata intensa che avevano avuto. Anche Oswald sembrava felice di essere tornato indietro con lui, malgrado non riuscisse a smettere di parlare di suo padre. E Jim era molto felice per lui.
Nel pomeriggio Oswald aveva altri impegni, perciò si salutarono con un bacio e si separarono, con la promessa di vedersi l'indomani.
Dopo un'intensa giornata di lavoro, Jim tornò a casa a farsi una doccia e a cercare il più bel completo che possedeva per non sfigurare a cena.
Quando Oswald lo raggiunse, Jim gli disse di parcheggiare perché avrebbe guidato lui, così non avrebbe dovuto preoccuparsi di niente. Era un gesto da poco, ma Jim era felice di farlo.
Così Oswald salì nella sua auto e partirono.
Anche se erano seduti e praticamente al buio, Jim non poté fare a meno di notare il completo particolare che indossava Oswald, che gli faceva fare davvero una bella figura.
Non disse niente a riguardo, ma quando arrivarono a destinazione e parcheggiò la macchina, Jim non riuscì a trattenere l'impulso di sporgersi su di lui e slacciargli lui stesso la cintura di sicurezza mentre gli dava un bacio.
“James…” sussurrò Oswald, sorpreso, con occhi scintillanti di emozione e le guance leggermente arrossate.
“Che c'è, non posso?” lo provocò, e scese per primo dall'auto.
Dopotutto, una volta in casa non avrebbe più potuto davvero.
La cena alla villa dei Van Dahl si rivelò inaspettatamente piacevole.
La famiglia era tranquilla, e in particolare il padre di Oswald era gentile e affabile. Gli altri tre, Jim non era ancora riuscito a inquadrarli, ma immaginava che avrebbe avuto del tempo.
Dopotutto, per qualche motivo l'uomo aveva voluto anche lui quella sera e qualcosa gli diceva che non sarebbe stata l'ultima volta.
Cercarono persino di includerlo nella conversazione, anche se non sapeva nulla di Gertrud e la sua vita non aveva niente a che fare con quella di Elijah Van Dahl. Anzi, Jim si sentiva estremamente fuori posto lì, seduto a un tavolo con persone ricche a temere di fare una figuraccia anche solo scegliendo la forchetta sbagliata tra le tre che aveva accanto al piatto.
E non voleva fare nulla che rischiasse di mettere in imbarazzo Oswald.
Dopo cena, il detective chiese dov'era il bagno e ci si chiuse per un paio di minuti nel tentativo di riprendere fiato. Era davvero opprimente l'aria lì dentro, per qualche motivo, malgrado Elijah si fosse dimostrato così gentile e accogliente nei confronti di entrambi.
Quando tornò indietro vide che lui e Oswald si erano accomodati da soli in salotto, e si chiese se fosse il caso di intromettersi nel loro momento padre figlio o meno.
“Non sono l’uomo buono che credi, padre…” sentì dire a Oswald, quindi si spostò per non essere visto, curioso di scoprire come sarebbe andata la conversazione.
Pronto, nel caso servisse, a intervenire per aiutarlo.
Il signor Van Dahl non dimostrò alcuna sorpresa né agitazione, anzi gli raccontò la storia di suo padre, controllato da pulsioni negative che lo avevano portato al suicidio.
“Io non posso immaginare cosa tu stia provando dentro di te… ma non lasciare che questi istinti ti controllino,” gli disse, e Jim fu felice di non essersi intromesso perché stavano avendo una conversazione importante.
“Sto… cercando di cambiare,” gli accordò Oswald, e fu la prima volta che Jim glielo sentì dire.
Anche se non gli sembrò così strano, dato come stava gestendo la malavita della città… anche se fondamentalmente sarebbe rimasto al suo vertice.
“Mi fa molto piacere sentirlo. E poi con te c’è James, un amico importante che ti aiuta a percorrere la strada della luce…”
Il detective sgranò gli occhi, sorpreso di essere stato chiamato in causa.
“Sì, non posso negarlo,” rispose Oswald, al che Jim si ritrovò a sorridere.
A quel punto decise che non poteva assolutamente intromettersi né continuare a origliare, perciò tirò dritto per il corridoio e raggiunse la sala da pranzo con la scusa di prendere qualcos'altro da bere. Qui trovò Sasha Van Dahl che gustava da sola un bicchiere di vino.
“Posso?” le chiese, e lei gli fece segno di sedersi sulla sedia accanto alla sua.
“Non ho ancora capito cosa ci fai tu qui, James Gordon,” disse la giovane, mentre lui si versava due dita di vino, giusto per bagnarsi la bocca.
“Cosa intendi dire?” le chiese, volendo vagliare le sue intenzioni.
Anche lui sapeva di non c’entrare niente in quell’ambiente, né con la loro famiglia, ma era stato invitato. Perché lei lo sottolineava, se era stato suo padre a volerlo in casa?
“Solo che sei un intruso nelle nostre riunioni di famiglia,” andò dritta al punto, per poi portarsi il bicchiere ricolmo alle labbra. “Anche il mio nuovo fratello, non capisco come sia possibile che abbia un amico come te.”
Dopo averlo detto lo guardò dall’alto in basso.
Jim si era impegnato per vestirsi bene quella sera, ma sapeva di non essere comunque all’altezza. Gli abiti di quella famiglia erano di alta sartoria, probabilmente tutti quanti provenivano dal loro atelier, mentre lui aveva indossato un completo costoso, acquistato in passato facendo dei sacrifici, apposta per un’occasione che lo richiedeva… e non era minimamente alla loro altezza. Ma non vedeva perché quella donna dovesse farglielo notare.
“Vuoi forse entrare anche tu nelle grazie di mio padre, per avere un pezzo della sua eredità?” ipotizzò, e quando allungò un braccio per posare la mano sul ginocchio destro di Jim lui rabbrividì.
Sasha gli rivolse un sorriso furbo, ora più vicina di prima.
“Non funzionerà,” aggiunse, iniziando a tracciare dei cerchi con il dito sul tessuto dei suoi pantaloni.
Jim le afferrò il polso e le fece spostare la mano, intenzionato a non permetterle più di prendersi una confidenza simile.
Qualcuno si schiarì la voce e voltandosi Jim vide che la signora Van Dahl era comparsa sulla porta. Teneva le braccia conserte e li fissava stando appoggiata allo stipite, ma quando entrambi posarono lo sguardo su di lei fece due passi in avanti entrando nella stanza.
“Sasha, il vino è migliore se gustato in compagnia, a tavola,” la rimproverò, al che la giovane posò il bicchiere ormai vuoto. “Detective Gordon, ciò che mia figlia voleva dire è che questi sono momenti privati della nostra famiglia. Lei non è altri che uno sconosciuto, un intruso in casa nostra. E non potremmo mai vivere i nostri rapporti familiari con spontaneità, finché lei resta qui.”
Anche se le sue parole lo avevano infastidito, insieme al tono di superiorità che aveva usato, Jim capiva che c’era un senso in ciò che aveva detto, perciò si alzò in piedi con l’intenzione di andarsene.
“Ha ragione, signora. Mi scuso per essermi trattenuto troppo,” si forzò a dire, quindi tornò in corridoio per avvisare Oswald che stava andando via.
Parlando da solo con le due donne, però, aveva avuto conferma di una cosa, ovvero che nessuno di loro sembrava sapere chi avessero appena accolto in casa. Possibile che vivere nella periferia più estrema di Gotham, in una bolla di sfarzo e ricchezza, li avesse portati a non sentir mai parlare di Pinguino?
Per quanto avesse dell’incredibile, Jim credeva che fosse un bene. Era giusto che Oswald avesse l’opportunità di ottenere il loro affetto facendosi conoscere in prima persona, anziché facendo parlare per sé il suo ruolo e le sue malefatte.
“Rieccoti James,” gli disse con aria felice, quando lui varcò la porta del salotto. “Mio padre ci ha appena invitati a fermarci per la notte.”
Sorpreso, Jim rivolse lo sguardo al signor Van Dahl.
“La ringrazio, ma purtroppo io non posso. Domattina devo svegliarmi presto per andare al lavoro,” specificò, alludendo al fatto che la villa fosse molto lontana. “Oswald, tu non farti problemi per me e resta,” lo esortò, notando che sembrava esserci rimasto un po’ male.
“Oh, va bene allora,” rispose con dell’incertezza nella voce, ma sembrava felice all’idea.
Dopotutto, Jim era rimasto con lui e gli aveva fatto da alleato, come aveva voluto, ma ora aveva preso confidenza con il padre e poteva fare a meno di lui. Non serviva che facesse più la parte dell’intruso in casa loro.
Inoltre, per quanto voleva che la storia con Oswald durasse, si frequentavano da circa un mese e gli sembrava inopportuno diventare una presenza fissa nella vita dei suoi familiari. Era giusto così.
“È un vero peccato James. Spero che ci rivedremo presto,” gli disse Elijah Van Dahl, e Jim annuì con un sorriso anche se non era certo che sarebbe successo.
“Grazie per la cena, signor Van Dahl. Auguro la buonanotte a entrambi,” li salutò, si diresse alla porta e poi alla sua auto.
Era stato previdente prendere la sua macchina per andare lì, in questo modo non avrebbe dovuto chiamare nuovamente un taxi.
Gli dispiacque separarsi da Oswald, ma lo sapeva felice e in buone mani, perciò gli andava bene così. L’indomani gli avrebbe scritto un messaggio per chiedergli com’era andata.
“Jim, possiamo parlare un momento?”
Il detective sollevò lo sguardo dai documenti che stava compilando, relativi a un caso che lui e Harvey avevano appena risolto, e lo fece con una sensazione di deja vu. Davanti a lui c’era Leslie Thompkins, che senza aspettare risposta gli fece segno di seguirla.
Jim sospirò e scambiò uno sguardo infastidito con il suo partner prima di alzarsi e andare da lei, che si era fermata in un angolo appartato della sala.
“Che succede, Lee?” le chiese, sperando che non riguardasse ancora il loro rapporto, e di poter tornare presto a concentrarsi su questioni importanti.
“Riguarda Kristen Kringle,” disse, e Jim corrugò la fronte, confuso. “Pare che non abbia ritirato il suo ultimo stipendio. Posso capire che sia voluta scappare con il suo ex, o che abbia voluto cambiare aria, ma non questo. Mi fa pensare che non voglia essere rintracciata, o che le sia successo qualcosa.”
“Eravate così amiche?” le chiese Jim, prima di tutto, perché non si aspettava quell’interessamento da parte di Lee.
“No ma sono comunque preoccupata. Potresti indagare un po’ a riguardo? Giusto per assicurarti che vada tutto bene…”
Jim sospirò piano, ma annuì. In effetti anche lui avrebbe avuto dei sospetti, se questi erano i fatti.
“Va bene, vedrò cosa posso fare,” le accordò, decidendo però che avrebbe rimandando la questione a un momento in cui sarebbe stato più libero.
Quel giorno, verso l’ora della pausa pranzo, si ritrovò ad aver finito le cose urgenti da fare, perciò uscì insieme ad Harvey per raggiungere il solito diner.
Dopo aver ordinato, Jim scrisse un messaggio a Oswald per chiedergli come fossero andate le cose, e non ricevendo risposta cercò di concentrarsi sui racconti di Harvey.
“Aspetti un messaggio da qualcuno?” gli chiese il suo amico, avendo notato che Jim continuava a controllare il cellulare.
Avevano quasi finito di mangiare ormai, e ancora niente. Doveva preoccuparsi? No, sicuramente, ma non poteva fare a meno di chiedersi il perché di quell’attesa. Di solito Oswald era sempre molto svelto a rispondergli.
Però capiva anche che forse si trovava ancora con suo padre, e quindi era probabile che non stesse prestando attenzione al telefono.
“Già, ma niente di urgente,” rispose, poi diede un altro morso a ciò che rimaneva del suo panino.
“Deduco che le cose stiano andando bene,” commentò il suo collega, e Jim decise di non confermare né smentire.
Poi il suo telefono suonò e lui lo afferrò prontamente, sorpreso che Oswald lo stesse chiamando.
“Scusa, devo rispondere,” annunciò, alzandosi.
“Vai pure,” disse Harvey sollevando una mano, mentre Jim lo superava per uscire fuori dal locale, dove avrebbe potuto parlare liberamente.
“Pronto? Va tutto bene?” chiese subito, stranito dal fatto che lo avesse chiamato anziché rispondere al suo messaggio.
“Non proprio, Jim,” disse Oswald, la voce carica di qualcosa che lui non riuscì subito a definire.
E sentendolo così Jim avrebbe voluto dirgli che stava per andare da lui, ma non poteva. Presto sarebbe dovuto rientrare al lavoro.
“Cos’è successo?”
“Mio padre sta morendo, Jim… È malato, prima ha avuto una crisi…”
A Jim si strinse il cuore. Lui e suo padre si erano appena conosciuti, e adesso aveva scoperto che stava per perderlo... Doveva essere straziante.
“Di cosa si tratta?”
“Una malattia al cuore. Dice di avere un buco nel petto… Prende delle medicine per tenerlo a bada, ma non hanno più molto effetto ormai…”
“Mi dispiace tanto,” disse il detective dopo qualche secondo di incertezza, non trovando parole migliori. “Sei ancora a casa sua?”
“Sì, ma sto per andare via. Mi sono trattenuto anche troppo, i miei sottoposti si staranno chiedendo che fine ho fatto… Però ho lasciato il mio numero per ogni evenienza, e anche il tuo nel caso non riuscissero a mettersi in contatto con me.”
“Hai fatto bene.”
“Tornerai qui con me, domani a cena? Io prima non posso, ma sento di dover passare con lui tutto il tempo possibile… per conoscerlo, prima che sia troppo tardi…”
Aveva la voce rotta dal dolore, perciò Jim accettò senza pensarci, incurante del fatto che Grace gli avesse detto che non era il benvenuto. Se a Oswald serviva sostegno, lui glielo avrebbe dato. E visto che aveva appena superato il lutto per sua madre… sì, sicuramente gli serviva sostegno.
Si salutarono con la promessa di sentirsi più tardi, dopodiché Jim tornò a sedersi al suo tavolo.
“Che succede, Jimbo? Hai una faccia da funerale. Non dirmi che sei stato appena scaricato…”
“No, non è questo,” rispose, e decise che si sarebbe potuto aprire con lui, senza entrare nei dettagli. “Qualche giorno fa ho conosciuto suo padre, e adesso si è appena saputo che è molto malato.”
“Mi dispiace, Jim. Dev’essere un brutto periodo,” gli disse Harvey, stranamente comprensivo anziché ironico.
“Sì, lo è. Torniamo al lavoro,” annunciò.
Tanto Harvey aveva già finito di mangiare e lui non aveva più appetito.
La sera dopo arrivarono alla villa dei Van Dahl separatamente. Oswald aveva finito prima con i suoi impegni, mentre Jim era stato costretto a rimanere al lavoro più a lungo del solito, tanto che aveva avvisato Oswald che non ce l’avrebbe fatta per cena, quindi sapeva di trovarlo già lì.
Ad aprirgli la porta fu Olga, la domestica della famiglia che sembrava non parlasse la loro lingua, e che gli indicò il salotto. Jim si incamminò a passo sicuro, rallentando solo quando si accorse che all’interno stava avvenendo una discussione concitata.
“..il Pinguino!” sentì dire da Grace, e vide che aveva in mano un giornale e lo stava mostrando a Oswald e al signor Van Dahl. “Abbiamo accolto in casa nostra un criminale!”
“Avrebbe potuto stuprarci nel sonno!” aggiunse Sasha, stringendosi alla madre, mentre Charles restava in silenzio accanto a loro.
Jim venne percorso da un brivido freddo. Per quanto potesse immaginare che si preoccupassero nello scoprire chi era il figlio ritrovato di Elijah, ciò di cui lo stavano accusando era agghiacciante e non aveva fondamenti.
Vide Oswald alzarsi e sollevare timidamente lo sguardo su di loro e su suo padre, e nei suoi occhi non lesse collera bensì profondo rammarico.
“Per la cronaca, non ho mai stuprato nessuno,” specificò.
“Come se cambiasse le cose!” tuonò Grace, agitando la pagina di giornale.
“Grace, cara, non c’è bisogno di agitarsi tanto,” intervenne il signor Van Dahl, con una calma genuina e rassicurante.
La donna disse qualcos'altro, ma Jim non ci fece caso perché il suo sguardo incontrò finalmente quello di Oswald.
“James…” disse a mezza voce, quindi lui si decise ad avvicinarsi mentre anche tutti gli altri si voltavano nella sua direzione.
“Detective Gordon! Cos’ha da dire a riguardo?” esclamò la signora Van Dahl, rivolgendo il giornale nella sua direzione.
Come se Jim non leggesse il Gotham Gazette, e non avesse già visto un articolo risalente a un mese prima. Un articolo in prima pagina, dove si vedeva Oswald e la scritta “Pinguino ricercato per l’omicidio del sindaco Galavan”.
“Dico che hanno scelto una bella foto,” butto lì, per smorzare i toni.
Vide Oswald abbassare lo sguardo e cercare di nascondere un sorriso, mentre l’attenzione degli altri rimaneva fissa su di lui. E Grace sbottò di nuovo.
“Lei dovrebbe arrestarlo, è un criminale!”
“E con quali accuse? Sentite, quell’articolo è storia vecchia, il vero colpevole è stato arrestato e non c’è più alcun sospetto al carico di Oswald,” spiegò, sperando che questa volta si calmassero.
Che lui fosse a capo della malavita di Gotham era cosa risaputa, ma finché teneva in riga le bande, e soprattutto finché agiva in modo pulito senza destare sospetti, c’era ben poco che la GCPD potesse fare.
“Lo avete conosciuto in questi giorni, e intendo per com’è davvero. Siete la sua famiglia, potete pure preoccuparvi ma non vi farebbe mai del male,” aggiunse, e dopo averli guardati a turno rivolse lo sguardo a Oswald.
Sembrava commosso e persino fiero di ciò che aveva detto in quel momento. Jim gli sorrise e desiderò che fossero soli, per poterlo stringere a sé e fargli sentire tutto il suo sostegno.
Alla fine Grace lasciò la stanza indignata, seguita dai suoi figli, e loro tre rimasero soli nel salotto.
“Grazie, James,” gli disse Oswald, appoggiando una mano sulla sua spalla destra e accarezzandola con il pollice.
Jim gli sorrise e frenò l’impulso di appoggiarci sopra la sua mano sinistra per far intrecciare le loro dita.
“Sì, grazie James,” disse anche il signor Van Dahl, rivolgendogli un sorriso sincero. “Hai difeso mio figlio, sei proprio un buon amico.”
“Ho solo detto la verità, signore.”
“Vieni, siediti con noi. Vuoi che dica a Olga di portarti qualcosa da mangiare?”
“Grazie ma non serve, ho cenato mentre finivo di lavorare,” rispose.
La serata proseguì serena, tra chiacchiere spensierate. Jim notò come l’uomo sembrasse un po’ più debole rispetto a come lo aveva trovato i giorni prima, ma non lo vedeva così male quanto aveva creduto.
Li ascoltò raccontare di quando, il giorno prima, Elijah aveva iniziato a confezionare un completo per Oswald, nel suo atelier. Jim si dimostrò interessato a vederlo e l’uomo gli promise che sarebbe successo, ma solo dopo averne terminata la realizzazione.
Anche quella sera lui gli offrì di fermarsi a dormire, ma Jim dovette rifiutare, più perché si sarebbe sentito a disagio che per altro. Anche Oswald disse che non poteva fermarsi quella volta, ma promise di restare un po’ di più.
Fu proprio lui ad accompagnare Jim alla porta e qui, lontano da sguardi indiscreti, lo ringraziò ancora con occhi carichi di emozione e gli diede un bacio veloce.
L’indomani al lavoro Jim aveva molte cose per la testa. Prima fra tutti un nuovo caso, ma anche la cena a casa Van Dahl fissata per quella sera. Stava diventando un’abitudine, proprio quando lui e Oswald avevano iniziato ad approfondire il loro rapporto, e quando Jim era giunto alla conclusione di non doversi intromettere nei suoi momenti in famiglia.
Ma se Oswald voleva la sua compagnia, e suo padre si ostinava a invitarlo, allora non poteva farci niente.
Inoltre Grace e i suoi figli non gliela raccontavano giusta. Comunque, se la loro era davvero solo preoccupazione perché avevano ospite in casa un criminale, allora forse la presenza di Jim li avrebbe rassicurati.
Quella sera il signor Van Dahl ebbe una crisi mentre parlavano in salotto, loro tre da soli. Lui e Oswald lo aiutarono a salire fino al piano di sopra, ma quando arrivarono fuori dalla sua stanza Grace spinse Jim perché lasciasse il braccio del marito e posò il vaso trasparente che aveva in mano per sostenerlo lei, dicendo anche a Oswald di farsi da parte.
Jim rivolse a lui il suo sguardo, addolorato nel vederlo fermo fuori dalla porta, con aria affranta e impotente. Poi notò il vaso che Grace aveva lasciato su un tavolino del corridoio, colmo di piccole pillole bianche. Ma guardandole bene non sembravano né pillole né compresse, anche se Jim non poteva dirsi un esperto di ogni medicinale esistente.
“Queste sono le sue medicine?” chiese sottovoce a Oswald, che alle sue parole si riscosse e si voltò verso di lui.
“Ah, sì! Forse dovrei portarle a Grace,” disse, ma prima che potesse farlo Jim allungò una mano verso il vaso.
Senza annunciare le sue intenzioni lo aprì e ne prese in mano una, certo che i coniugi Van Dahl non lo stessero vedendo. Il suo istinto di detective gli imponeva di indagare, di togliersi il dubbio che quelle fossero davvero medicine e non veleno.
“Che cosa fai?” gli chiese Oswald, corrugando la fronte.
“Niente, voglio solo farla analizzare al laboratorio della GCPD, capire cosa gli danno per curare la sua malattia,” buttò lì, il che sembrò convincere Oswald, quindi fece scivolare la pillola nella tasca della sua giacca.
L’indomani quando arrivò al lavoro, come prima cosa cercò Lee, perché la spiacevole sensazione che aveva avuto quando aveva visto quelle pillole non l’aveva ancora abbandonato.
“Mi serve che analizzi questa, il prima possibile,” le chiese, consegnandogliela inserita in una bustina per le prove, direttamente nel suo laboratorio.
Lee osservò prima la pillola e poi lui, con aria poco convinta.
“È per un caso?” gli chiese.
“No, è una questione personale,” ammise, sperando che lei volesse aiutarlo comunque. “È importante e urgente, ho bisogno di questo favore.”
“Va bene Jim, ti saprò dare risposte intorno all’ora di pranzo,” annunciò, prendendo la bustina e posandola sulla sua scrivania insieme ad altre cose. “Tu hai iniziato a cercare Kristen?”
Jim doveva ammettere di essersene dimenticato, con tutte le cose che erano successe.
“Inizio subito,” annunciò, e uscì a passo spedito dal suo ufficio.
Sulla strada per raggiungere la sua scrivania vide Edward Nygma e decise di chiedere subito a lui, pensando che doveva essere un buon punto di partenza per capire che fine avesse fatto. Dopotutto, erano stati insieme anche se per un breve periodo, e Jim non aveva altre idee sul modo in cui iniziare quell’indagine, per il momento.
“Ed, hai un momento?” gli chiese, e il tecnico si fermò e gli rivolse la sua attenzione.
“Certo, detective Gordon,” rispose, accennando un sorriso a mezza bocca dei suoi soliti.
“Chiamami Jim, ci conosciamo da tanto ormai,” gli chiese.
Non andava particolarmente d’accordo con Edward, ma lo trovava competente nel suo lavoro e quindi affidabile. Inoltre erano stati persino a cena insieme una volta, Jim con Lee e lui con la signorina Kringle, il che li rendeva più che semplici colleghi.
E poi c’era quella volta in cui Jim si era svegliato ferito nel letto di Ed, e come prima cosa aveva visto lui e Oswald che suonavano il pianoforte e cantavano insieme… No, quell’episodio non voleva ricordarlo, dato che non sapeva ancora spiegarlo a se stesso.
Era stato sempre nell’appartamento di Edward che loro avevano preparato l’attacco alla villa di Galavan, anche se il tecnico non era presente in quel momento, e poi Oswald non glielo aveva quasi più nominato.
Quasi. Perché forse loro due erano ancora amici, anche se Jim non sapeva quanto avrebbe apprezzato il fatto che lui tirasse in ballo l’argomento, dato che Oswald era un noto criminale… e quindi non disse niente a riguardo, decidendo che non gli serviva saperlo.
“Si tratta di Kristen Kringle, sto cercando di capire dove sia finita.”
L’espressione sul viso di Nygma si rabbuiò, e Jim poté capirlo dato che si trattava della sua ex.
“È scappata con l’agente Dougherty, lasciandomi solo un biglietto,” tagliò corto il tecnico, stringendo a sé la cartellina che aveva in mano.
“Mi dispiace per come ti abbia trattato, Ed. Te lo sto chiedendo solo perché pare che non abbia ritirato il suo ultimo stipendio, il che è sospetto. Per caso hai tenuto il suo biglietto? Posso vederlo?”
“Temo di non averlo conservato,” rispose Edward, e la loro conversazione a riguardo terminò così.
Prima della pausa pranzo Jim e Harvey dovettero uscire per delle indagini, e quando tornarono era tardi perciò presero degli hotdog e li mangiarono entrando alla centrale. Tempo di finire il pasto e buttare via le cartacce che Lee raggiunse la scrivania di Jim a passo sicuro, e appena fu arrivata ci lanciò sopra la pillola che le aveva dato quella mattina, ancora avvolta nella bustina per le prove.
“È una mentina, Jim. Contento? Ma ora dimmi, perché mi hai fatto sprecare così il mio tempo?”
Jim guardò prima lei e poi la mentina, sentendosi impallidire.
“Cazzo,” esclamò a denti stretti, e afferrò il cellulare con l’intenzione di chiamare subito Oswald.
Un istante dopo vide che gli sguardi confusi di Lee e Harvey erano fissi su di lui, così capì che non poteva fare subito quella telefonata. Per dirgli cosa, poi? Avrebbe dovuto pesare bene le sue parole, ma sapeva che in ogni caso lui avrebbe reagito male, e forse avrebbe scatenato la sua furia su Grace e i suoi figli.
E per quanto capisse che quella donna andasse fermata e punita, doveva pur esserci un altro modo, un modo che non implicasse lasciarla alle attenzioni di Pinguino mentre lui era bloccato al lavoro.
Quindi mise via il telefono intenzionato a rifletterci e a parlargli di persona, quella sera.
“Che succede, Jimbo? Sembra una cosa seria…” disse Harvey, dando voce a quelli che dovevano essere anche i pensieri di Lee.
“Già, ma è qualcosa di cui non posso parlare. Grazie, Lee,” le disse, rivolgendole lo sguardo, e lei ne sembrò colpita.
“Beh, se serve una mano sai a chi rivolgerti,” aggiunse Harvey, e Jim annuì perché apprezzava davvero l’offerta.
Però era qualcosa di cui doveva occuparsi da solo, dopo aver discusso con Oswald. Sperava solo che non succedesse niente mentre lui era lì, altrimenti non se lo sarebbe mai perdonato.
Quella sera chiese ad Harvey se poteva ultimare lui le scartoffie e uscì dal lavoro prima, consapevole che Oswald doveva trovarsi già a casa Van Dahl. Guidò fino a lì con una strategia in mente, anche se non sapeva come l’avrebbe presa lui. Ma visto che Jim era coinvolto, non voleva che agisse con mezzi illegali.
Parcheggiò e si avviò verso l’ingresso, sorprendendosi quando trovò Oswald proprio lì, che parlava con qualcuno al telefono picchiettando nervosamente il bastone sui gradini esterni.
“...tu sei un caro amico, ma se osi toccarlo sappi che ti ucciderò con le mie mani, a costo di finire arrestato!” lo sentì dire, con una ferocia nella voce che non gli sentiva dai tempi in cui Galavan era ancora vivo.
Poi si accorse di Jim e sgranò gli occhi.
“Oh, James,” disse, in un tono decisamente più dolce ma anche incerto, e chiuse la chiamata senza salutare il suo interlocutore.
“Problemi al lavoro?” gli chiese.
“S-sì…” rispose Oswald, aumentando la stretta sul manico del bastone. “Se non li tieni in riga, quelli credono di poter fare ciò che vogliono… Comunque, sono contento che tu sia arrivato presto. Vieni, entriamo.”
“Aspetta, prima vorrei parlare con te in privato,” gli disse, e gli fece segno di seguirlo fino a una panchina poco distante.
“Va tutto bene?” gli chiese Oswald dopo essersi seduto, e lui poté leggere la preoccupazione nel suo sguardo.
Jim esitò.
“Riguarda tuo padre e quella pillola che ho portato via con me ieri,” iniziò, non rispondendo in modo diretto alla sua domanda ma confidando che avrebbe capito. “Vorrei che tu mi ascoltassi con calma, senza reagire troppo male.”
Oswald non disse nulla e Jim capì che stava già immaginando lo scenario peggiore. Il detective gli prese entrambe le mani nelle sue.
“Vorrei che tu chiamassi il dottore e gli chiedessi di visitare di nuovo tuo padre. Che gli chiedessi di valutare l’ipotesi che non abbia mai preso le medicine, e di riformulare la sua terapia in base a questo, se possibile.”
“Mi stai dicendo… che quelle non sono medicine?” gli chiese Oswald, con gli occhi lucidi e l’espressione stravolta dal dolore.
Jim gli accarezzò delicatamente le dita con le sue.
“Già… erano mentine,” rivelò, consapevole che sia lui che Oswald avevano visto Grace dargliele spacciandole per medicinali, e aspettandosi una reazione esagerata da parte del criminale.
“Grace…” sibilò lui, a denti stretti. “Quella strega lo sta lasciando morire.”
“Lo credo anche io,” concordò Jim. “Vorrei che stasera convincessi tuo padre che sia il caso di chiamare il medico, perché vuoi avere un aggiornamento sulle sue condizioni… dato che ultimamente è peggiorato, magari puoi usare questa scusa.”
“Io la uccido,” dichiarò invece Oswald, la furia ancora ben riconoscibile nella sua voce.
“Non puoi, è la moglie di tuo padre.”
“Ma lo sta lasciando morire!”
“Lo so,” concordò Jim, spostando una mano per accarezzargli la guancia sinistra, sperando di riuscire a farlo calmare. “Ma la situazione è delicata. Ho le prove di ciò che sta facendo, potremmo denunciarla e verrebbe arrestata, oppure come hai detto potresti ucciderla, e poi? Per tuo padre sarebbe un grande dolore, dal quale potrebbe non riuscire più a riprendersi.”
A quelle parole Oswald si riscosse inspirando rumorosamente.
“Jim… Perché mi sta capitando questo?” gli chiese, e sentendo il suo tono di voce credette che stesse per piangere.
Lui gli si avvicinò di più e gli diede un bacio all’angolo della bocca, indugiando con la mano sulla sua nuca per accarezzargli i capelli.
“Ci penso io a Grace, va bene? Possiamo risolverla senza che tuo padre sappia niente… e poi dovremo fare buon viso a cattivo gioco, ma sarà per il suo bene. Credi di farcela?”
Oswald strinse i denti, ma alla fine annuì.
“Posso provare,” gli concesse, e dopo essersi alzato si strofinò gli angoli degli occhi con le dita, anche se Jim non aveva visto alcuna lacrima sfuggirgli.
Erano arrossati però, un osservatore attento avrebbe potuto notarlo.
“Restiamo ancora un attimo qui, possiamo tornare dentro quando ti sentirai meglio,” gli propose, alzandosi a sua volta.
“No, non riesco a stare fermo. Forse posso far arrivare il medico prima di cena,” dichiarò, determinato, e si avviò per primo all’ingresso seguito subito da Jim.
“Oswald, rieccoti. E vedo che con te c’è anche James,” li salutò suo padre, quando varcarono la soglia del salone.
“Salve signor Van Dahl, salve a tutti,” disse Jim, fingendo che andasse tutto bene.
“Padre, possiamo parlare da soli un momento?” gli chiese Oswald, e Jim poteva vedere che per lui fosse decisamente difficile recitare con tutta quella rabbia dentro, pronta a esplodere.
“Certo, figliolo,” gli rispose l’uomo con un sorriso, alzandosi per seguirlo di buon grado.
Prima di lasciare la sala, Oswald rivolse a Jim un’occhiata intensa, carica di parole non dette.
Quindi Jim spostò la sua attenzione su Grace.
“Signora Van Dahl, permette due parole, in cucina?”
“Credo che io e lei non abbiamo niente di cui discutere,” rispose, con fare disinteressato.
“Potrei sorprenderla,” ribatté, e finalmente lei si decise a seguirlo, lasciando da soli i suoi figli.
“Cosa vuole, detective Gordon? Penso di averle fatto capire che è solo un intruso in casa mia, soprattutto se non intende arrestare Oswald Cobblepot,” disse, pronunciando con astio il suo nome.
Anziché risponderle, Jim prese dalla tasca la mentina che aveva fatto analizzare da Lee.
“La riconosce questa, signora Van Dahl?” chiese, e la vide sbiancare. “L’ho presa dove tiene le medicine di suo marito e l’ho fatta analizzare dai miei colleghi della GCPD.”
“Sì, e allora?” chiese lei, forse credendo che il suo fosse un bluff.
“Non mi prenda in giro, sappiamo entrambi che è solo una mentina.”
“Con quale diritto è venuto a ficcare il naso in casa mia?” esclamò lei, alzando la voce tanto che se ci fosse stato qualcuno in corridoio l’avrebbe sentita, ma evidentemente non le importava.
“Con quale diritto sta lasciando morire un uomo malato?” sottolineò di rimando Jim, mantenendo basso il tono. “Senta, questa storia finisce adesso. Potrei farla arrestare, e con lei anche i suoi figli probabilmente, ma non voglio causare un dolore al signor Van Dahl.”
“Cosa sta suggerendo, detective?” chiese lei, con gli occhi assottigliati e la mano stretta sull’angolo del bancone.
“D’ora in poi ci occuperemo io e Oswald di dare le medicine a suo padre. Lui non saprà nulla, così potrà vivere il tempo che gli resta serenamente, circondato da una famiglia che crede lo ami.”
La donna scosse la testa e gli rivolse un sorriso amaro, ma non disse niente.
“Ma sappia, signora Van Dahl, che quando arriverà il triste momento della sua morte, fosse anche dopo due ore di jogging sotto al sole, chiamerò i miei colleghi della scientifica ad esaminare il corpo, e se non risultasse una morte naturale lei sarebbe la prima sospettata. Sono stato chiaro?” tuonò, e questa volta la vide cambiare atteggiamento, sgranare gli occhi e rimanere impietrita.
“Cobblepot lo sa?” chiese poi, prima che Jim potesse aggiungere altro.
“Oh, certo che lo sa. Badi bene, signora Van Dahl, di non tentare più nessuna mossa stupida nei suoi confronti, o in quelli di suo padre… Perché è vero quello che ho detto l’altro giorno, voi siete importanti per Elijah e quindi Oswald non vi farebbe del male… ma la sua pazienza è molto sottile. Adesso si ricomponga e torni di là, a comportarsi come se nulla fosse,” ordinò, e la donna non se lo fece ripetere due volte.
Rimasto solo in cucina, Jim cercò degli alcolici e trovò del vino. Se ne versò mezzo bicchiere e lo buttò giù tutto d’un fiato, per darsi la forza di affrontare la serata che lo attendeva.
Quando tornò di là scoprì che Oswald aveva già chiamato il medico, e il signor Van Dahl sembrava felice che suo figlio si interessasse del suo stato di salute, per quanto non trovasse affatto necessario farsi visitare.
La visita avvenne poco dopo, nella sua camera da letto, e questa volta Grace non osò nemmeno avvicinarsi, preferendo restare in salotto. In compenso Oswald rimase con lui, e quando il medico uscì dalla stanza, lontano dalle orecchie di Elijah, loro due gli esposero i dubbi che avevano riguardo alle medicine. Dubbi, perché avevano deciso di tenere segreta la verità che avevano scoperto.
Il dottore ne fu sconvolto, e subito cambiò la terapia lasciando tutto quanto appuntato su un foglietto.
“Se vedi altre di quelle finte medicine in casa, buttale,” disse Jim, quando lui e Oswald furono nuovamente soli. “Io vado subito a comprare queste,” aggiunse, con la prescrizione del medico in mano.
E detto questo se ne andò senza nemmeno salutare il signor Van Dahl, perché comunque era intenzionato a tornare presto.
La cena, quella sera, fu caratterizzata da un’atmosfera diversa dal solito.
Innanzitutto, se le volte precedenti Oswald e Jim erano stati fatti sedere lontani l’uno dall’altro, quasi ad alternarsi con gli abitanti della villa, questa volta Grace aveva disposto che Oswald si accomodasse tra lui e suo padre.
Agli occhi del detective, lo fece per paura per sé e per i suoi figli, e non poteva biasimarla.
Oswald trascorse la cena a cercare di nascondere la rabbia, ma si poteva leggere nei suoi movimenti meno aggraziati, soprattutto quando tagliava la carne che aveva nel piatto. Quando però parlava con il padre, o gli rivolgeva lo sguardo, riusciva in qualche modo a fingere che tutto fosse perfettamente normale.
Quando invece a parlare era Grace, anche se non lo fece mai direttamente con lui, la rabbia montava visibilmente in lui. A quel punto Jim, grato di essere seduto al suo fianco, posava momentaneamente la forchetta per pulirsi la bocca con il tovagliolo usando la mano sinistra… ma in realtà gli stava prendendo la mano da sotto il tavolo, con la destra, per dargli una stretta delicata e carica di incoraggiamento.
Era di certo una prova dura, quella a cui era stato sottoposto. Grace voleva suo padre morto e lui doveva fare finta di niente per non provocargli un dolore. Proprio lui, l’attuale signore del crimine di Gotham, che avrebbe potuto scatenarle contro un esercito.
Ma era la scelta giusta e Jim sperava che ne fosse consapevole.
Dopo la cena, un po’ come succedeva spesso, i membri della famiglia si dispersero e loro tre si spostarono in salotto. Per un breve momento suo padre si allontanò, e allora Jim poté parlare liberamente con Oswald.
“Come ti senti?” gli chiese, aggrappandosi al suo braccio destro e accarezzandolo con il pollice della sua mano sinistra.
“Meglio, adesso che Grace e gli altri se ne sono andati, ma cenare con loro è stata una tortura,” rispose dopo aver rilasciato un sospiro.
“Stai facendo la cosa giusta,” sottolineò, e Oswald smise di guardare la porta oltre cui era sparito suo padre per rivolgere lo sguardo a lui.
“Se non ci fossi tu, probabilmente avrei già fatto una strage,” ammise, e suo malgrado Jim accennò un sorriso.
“Posso immaginare come ti senti,” disse solo, e Oswald gli sorrise.
“Forse stai avendo un effetto positivo su di me…” ipotizzò, appoggiando una mano sopra alla sua.
“L’effetto durerà anche quando sarò andato via?” gli chiese Jim, con leggerezza.
“Credo proprio di sì.”
Suo padre tornò in salotto perciò loro misero fine a quel breve contatto.
Poco dopo Jim dichiarò che sarebbe andato via, e Oswald disse lo stesso, decidendo inaspettatamente di non fermarsi a dormire lì per quella sera.
“Il medico ti ha cambiato la terapia, padre, e questa volta ha incaricato me di darti le medicine. Te le do e poi vado,” annunciò, anche se l’uomo era dispiaciuto all’idea di doversi salutare subito.
“Devo fidarmi a lasciarli così?” chiese Oswald a Jim, appena ebbero varcato la porta d’ingresso. “Cosa hai detto a Grace?”
“L’ho minacciata. Non farà più nulla, le ho detto che in caso contrario l’arresterò. Sembra che abbia funzionato.”
Oswald sorrise, chiaramente sollevato da un peso. Si accordarono per tornare a casa con la macchina di Jim, lasciando lì quella di Oswald perché poteva sempre farsi accompagnare alla villa da un sottoposto.
Quindi Jim guidò fino all’Iceberg Lounge, dove Oswald era atteso.
“Ormai non mi faccio quasi più vedere in orario di apertura… Non va bene,” aveva condiviso con lui. “Per caso vuoi entrare a bere un drink? Possiamo sederci in un posto appartato, oppure direttamente nel mio ufficio.”
“Perché no,” rispose Jim, e lo lasciò all’ingresso per poi andare a cercare parcheggio.
Il club di Oswald non era affollato quel giorno, forse perché si riempiva soprattutto al venerdì o nel weekend, o forse rimaneva comunque un posto relativamente tranquillo. Jim non lo aveva frequentato abbastanza spesso da saperlo, anzi era solito passare in orario di chiusura proprio per vedere lui.
Le luci erano soffuse e sul palco c’era una ragazza che cantava da sola. Aveva una bella voce, ma i clienti non sembravano particolarmente interessati a lei, che finiva per fare solo da sottofondo.
Jim individuò Oswald vicino al bancone, stava dando delle direttive al personale.
“Eccoti qui, Jim,” gli disse, quando lo vide. “Prendiamo da bene? Preferisci stare qui o vuoi che andiamo nel mio ufficio?”
“Se devi tenere d’occhio le cose qui, restiamo pure,” rispose.
In realtà gli sarebbe piaciuto rimanere solo con lui, perché non succedeva da molto tempo. Inoltre nel locale, anche se avessero scelto un divanetto appartato, non sarebbero passati inosservati. Il proprietario, boss della malavita, che prende un drink con un detective…
Avrebbero potuto fingere che quello fosse un appuntamento normale, senza però toccarsi, ma gli altri li avrebbero sicuramente notati.
Oswald gli sorrise, e ora che era tornato nel suo ambiente Jim lo vide più sereno, con gli occhi accesi da emozioni positive.
“Andiamo nel mio ufficio, ho la mia scorta personale,” disse, sorprendendolo.
Così il detective lo seguì al piano di sopra, dove c’erano solo due uomini a fare da guardia all’ufficio del capo. Vedendolo arrivare, si scostarono e loro poterono entrare, per poi richiudere subito le porte alle loro spalle.
Oswald andò dietro alla scrivania, aprì un mobile e ne estrasse un decanter e due bicchieri. Dopo averli appoggiati prese i documenti disposti accuratamente in delle pile e li spostò altrove, perché potessero bere senza intralci.
“Accomodati pure,” lo invitò, e versò un bicchiere di liquore prima a lui.
Jim si sedette e lo assaggiò scoprendo che si trattava di scotch. Proprio ciò che ci voleva dopo quella lunga giornata.
Oswald allungò una mano sopra il tavolo per prendere la sua e far intrecciare le loro dita, attirando tutta l’attenzione di Jim su di lui.
“Mi sei mancato in questi giorni, James,” gli disse, guardandolo negli occhi. “So che ci siamo visti spesso, ma non abbiamo avuto quasi nessuna occasione per stare da soli… Ed è questo che mi è mancato davvero.”
“Sei mancato molto anche a me,” ammise Jim, che non pensava di trovare un’occasione per dirglielo.
Oswald aveva conosciuto suo padre, era felice, era giusto che volesse passare del tempo con lui. Soprattutto sapendolo malato e con poco tempo ancora da vivere. Per questo Jim aveva capito di non poter pretendere nulla, e alla fine aveva tratto gioia anche dalle serate passate con lui in quella casa.
“La mattina che abbiamo trascorso in giro… Ci ho ripensato spesso in questi giorni, e mi sembra che sia stata solo un bellissimo sogno,” continuò Oswald, abbassando lo sguardo.
Jim capiva cosa intendeva. Si erano potuti vedere alla luce del sole e anche per lui era stato incredibile.
“Potrebbe essere una tradizione da mantenere,” buttò lì, e fu felice di vederlo sorridere all’idea.
“Stai suggerendo di rifarlo ogni domenica?”
“Se non abbiamo altri impegni, perché no. Potremmo svegliarci persino più presto, per avere più tempo per noi,” suggerì, man mano che ci rifletteva.
“Mi piacerebbe molto,” disse, poi diede una stretta leggera alla sua mano prima di lasciargliela e bere un sorso di scotch.
Subito dopo si alzò e fece il giro della scrivania. Jim credette che stesse per sedersi accanto a lui, sull’altra poltrona, invece se lo ritrovò a cavalcioni sopra di sé.
Lo baciò e Jim fu travolto da una passione bisognosa, felice che Oswald avesse preso l’iniziativa, perché pensava di essere l’unico a sentire una tensione nell’aria e a voler cercare il contatto.
L’istante dopo si aggrappò alla sua schiena per tenerlo meglio contro al suo corpo, ma Oswald emise un gemito lamentoso che gli fece capire di doversi fermare.
“Okay, forse non è la posizione migliore a cui potevo pensare,” dichiarò, e Jim capì che probabilmente si riferiva alla sua gamba.
“Scusami,” gli disse, mortificato per aver agito senza pensare. “Adesso ti sollevo, va bene?”
Dopo averlo detto lo fece, ma giusto un attimo per poterlo liberare da quella posizione, per appoggiarlo sull’altra poltrona situata davanti alla scrivania.
“Va meglio adesso?” gli chiese, ancora chinò su di lui.
“Sì, molto meglio,” rispose.
Jim portò la mano destra sulla sua guancia e gli diede un altro bacio, con più calma questa volta. La consapevolezza di avergli fatto male aveva fatto scemare l’ondata di desiderio travolgente, ma aveva ancora voglia di premere le labbra sulle sue.
Anche Oswald non doveva avere niente da ridire, perché ricambiò i baci con una tenerezza che fece tremare Jim.
In poco tempo era diventato davvero molto importante per lui… Era da non crederci.
“Hai fatto così tanto per me, in questi giorni…” sussurrò Oswald, sulle sue labbra.
“Non dirlo nemmeno,” rispose Jim per poi dargli un altro bacio.
“Sono serio. Senza di te, non so cosa sarebbe successo,” aggiunse, ma il detective lo baciò ancora zittendolo.
Andarono avanti così per chissà quanto, ma quando Jim iniziò a sentirsi confuso capì che era ora di fermarsi e si sedette a sua volta.
“Forse dovrei andare. Si è fatto tardi e domattina lavoro,” disse, più a sé stesso che a Oswald.
“Vorrei che non fosse così,” ribatté Oswald, e Jim annuì perché, per un lungo istante, aveva pensato proprio la stessa cosa.
Purtroppo a casa dovette tornarci davvero, e quando ci arrivò ormai era molto tardi. Ebbe giusto il tempo di fare una doccia veloce e di mettersi a letto, dove presto crollò addormentato.
L’indomani Jim si svegliò con un’idea folle in testa.
Si vestì e mangiò un toast al volo, quindi uscì diretto al lavoro ma prima si fermò a un ferramenta. Gli consegnò la sua chiave di casa e attese il tempo necessario perché ne facesse una copia, quindi pagò e si rimise in auto.
Una volta arrivato e raggiunta la sua scrivania, essendo presto, iniziò a rigirarsi quella nuova chiave tra le mani.
L’aveva fatta per Oswald, dato che il tempo per vedersi da soli scarseggiava. Ma con quella chiave… chissà. Inoltre rappresentava un passo importante, ma si sentiva pronto di farlo. Prima di tutto, però, dovevano mettere in chiaro quale fosse la natura della loro relazione.
Magari gliela avrebbe regalata dopo aver comprato una catenina a cui attaccarla, o forse non avrebbe resistito e gliel’avrebbe data subito.
Smise di pensarci solo quando arrivò Harvey, così per non sembrare sospetto la mise via e iniziò a dedicarsi al lavoro.
Era quasi l’ora di pranzo quando scese al piano di sotto per archiviare i documenti relativi a un caso e trovò la stanza deserta, così posò i fogli sulla scrivania.
“Jim, permetti una parola?” gli chiese Edward Nygma, che lo aveva seguito. “Riguarda ciò che mi hai chiesto l’altro giorno.”
Jim ci mise un paio di secondi a capire a cosa si riferisse, ovvero alla fuga di Kristen Kringle. E trattandosi di questo, il suo collega gli sembrò un po’ troppo allegro.
“Certo,” gli disse, anche se nella sua testa aveva già messo da parte quell’indagine.
“Siediti Jim, l’archivista è già andato in pausa,” lo invitò, e Jim decise di stare al gioco nella speranza che quella conversazione durasse il meno possibile.
“Quanto alla lettera di addio lasciatami dalla signorina Kringle, non ho più quel foglio, ma ne ho trovato uno altrettanto interessante,” dichiarò, mentre prendeva un pezzo di carta accuratamente piegato dalla tasca del suo camice, dopodiché iniziò a leggerlo ad alta voce: “Mio caro James. Mi scuso per non averti salutato, ma sono dovuto partire presto e non ho voluto interrompere il tuo riposo.”
A quelle parole il detective si sentì sbiancare, perché capì esattamente di quale biglietto si trattasse.
“I miei uomini sono venuti a prendermi a un isolato di distanza-”
Interruppe la lettura mentre Jim si alzava e allungava una mano per prendere il foglio, ma il tecnico tirò indietro il braccio per impedirglielo.
“Non così in fretta, Jim. Hai riconosciuto la lettera, vedo…” commentò, con un sorriso che Jim avrebbe voluto togliergli a suon di schiaffi.
“Sei entrato in casa mia?” sbottò a denti stretti, incredulo.
“Sì,” rispose Edward, dopodiché rise. “Forse dovresti smettere di tenere la chiave di riserva sotto a un vaso di fiori secchi.”
“Ridammelo, non ti riguarda!” gli ordinò, decidendo di sorvolare sul resto.
“Oh, io invece ho un’idea migliore. Lo terrò, per ogni evenienza. Dopotutto, si tratta dell’unica prova del fatto che tu abbia ospitato Pinguino a casa tua quando era ricercato per l’omicidio di Galavan, oltre che della vostra relazione. Molto romantico,” commentò, dopodiché rise di nuovo.
“Perché lo fai?” gli chiese ancora Jim, sconvolto nel vedere questo lato del suo collega.
“Perché in questo modo dovrai smettere di indagare sulla scomparsa della signorina Kringle. Altrimenti questo bigliettino finirà sulla scrivania di Barnes, e lui sarà molto contento di poter collegare sia te che Pinguino alla morte del nostro amato sindaco.”
“Non te la farò passare liscia,” sbottò Jim, che adesso sentiva davvero la rabbia montargli dentro.
Edward Nygma gli rivolse uno sguardo di sufficienza, per niente turbato.
“Detective, ti consiglio di riflettere bene sulle tue opzioni, perché tu perderesti in ogni caso. Se qualcuno mi collegasse alla scomparsa della signorina Kringle, il mio parere di tecnico della GCPD verrebbe messo in discussione e molti casi verrebbero riaperti. Tra questi… ops, anche quello sulla morte di Galavan,” sottolineò, divertito. “Sono stato io a fare il secondo controllo e a trovare le prove che a ucciderlo è stato Gilzean. Ma chissà, forse un terzo controllo non avrebbe lo stesso esito…”
“Bastardo,” poté dire solamente Jim, a denti stretti.
Edward fece spallucce.
“Allora, detective, stai al gioco? Abbandona la tua indagine e possiamo entrambi dimenticarci che tu e Pinguino avete ucciso il sindaco insieme. Per non parlare della vostra relazione… Solo così potremo tornare ognuno alle proprie vite, senza preoccupazione alcuna.”
“Non era nemmeno un’indagine ufficiale. Ti ho fatto delle domande solo perché Lee era preoccupata per lei!” precisò, arrabbiato per la piega assurda che avevano preso le cose.
“Oh, che pensiero premuroso da parte della dottoressa Thompkins. Beh, direi che potrai inventarti qualcosa di convincente da dirle a riguardo. Allora, siamo d’accordo?”
Jim emise una specie di ringhio rabbioso a denti stretti. Nygma lo aveva in pugno, che gli piacesse o meno. E dire che aveva già dimenticato la signorina Kringle e non aveva più pensato di cercarla dato che non aveva alcuna pista.
E ora Edward si era dichiarato colpevole di averla fatta sparire, qualsiasi cosa ciò significasse, ed era arrivato a minacciare Jim per essere lasciato in pace.
“Sì,” disse alla fine, con la voce resa bassa dalla rabbia trattenuta.
Ancora una volta il suo collega rise, mentre riponeva il bigliettino in una tasca.
“Bene, ne ero sicuro. Buona giornata detective Gordon,” lo salutò, e si avviò per primo su per le scale.
Rimasto solo, Jim batté un pugno sulla scrivania dell’archivista, nel vano tentativo di sfogare la rabbia.
“Dannazione!” sbottò.
Era stato fregato, il suo collega si era rivelato un criminale e adesso lo aveva in pugno.
Jim era stato nervoso per tutto il giorno, ma aveva evitato le domande di Harvey a riguardo e in qualche modo era arrivato alla fine della giornata lavorativa.
E se una parte di lui avrebbe voluto starsene a casa a riflettere sulla questione, un’altra - molto più pressante - pretendeva che andasse a parlare con Oswald subito.
Si era calmato, prima della fine del suo turno, e la rabbia era scemata anche se il fastidio era rimasto.
Se c’era una cosa che Jim non voleva assolutamente, era diventare un poliziotto corrotto. Ce n’erano già troppi, e lui li odiava profondamente. Per questo era stato felice quando Barnes era diventato il capo della polizia e aveva dato inizio al suo primo giorno cacciandoli dal distretto.
Quando Jim aveva ucciso Galavan, però, aveva avuto un momento di debolezza - del quale, doveva ammettere, non si pentiva, perché credeva ancora di aver fatto giustizia. Anche riguardo alla sua relazione con Oswald, si sentiva ancora nel giusto perché camminava su una linea sottile. Adesso che Nygma lo aveva in pugno, però, si sentiva ampiamente oltre la linea, sporcato e condannato.
E per quanto avrebbe potuto fare finta di niente e continuare con la sua vita, il bisogno di sapere di cosa si fosse sporcato era troppo forte.
Così, prima di uscire dalla sede della GCPD, mandò un messaggio a Oswald per sapere se fosse al Lounge. Era venerdì e Jim non sapeva di nessuna cena a casa dei Van Dahl, perciò poteva immaginarlo solo al suo club.
Quando Oswald glielo confermò, Jim decise di avvisarlo con un altro messaggio.
“Sto arrivando, ho bisogno di parlarti.”
Dopo averlo fatto uscì senza più alcuna esitazione e raggiunse la sua macchina.
Durante il viaggio pensò che forse il messaggio che gli aveva mandato poteva fargli pensare al peggio, ma ormai era troppo tardi. Gli ci volle un po’ per arrivare a destinazione, nelle strade trafficate di gente che usciva dal lavoro o che andava a divertirsi.
Trovò il club un po’ più affollato rispetto alla sera prima, ma ringraziò che l’ambiente fosse ancora vivibile. In ogni caso, non vedendo Oswald da nessuna parte salì al piano di sopra dove i suoi uomini lo lasciarono entrare tranquillamente nell’ufficio, segno che era lì e lo stava aspettando.
“Jim,” gli disse lui, che si trovava seduto dietro la sua scrivania.
Il detective chiuse le porte e gli si avvicinò.
“Oswald, scusa se sono piombato qui all’improvviso ma non posso aspettare.”
Dopo averlo detto si accorse che il sorriso di Oswald tradiva della preoccupazione, e ricordò il testo del messaggio che gli aveva inviato.
“Non riguarda noi,” specificò, dopodiché prese posto su una delle poltroncine.
“Oh! Bene…” rispose Oswald con un sospiro, il sollievo che gli si leggeva in faccia e il sorriso adesso genuino. “Dimmi pure, se posso esserti d’aiuto ne sarò felice.”
Dopo averlo detto allungò una mano verso di lui, tenendo il braccio appoggiato alla scrivania, allora Jim sollevò un braccio per raggiungerla e far intrecciare le loro dita. Le osservò per un attimo, ponderando le sue prossime parole. Non aveva pensato a come mettergli giù la faccenda, solo di dover chiedere a lui per togliersi il pensiero.
“Oggi, al lavoro, Edward Nygma mi ha minacciato.”
“Cosa?” chiese Oswald, spalancando la bocca.
“È entrato nel mio appartamento e ha preso il biglietto che mi avevi lasciato prima di andartene, quando ti ho ospitato.”
L’espressione sul viso di Oswald si indurì, mentre abbassava lo sguardo e sembrava riflettere sulla cosa.
“No, lui non avrebbe dovuto farlo…” rispose, e per qualche motivo Jim pensò che non fosse troppo turbato dalla notizia.
“Tu… lo sapevi?” gli domandò, sciogliendo l’intreccio delle loro dita e ritraendo la mano.
“Certo che no!” esclamò Oswald, ma gli rivolse un’espressione dispiaciuta. “Ecco, i-io sapevo che aveva in mente una qualche mossa ai tuoi danni, ma gli ho detto di non osare.”
Jim sgranò gli occhi e si appoggiò allo schienale della poltrona, sconvolto.
“Perché non me l’hai detto? Avrei potuto prendere delle precauzioni…”
“Perché io rappresentavo le precauzioni,” ribatté Oswald con ferocia, lo sguardo fisso nel suo. “Gli ho detto che lo avrei ucciso se avesse osato!”
Ascoltandolo, a Jim tornò in mente la sua telefonata che aveva ascoltato il giorno prima, fuori dalla villa dei Van Dahl.
“A lui ci penso io, Jim.”
“Non voglio che tu lo uccida,” dichiarò con fermezza il detective, corrugando la fronte.
“Non lo farò. Lo considero un amico, o almeno era così fino ad ora.”
“Anche Butch Gilzean però era un tuo amico,” buttò lì Jim, perché in effetti non ci vedeva ancora giusto sul perché avesse sacrificato proprio lui.
“Butch era un fottuto traditore! Sin dal principio, stava dalla mia parte perché Don Maroni aveva voluto che Zsasz gli facesse il lavaggio del cervello!” sbraitò, sfogando tutta la rabbia che evidentemente provava ancora verso di lui.
Ci fu un momento di silenzio tra loro, dopodiché Oswald si ricompose e si passò una mano sulla fronte, come se fosse stanco.
“Scusa Jim, non intendevo urlare. Comunque, con Ed posso parlare io,” ripeté, con un tono di voce molto più calmo adesso.
“Te ne sarei grato, ma non sono qui per questo. Voglio sapere cos’ha fatto.”
Dopo averglielo sentito dire, Oswald sgranò gli occhi.
“Non l’hai scoperto?”
“No… Ma gli ho fatto delle domande su Kristen Kringle, è questo che l’ha fatto scattare,” spiegò, perché evidentemente anche Oswald non sapeva perché Nygma ce l’avesse con lui.
Oswald si schiarì la gola e appoggiò entrambe le mani sulla scrivania. Jim, guardandolo, comprese che stesse prendendo tempo.
“Non credo che dovrei essere io a dirtelo. Insomma, la cosa non mi riguarda,” commentò, a sguardo basso.
“Oswald…” disse Jim, con un tono di voce deluso che rifletteva il suo stato d’animo.
“Dico sul serio, Jim. Con cosa ti ha minacciato? Renderà pubblico il mio biglietto se non smetti di indagare?”
“Lo darà a Barnes,” specificò con un sospiro. “Dice che se continuo a indagare Barnes avrà il biglietto e ci condannerà tutti e due per l’omicidio di Galavan.”
Oswald corrugò la fronte, lo sguardo di nuovo basso sulle proprie mani.
“Ma se decido di indagare comunque… è probabile che trovi qualcosa che lo incastri per la sparizione della Kringle, il che comporterebbe la riapertura dei casi di cui si è occupato, e quindi verremmo incriminati lo stesso.”
“Ed ha una mente geniale, non c’è che dire. Peccato che in entrambi i casi finisce male per noi due,” constatò, con un sorriso tirato che non nascondeva del tutto la sua rabbia.
“Già…” concordò Jim a denti stretti. “Ma perché questa reazione? È davvero un amico, o… c’è stato qualcosa tra voi?” si costrinse a chiedere, per togliersi tutti i dubbi.
Oswald sgranò gli occhi.
“Non c’è mai stato niente più dell’amicizia tra me e Ed, te lo garantisco,” ribatté, al che Jim rimase in silenzio ancora un istante, a riflettere sulla sua risposta.
L’immagine di loro due che cantavano insieme nell’appartamento del tecnico ancora gli tornava in mente, ogni tanto.
Vedendolo così dubbioso a riguardo, Oswald gli rivolse un sorriso che voleva essere rassicurante.
“Edward mi ha aiutato in un periodo in cui ero l’ombra di me stesso. Mia madre era appena morta e io non avevo più alcuno stimolo… Lui diceva di volere la mia consulenza, ma per farmi collaborare ha dovuto prima rimettermi in sesto. Mi ha fatto capire che potevo essere più forte, non avendo niente da perdere ormai.”
Jim annuì, cercando di immaginare quello scenario. E ora, finalmente, sapeva come quei due fossero diventati amici.
“Perché mai voleva la tua consulenza?” gli chiese poi, sollevando un sopracciglio.
Oswald fece ondeggiare la testa prima a destra e poi a sinistra prima di rispondere, forse chiedendosi cosa fosse il caso di dirgli.
“Perché aveva ucciso qualcuno, ma a questo probabilmente c’eri già arrivato da solo.”
E in effetti era proprio così, ma Jim voleva sentirselo dire chiaramente.
“Stiamo parlando della Kringle?”
“Jim… Sei sicuro di volerlo sentire davvero?” gli chiese Oswald, in un tono calmo come se la cosa non lo riguardasse. “Considera le tue opzioni. Non puoi comunque indagare sul suo conto, allora a che ti serve saperlo?”
“Mi serve per capire in cosa mi sono invischiato,” insistette, in un tono di voce più duro di quanto avrebbe voluto.
“O-okay…” rispose Oswald, togliendo le mani dalla scrivania e allontanandosi di poco con la schiena. “Però io resto dell’idea che ti faresti del male senza motivo.”
“Non ha importanza,” insistette, abbassando lo sguardo.
“Io cercherò di farmi ridare la lettera, però non troveresti comunque nessuna prova per incriminarlo. Ha fatto sparire tutto quanto, o ve ne sareste accorti molto prima,” disse Oswald, e sentire quelle parole gli fece male, anche se Jim fin lì c’era già arrivato.
“Voglio sapere comunque chi è davvero Nygma e cosa sto coprendo,” sottolineò, intenzionato a chiudere la questione.
Oswald sospirò, poi riportò le mani sulla scrivania, ma non cercò più quelle di Jim.
“Va bene, allora. Ti accontento…” iniziò, e attese un istante prima di continuare. “Ed ha ucciso un tuo collega, l’agente che frequentava la signorina Kringle, per proteggerla… E poi ha ucciso anche lei, ma per errore.”
“Per… errore?” ripeté Jim, inorridito.
Aveva ucciso ben due persone e si trattava in entrambi i casi di colleghi!
“Sì, pare che stessero litigando e che lui abbia stretto il suo collo un po’ troppo...”
Jim storse le labbra, disgustato. Ecco chi era davvero Edward Nygma, ovvero la persona che lui stava coprendo sotto minaccia. Ora sapeva di cosa si stava sporcando.
“Non ci posso credere…” commentò con sdegnò, avvertendo il fastidio crescere in lui.
Nygma si era persino divertito a tenerlo sotto scacco, il che gli fece pensare che non fosse pentito delle sue azioni, anzi che ci provasse gusto a far stare male gli altri.
Si alzò in piedi di scatto facendo rumore con la poltrona, e Oswald sobbalzò.
“Jim, non serve reagire così male. Anche se lo sai, non c’è niente che tu possa fare a riguardo, e per la lettera intendo pensarci io,” gli disse, alzandosi in piedi ma rimanendo dal suo lato della scrivania.
“Mi fa incazzare che uno come lui sia ancora là fuori, e sia persino intoccabile,” sibilò a denti stretti, arrabbiato con Nygma ma anche con sé stesso, per non essersi accorto di niente fino a quel momento.
“Jim… Sai che io ho fatto di peggio,” disse improvvisamente Oswald, una nota incerta nella voce, e il detective tornò voltato verso di lui. “Qual’è la differenza?” chiese piano, quasi avesse paura di sentire la sua risposta.
Jim corrugò la fronte mentre il dolore della consapevolezza gli attanagliava il petto.
“La differenza è che io provo qualcosa per te, dannazione. È solo questo!”
“Ma non serve avercela con te stesso. Non hai colpe e non puoi farci niente davvero,” sottolineò, preoccupato.
“Già, è vero che sono impotente… ma forse dovrei riconsiderare tutto quanto,” constatò con più calma, abbassando lo sguardo.
“In che senso, Jim?”
“Mi serve del tempo per riflettere,” dichiarò, dopo un attimo di esitazione.
Alzò lo sguardo su Oswald solo per un istante e lo vide sconvolto. L’istante dopo, Jim aveva già aperto la porta e si era precipitato fuori dal club, intenzionato a mettere al più presto della distanza tra lui e quel posto.
Note di quella che scrive
Sono tornata subito con il seguito di Permure tra sospettati, e personalmente questa che avete appena letto è la mia parte preferita di questa breve serie. In questo caso mi sono chiesta: cosa sarebbe successo se, al fianco di Oswald durante la faccenda dei Van Dahl, ci fosse stato anche Jim?
Il prossimo capitolo sarà l'ultimo e arriverà molto presto! Nel frattempo, sarei curiosa di sapere cosa ne pensate.