L’equilibrio sopra la follia
Tordesillas, 1520
Chiusa nella sua cella, la donna si stava preparando per coricarsi.
Aveva un rituale, Giovanna. Ogni sera, dopo aver cenato, si levava un vecchio e sudicio abito corvino, ornato di pizzi e merletti, che non le donava affatto, si infilava una camicia da notte bianca di fine lino e si sedeva davanti a uno specchio, unica concessione che le era stata lasciata per illuderla di poter conservare intatta la sua inequivocabile bellezza.
Davanti a quel vetro, che sera dopo sera rifletteva l'immagine sempre più stanca di una regina mai proclamata, la donna prendeva una spazzola e per un tempo indefinito si pettinata i lunghi capelli rossi. La consuetudine si concludeva col raccogliere le ciocche in una lunga treccia, legata da un nastro di colore lilla. Mentre le piccole dita bianche si muovevano tra i fini capelli ramati, Giovanna scrutava il suo riflesso nello specchio e, come nei lunghi silenzi che avvolgevano le sue giornate, meditava.
Chi ogni giorno aveva costantemente contatti con lei la credeva pazza, completamente fuori di senno, ma la realtà era tutt’altra. La regina stava solo aspettando il momento giusto, l’occasione perfetta per dimostrare al mondo quanto valesse e quanto suo padre si sbagliasse sul suo conto.
Ciò che Giovanna vedeva ogni sera riflessa nello specchio, attraverso due iridi azzurre e pure come il suo animo, era una donna fin troppo intelligente, colta e bella per essere stata lasciata a marcire per anni in quella cella.
Giovanna si guardava allo specchio e meditava.
Sarebbe venuto il giorno in cui avrebbe avuto la sua riscossa.
Toledo, 1487
“Giovanna, suona qualcosa per intrattenere i nostri ospiti”.
La voce di sua madre le giunse all’orecchio come un ronzio fastidioso. Quel brutto vizio materno di ostentarla in pubblico le era sempre risultato estremamente difficile da sopportare.
Si era messa in un angolo della sala, seduta su una poltroncina in velluto rosso, vicino a una grande finestra che dava sul cortile. La posizione che aveva scelto era tattica: in fondo alla sala c’erano meno possibilità di essere notata. Si era presa un libro dalla biblioteca e, sperando di confondersi con il ricco arredo o semplicemente di mimetizzarsi con la tappezzeria, si era seduta in disparte a leggere.
Tutto inutile.
A suo sfavore giocava un fattore non trascurabile: il suo abito. Confezionato da un famoso sarto italiano e fatto arrivare apposta per quell’occasione era di un verde smeraldo, che brillava di luce propria, abbondantemente arricchito da ricami oro. Era decisamente impossibile che l’abito e chi lo indossava passasse inosservato.
Un filo di perle circondava il collo della bambina che, mentre leggeva, presa com’era da quell’interessantissima vicenda, non faceva altro che arrotolare le perle sulle dita, per poi rilasciarle e ricominciare da capo.
Quando sua madre la chiamò, Giovanna alzò lo sguardo sopra al bordo del libro e socchiuse gli occhi in uno sguardo severo.
Com’era possibile che si fosse ricordata di lei?
Eppure, si era messa in quel cantuccio apposta per non dar fastidio a nessuno o meglio, perché nessuno desse fastidio a lei.
E invece.
“Avanti, Giovanna, non farti pregare!”, insistette la madre.
La bambina richiuse il libro di malavoglia. Saltò giù dalla sedia e, con tono scocciato, rispose:
“Oui, oui, j'arrive, j'arrive…”
Si avviò al pianoforte a coda e picchiettò per qualche secondo dei tasti a caso, in cerca della musica adatta da suonare per allietare la serata ai presenti, ma soprattutto a sua madre.
Poi, tutto a un tratto, si mise dritta, mani sulla tastiera e iniziò a ‘deliziare’ tutti con la sua bravura.
Mentre le piccole dita della bambina si avvicendano sui tasti, il re si avvicinò discreto alla moglie e, senza farsi notare, le sussurrò all’orecchio:
“La marcia funebre?”
La donna serrò indispettita i denti, quasi a farli scricchiolare. Era del tutto evidente il suo sconcerto e la sua rabbia verso quella figlia così ribelle e a volte così volutamente fuori dagli schemi che le erano stati insegnati, che non era il caso di sottolineare altro. Doveva immaginare, quando l’aveva sentita borbottare in francese, che le avrebbe fatto pagare il disturbo che le aveva dato, distraendola dalla lettura.
Quando la musica terminò, per gran sollievo di tutti, la regina esplose in un fragoroso quanto liberatorio applauso.
“Grazie, Giovanna, per questa magnifica esecuzione!”, disse mostrandosi entusiasta.
“Ora prego, venite, inizino le danze!”
Tutti si appropinquarono al centro della sala e, formate le coppie iniziarono a ballare.
La regina, assistita dal marito, si avvicinò discretamente alla figlia, tornata a leggere il suo libro nell’angolo della sala.
L’intento era quello di sgridarla, per il suo inappropriato atteggiamento, ma, per evitare una delle imprevedibili scenate di Giovanna, preferì suggerirle di andare a continuare la lettura in camera sua.
Alla bambina si illuminò il viso.
Scese dalla sedia, fece un inchino ai genitori e, senza dire nulla, si ritirò nella sua stanza.
Terminato il libro, vennero le dame a cambiarla per mandarla a dormire. La misero a letto, ma lei, appena rimasta sola, come ogni sera si alzò, si sedette davanti allo specchio e a lungo si pettinò i lunghi capelli rossi.
Quel rituale le serviva.
Fissando il riflesso di se stessa si mise a meditare su quanto accaduto quella sera.
Sicuramente i suoi genitori l’avrebbero reclusa per chissà quanto tempo.
Constatò che qualsiasi punizione sarebbe stata ingiusta, visto che non aveva fatto nulla di male.
Depose la spazzola sul tavolino e con le piccole dita bianche si intrecciò i capelli, per poi chiuderli con un nastro lilla.
Si dipinse in volto un sorrisetto divertito, prima di iniziare a ridurre in piccole strisce il lenzuolo di lino del suo letto. Passò tutta la notte a tagliare e intrecciare fino a che non ottenne una corda sufficientemente lunga da permetterle fughe diurne e notturne dalla finestra della sua camera.
Fu il mattino seguente che la bambina ebbe la sua ramanzina.
Fu convocata di buon’ora dai genitori direttamente nella sala del trono.
Entrò e si posizionò davanti a loro con aria più interrogativa che contrita.
“Giovanna, sai perché sei qui?”, le chiese il padre con tono bonario.
“Ehm… no?”, rispose sincera la bambina.
“Giovanna, non fare la finta tonta. Perché ieri sera eri così mal disposta? Chissà cosa avranno pensato i nostri ospiti!”, la redarguì la madre.
“Non ero maldisposta, mi avete chiesto di suonare e io l'ho fatto!”, rispose pacatamente.
“La marcia funebre, Giovanna? Non avevi in mente qualcosa di più consono all’occasione?”, domandò il padre cercando di mantenersi calmo.
La bambina rimase in silenzio per qualche istante mordicchiandosi il labbro inferiore e poi, candidamente rispose:
“No, mi è venuta in mente solo quella”.
A quel punto il re si sporse leggermente verso la moglie, che sedeva sul trono al suo fianco e si consultò sottovoce, per non farsi sentire dalla figlia. Dopo qualche istante, fu la madre ad alzarsi in piedi e a pronunciare la sentenza:
“Giovanna, tuo padre e io pensiamo che devi andare a confessarti e chiedere perdono per i tuoi sbagli”.
La bambina incupì lo sguardo e chiuse i pugni lungo i fianchi, poi urlò un decido e irremovibile ‘no’.
“Cosa? Ma che insolenza! Devi andare a confessare i tuoi peccati, solo così Dio ti perdonerà”, insistette la madre adirata.
“No, non ci vado. Io non ho fatto nulla di male, non ho niente da farmi perdonare. Siete voi che dovreste andare a chiedere perdono, non si pronuncia il nome di Dio invano”.
A quelle parole la regina spalancò la bocca esterrefatta. Quella piccola irriverente doveva essere punita.
“Allora vorrà dire che starai confinata nella tua camera per i prossimi due mesi e non potrai partecipare più ad alcuna festa!”.
“Come desiderate”, constatò la bambina prima di fare un inchino e uscire dalla sala.
Ma mentre la regina gongolava soddisfatta della sua dimostrazione di autorità, il re si accasciò sul trono inquietato dallo strano sorriso che sua figlia aveva accennato, pensando di non essere notata, poco prima di accomiatarsi.
Che la punizione impartitale fosse esattamente ciò che voleva? Il re ripromise a se stesso che quella punizione, prima o poi, Giovanna l’avrebbe seriamente scontata.
Bruxelles, 1497
Quando Giovanna era in camera da letto con suo marito Filippo, il mondo fuori dalla porta spariva.
A nessuno dei due importava che tutti li sentissero mentre, con sfacciata inosservanza del senso del pudore, godevano di amplessi prolungati e decisamente molto frequenti.
Filippo era giovane e tanto bello che chiunque si riferisse a lui lo appellava con questo soprannome. Quando Giovanna lo vide la prima volta se ne innamorò subito. Aveva sedici anni e, pur di cambiare qualcosa nella vita che le veniva imposta ogni singolo giorno, aveva accettato di buon grado di sposare un uomo che nemmeno aveva mai visto.
La fortuna, o il destino, volle che quel giovane le piacesse fin da subito.
E il piacere non poté altro che essere reciproco.
Filippo, detto ‘il Bello’, quando incontrò Giovanna ne rimase folgorato.
Si sposarono in pochi giorni e le prime inesperienze a letto si trasformarono in pochi mesi in ricerca di un piacere sempre più intenso, vivo, da far conoscere al mondo.
Giovanna godeva del fatto che i muri del palazzo avessero orecchie, che le sue dame di corte origliassero le sue urla e i suoi gemiti al di là della porta. Godeva di tutto ciò perché sapeva di provocare invidia, perché Filippo era suo e solo lei aveva il diritto di farsi possedere da lui.
Questo Giovanna pensava perché era troppo giovane, innamorata e ingenua per sapere che forse, se durante gli incontri amorosi con il suo amato Filippo avesse adoperato una maggiore discrezione, avrebbe potuto evitare che si diffondessero le voci.
Le dame origliavano e poi ridacchiavano; i sorrisetti maliziosi rivolti a Filippo aumentavano e giorno dopo giorno le signorine si consigliavano e organizzavano su come spartirsi l’ambito bottino.
Un bene così prezioso non poteva appartenere a un’unica donna, anche se questa era la sua legittima sposa.
Fu così che le pretendenti si misero ad aspettare l’occasione giusta, il momento più opportuno per passare con Filippo una sola notte che le avrebbe portate in paradiso.
Le occasioni non tardarono ad arrivare. Giovanna nei primi undici anni di matrimonio rimase incinta sei volte. Partorendo un figlio ogni due anni, erano molti i periodi che doveva trascorrere in tranquillità.
Fu in occasione della nascita del loro quarto figlio, Ferdinando, che le cose iniziarono a cambiare. La coppia di sposi si era recata a Toledo per ricevere la fedeltà delle Cortes verso la principessa di Castiglia. Filippo fece ritorno quasi subito nelle Fiandre mentre a Giovanna, incinta, venne imposto di rimanere fino al parto.
Quando nacque Ferdinando, le bastarono pochi giorni per riprendersi, data la giovane età e i precedenti tre bambini già partoriti. Fu quando annunciò ai genitori la sua intenzione di partire per tornare dall’amato marito, che tutto le fu chiaro. Le venne tolta la scorta e qualsiasi mezzo per affrontare il lungo viaggio. Fu rinchiusa nelle sue stanze senza alcuna possibilità di allontanarsi.
Una sera, seduta davanti allo specchio a pettinarsi i lunghi capelli rossi, capì finalmente cosa doveva fare.
Risoluta, combattiva e decisa più che mai ad abbattere qualsiasi impedimento le avesse consentito di tornare a casa, il giorno seguente affrontò i genitori nella sala del trono, con la convinzione che niente e nessuno le avrebbe fatto cambiare idea.
Quando fu al cospetto del re e della regina, si rivide bambina, assillata dalle fissazioni religiose della madre e dagli occhi severi del padre che sembrava la giudicasse e continuamente disapprovasse qualsiasi sua scelta.
Giovanna si schiarì la voce e semplicemente disse:
“Padre, madre, sono venuta ad accomiatarmi. Torno da mio marito nelle Fiandre. Il mio posto è al suo fianco”.
“No, Giovanna, il tuo posto è qui, vicino al tuo bambino appena nato. Ha bisogno di sua madre per crescere e Ferdinando dovrà rimanere qui”, le rispose pacificamente la regina, malata e stanca di avere discussioni con quella figlia irrispettosa.
La giovane sgranò gli occhi. Quella novità non le piaceva affatto. Si portò le mani ai fianchi e sbottò:
“Ma siete uscita di senno? Come potete pensare che io mi separi dal mio amato Filippo? E ho altri tre figli che mi aspettano a casa! Dovrei forse rinunciare a stare con la mia famiglia per un vostro stupido capriccio? Avete fallito come madre e ora volete rifarvi dei vostri errori! Ma io non resterò qui a farmi logorare la vita da voi. Tenetevi pure Ferdinando. Ne farò altri, di figli!”
La regina sgranò gli occhi. Come poteva sua figlia averle parlato in quel modo? Prese un ventaglio e cercò di farsi aria al viso per riprendersi, mentre il re, alzatosi furiosamente in piedi la minacciò:
“Come osi? Piccola ragazzina impertinente! Farò chiamare immediatamente il vescovo per chiedere di esorcizzarti, hai un demone che ti affligge la mente!”
“Siete voi i demoni della mia vita! Voi siete la parte marcia! Non vedrò nessun vescovo perché non ho fatto niente di sbagliato, io!”, gli tenne testa la giovane.
“Giovanna, ti avverto, se metterai piede fuori da questo palazzo, farò quanto è in mio potere perché tu non ci possa ritornare mai più”.
Un sorrisetto malizioso comparve sulle labbra della figlia. Lo stesso che il re ricordava di averle visto dipinto in volto molti anni prima.
“Addio, questa è l’ultima volta che mi vedrete!”, concluse Giovanna voltandosi e uscendo per sempre dalla vita dei suoi genitori.
30 agosto, 1520.
Seduta davanti allo specchio, Giovanna non aveva nemmeno la forza di pettinarsi come di consueto i lunghi capelli rossi. Si massaggiava i polsi dolenti, cercando di non sfiorare i segni violacei lasciati dalle corde con cui, anche quella sera, era stata legata alla ruota.
Perché si ostinassero a torturarla in quel modo non le era per niente chiaro. Doveva essere ormai palese che il legarle mani e piedi, costringendo la sua schiena ad allungarsi sugli scomodi assi in legno della ruota, non l’avrebbe portata mai ad andare contro il suo volere.
Sapeva che il loro obiettivo era quello di estorcerle una confessione. Farle confermare finalmente di essere pazza, o di aver goduto della morte dei suoi genitori, o di essere scappata dalla finestra quando era in punizione da piccola, o addirittura di aver peccato di lussuria con suo marito. Qualsiasi cosa, bastava solo che si dichiarasse colpevole.
Davanti ai suoi ripetuti silenzi, i suoi aguzzini non trovavano pace mentre lei, Giovanna, sembrava godere ogni volta della loro sconfitta.
Ma non era così.
La regina non traeva alcun piacere dall’insuccesso dei suoi carcerieri. Il punto era che da anni ormai non provava più alcun dolore.
Il mondo le era crollato addosso da molto tempo. Se qualcuno glielo avesse chiesto, non avrebbe saputo dire se fosse stato peggio che le fosse stato portato via un figlio col ricatto, oppure trovare il marito a letto con un’altra donna, o che Filippo fosse morto in circostanze misteriose.
Forse era stata debole a pensare che il suo amato marito le fosse fedele o forse distratta dalle sue attenzioni e carezze troppo convincenti mentre le chiedeva di perdonare le sue scappatelle.
In ogni caso non meritava di essere lì, torturata, maltrattata e considerata pazza a tal punto da isolarla dal mondo intero.
Facendosi forza prese la spazzola e fissando se stessa nello specchio, iniziò a pettinarsi.
Pochi minuti dopo si bloccò. Assottigliò lo sguardo per mettere meglio a fuoco ciò che vedeva riflesso nello specchio, proprio alle sue spalle, fuori dalla finestra.
Luci.
Luci di fiaccole in avvicinamento.
Sentì il vociare di quella folla che si stava indiscutibilmente dirigendo verso il convento e corse a guardare fuori dalla finestrella della sua cella.
Il bussare con impeto al portone principale la mise in uno stato di agitazione; quasi come se quel qualcuno, arrivato in piena notte a violare il religioso silenzio del convento, stesse in realtà cercando di risvegliare il suo animo quieto.
Udì gridare, sbraitare e il frusciante movimento di un serpentone di uomini che si aggiravano per i corridoi. Rimase col fiato sospeso fino a quando sentì girare la chiave proprio nella toppa della sua cella.
Quando vide entrare un uomo grande e grosso con in mano una torcia fiammeggiante che illuminava un viso raggiante di felicità, sentì le forze venirle meno e dovette sedersi sul bordo del letto.
Lo sconosciuto si rivolse al folto numero di uomini a suo seguito, dicendo:
“Lasciatemi solo con lei. Aspettatemi qui”.
Poi entrò nella cella e chiuse la porta alle sue spalle.
“Posso?”, chiese rivolgendosi alla regina indicando la sedia davanti allo specchio.
La donna non rispose. Fece solo un cenno positivo con il capo, mantenendo uno sguardo serio.
L’uomo si sedette di fronte a lei e iniziò a parlare.
“Vostra Maestà, sapete chi sono?”, le chiese cordialmente.
La regina scosse la testa in un modo quasi impercettibile.
“Mi chiamo Juan de Padilla, guido la rivolta dei Comuneros”, spiegò l’uomo con calma.
A quel punto la donna incupì lo sguardo e domandò:
“Rivolta? Contro chi? Spero non contro mio figlio, Carlo”.
“Vostra Maestà, vostro figlio è partito da qualche tempo ormai. Ha lasciato il nostro, o meglio, il vostro paese in mano ad Adriano di Utrecht. Mi duole dover essere io a informarvi che né Carlo, né Adriano, si sono mostrati in grado di governare. Vostro figlio ha prosciugato i beni della corona, pur di ottenere i voti necessari per essere eletto imperatore del Sacro Romano Impero e Adriano è anche peggio”, spiegò con calma Juan. Quando vide i tratti della regina farsi duri e gli occhi sempre più severi, l’uomo decise di rivelarle il motivo per cui fosse lì.
“Maestà, siete stata usurpata di un trono che era vostro di diritto. Vostro padre, in combutta con vostro marito, per dividersi il potere, vi hanno rinchiusa qui dentro facendo credere a tutti che foste pazza, ma il vostro popolo sa che non lo siete affatto. La Spagna vi ama e aspetta solo che voi iniziate a prendervi cura di lei. Vi prego, lasciate che vi porti via da questo posto orribile. Non meritate di vivere i vostri giorni in questo luogo abbandonato da Dio”.
A quelle parole la regina si alzò e, senza dire nulla, si avvicinò alla finestra che dava sul cortile.
Poi chiese sottovoce:
“E Carlo? Non posso di certo andare contro il mio stesso figlio, non credete? Qualche tempo fa è venuto a trovarmi. Più per cercare il mio consenso alla sua presa di potere, che per ricordarsi del viso della vecchia madre a cui era stato strappato da piccolo. Gli dissi ciò che voleva sentirsi dire, che doveva seguire la sua strada. Speravo solo che mi venisse a trovare di nuovo…”, aggiunse con voce tremolante, asciugandosi velocemente una lacrima sfuggita al suo controllo.
“Mia Regina, vostro figlio ha seguito, suo malgrado, la strada sbagliata. La sua smania di potere e il controllo delle classi più altolocate, oltre che l’appoggio incondizionato della chiesa cattolica, sta portando a rivolte anche in Germania”, spiegò de Padilla.
A quel punto la donna si voltò di scatto verso di lui e lo fulminò con lo sguardo.
“C'è una rivolta anche in Germania? Contro mio figlio?”, chiese ansiosa.
“Non direttamente contro di lui, ma contro la chiesa cattolica. C’è un frate. Un agostiniano. Ha mosso critiche feroci contro le Indulgenze e contro molti princìpi della chiesa. Non mi stupirei se venisse condannato per eresia. Ma il popolo lo ama e alcuni prìncipi lo proteg…”
“Come si chiama?”, lo interruppe la donna.
“Martin Lutero, vostra Maestà”.
Giovanna rimase in silenzio a lungo a meditare.
La rivolta dei Comuneros in Castiglia, dei contadini cattolici in Germania, lei che era stata dichiarata pazza dagli unici due uomini che avrebbero dovuto amarla e considerata pazza da un figlio che riteneva comodo che lei rimanesse rinchiusa. Il suo mondo erano quelle quattro mura in cui tutti avevano cercato di soffocare la sua presunta follia, ma la realtà era tutt’altra. Ora le era tutto più chiaro: era il mondo là fuori ad essere completamente folle. Il disequilibrio fra chi aveva denaro e potere e chi era povero e vessato aveva portato i contadini tedeschi a seguire un frate, probabilmente eretico, e Juan de Padilla nella sua stanza.
Giovanna guardò quell’uomo che era lì per liberarla e restituirle il ruolo che le era stato sottratto e senza ulteriore indugio disse:
“Portatemi dal vescovo, voglio parlare con lui”.
6 settembre 1520
L’abito verde smeraldo che indossava le ricordava molto quella serata di festa in cui, da bambina, avrebbe voluto che nessuno la notasse, seduta in un angolo della sala da ballo. Solo in quel momento, mentre aspettava di incontrare il vescovo Adriano, si rese conto del perché il suo piano di allora non avesse funzionato. Sfiorò con la mano la tappezzeria di seta rosata e sorrise al pensiero della sua mimetizzazione con quel colore pallido, che nulla aveva a che vedere con il brillante verde che indossava allora.
Rispetto a quel momento, di una cosa era certa: mai più sarebbe stata messa in disparte e sicuramente non avrebbe più permesso a se stessa di passare inosservata.
Quando sentì la porta della sala aprirsi, fece un sospiro e si preparò ad affrontare il vescovo.
L’uomo che si presentò era completamente diverso da come se lo era immaginato. Aveva un aspetto tutt’altro che austero e due occhi dallo sguardo che le parve da subito sincero.
“Vostra Grazia”, lo salutò Giovanna con un inchino.
“Vostra Maestà”, rispose l’uomo sorprendendola.
La regina lo guardò con un’espressione perplessa. Che i rivoltosi la riconoscessero come regina, perché la consideravano l’unica erede legittima al trono era comprensibile, ma che il vescovo l’appellasse con un titolo che non aveva di fatto mai ricevuto era alquanto strano.
“Lasciateci soli, per favore”, ordinò il religioso alle guardie rimaste con lui nella sala, come a volerlo proteggere.
Appena i due uomini se ne furono andati, chiudendo la porta alle loro spalle, Adriano si avvicinò a Giovanna e le disse:
“Posso dirvi che è mia immensa gioia vedervi qui in salute. Temevo per le vostre condizioni al convento, sicuramente non degne per una regina”.
Giovanna incupì lo sguardo. Non fece altro che alzare i polsini del vestito quel tanto che bastava per mostrare al vescovo i segni ancora evidenti del suo malessere.
“Temevate per le mie condizioni, ma non avete fatto mai nulla per impedire che mi soggiogassero in questo modo, giusto? O ritenevate corretto che venissi torturata?”, chiese Giovanna con voce ferma.
“Perdonatemi. Non ero a conoscenza di… questo. Sapevo che eravate in quel convento perché la vostra famiglia ha ritenuto che foste… come posso dire?”, cercò di spiegare mestamente il vescovo abbassando lo sguardo imbarazzato.
“Pazza?”, gli venne in aiuto la regina.
Assottigliò lo sguardo e fece i due passi che la separavano dal fisico asciutto del suo interlocutore. Gli si posizionò a pochi centimetri dal viso e, alzando un angolo della bocca in un sorrisetto malizioso, gli sussurrò:
“Voi pensate che io lo sia davvero?”.
“No, non lo penso affatto. Tempo fa scrissi a vostro figlio Carlo, che ritenevo la vostra prigionia del tutto illegittima. Non ho mai ricevuto una sua risposta”, rispose sincero il vescovo.
“Dunque, posso sperare nel vostro supporto. Non avrete niente in contrario se vi chiedo di aiutarmi a porre termine alla rivolta dei Comuneros, giusto?”, proseguì la regina.
“Po-porre termine?”, balbettò l’uomo.
“Sì, incentivare emotivamente ed economicamente i Comuneros a calmare le loro ostilità, diciamo”, specificò lei.
Il vescovo sgranò gli occhi. Non si sarebbe opposto alla nomina della legittima regina di Spagna, ma che la stessa gli venisse a chiedere del denaro per placare la rivolta era quantomeno inappropriato.
“Perdonatemi, con quale denaro?”
“Quello delle Indulgenze”, sentenziò lei pragmatica.
“Cosa? Le Indulgenze?”.
A quel punto la regina alzò gli occhi al cielo. Quel vescovo non era per niente perspicace.
Si allontanò da lui e andò a guardare fuori dalla finestra, poi spiegò la sua idea.
“Vostra Eminenza, le rivolte non portano a nulla di buono. Morte, carestia. Voi siete un uomo di chiesa, un cattolico di sani princìpi. Sono sicura che conveniate con me che i Comuneros vadano placati. Voi mi incoronerete regina di Spagna. I rivoltosi ve ne saranno grati e riconosceranno in voi una guida religiosa sicura. Si riavvicineranno alla chiesa e nel giro di pochi mesi recupererete tutti i denari che avrete impiegato per dare loro un piccolo sollievo economico. Faranno donazioni spontanee e non forzate dalla questione Indulgenze. Non voglio che qui in Spagna si fomentino le stesse problematiche insorte in Germania”, spiegò la regina con convincente calma.
“Ne siete a conoscenza?”, chiese a quel punto il vescovo, stupito della quantità di notizie di cui la regina era già in possesso.
“De Padilla mi ha informata, sì. Voi cosa ne pensate di questo frate? Martin Lutero?”
Il vescovo si impensierì.
Riteneva il frate un eretico per le sue teorie, ma dentro di sé ammetteva che l’appoggio incondizionato del popolo verso il religioso avesse delle basi pressoché solide.
Adriano fece un sospiro e rispose:
“Lutero ha messo in dubbio la necessità delle Indulgenze per avere il perdono di Dio e raggiungere la salvezza. I poveri, ma anche alcuni prìncipi, ritengono che la sua dottrina riguardo alle Indulgenze sia corretta e quindi si sentono ‘derubati’ dalla Chiesa Cattolica, ma non è solo questo che li ha fatti seguire la sua corrente religiosa. Ha provveduto a trascrivere personalmente le sue idee in tedesco.
Questo ha indubbiamente avvicinato la popolazione meno abbiente al suo movimento religioso. Non avendo mai studiato il latino, per molte persone è difficile capire dogmi o teorie religiose. La traduzione in tedesco ha sicuramente avvicinato molti alla pratica. Alla sua, quella di Lutero. Non alla nostra, purtroppo. Ciò ha scatenato l’ira del Papa e, in parte di vostro figlio Carlo”, concluse l’uomo inchinando il capo rammaricato.
La regina tornò a riflettere. Prese tra le dita il filo di perle che portava al collo e si mise ad arrotolarlo prima sull’indice e poi sul medio, formando involontariamente il simbolo dell’infinito.
Nella sua mente si stava configurando un disegno. Un’idea chiara e precisa di ciò che doveva essere fatto. Era convinta che le rivolte portavano alle guerre e queste, a loro volta, conducevano solo a carestia, fame, morte e odio. Odio verso tutto e tutti. Ciò che lei voleva, invece, era solo dare al suo popolo e possibilmente anche alle terre governate da Carlo, la pace, la tranquillità e la sicurezza che nella sua vita aveva avuto solo per alcuni bellissimi anni, da quando aveva sposato Filippo a quando aveva partorito Ferdinando.
Poi la sua vita era cambiata, suo padre e suo marito erano cambiati e il risultato era stato un dramma per lei. Tutto a un tratto lei era la pazza e loro i legittimi eredi al trono.
Ma la provvidenza divina aveva voluto che lei potesse rinascere e riportare il mondo fuori dalle mura della sua cella all’equilibrio che meritava di avere. Uno stato di quiete e prosperità che sarebbe stato ricordato a lungo, grazie a lei.
“Eminenza. Dopodomani mi incoronerete regina, l’8 settembre credo sia un giorno appropriato per noi cattolici. Poi partirete per la Germania, desidero che convinciate frate Lutero a venire a parlare con me. È importante che io lo conosca e capisca le sue idee. Poi tornerete qui e attenderete nuove istruzioni, in base a come andrà il colloquio con Lutero. Avete compreso tutto?”, si risolse a spiegare la regina, con un tono che non ammetteva repliche.
“Sì, Maestà, come desiderate”, rispose il vescovo senza aggiungere altro.
La cerimonia di incoronazione fu più che altro una proforma. Niente inviti a sovrani stranieri, niente cerimonie dispendiose e inutili. Giovanna si fece incoronare regina dal vescovo Adriano e volle che, come unici testimoni ci fossero i capi della rivolta dei Comuneros.
Al termine del modestissimo evento, il vescovo celebrò invece una sontuosa messa per la ricorrenza della nascita di Maria e poi, assieme a diversi collaboratori, si preoccupò di distribuire oboli caritatevoli ai numerosi cittadini, che si erano ordinatamente messi in coda, al fine di ricevere un piccolo aiuto economico.
Terminata la lunga processione di fedeli, il sacerdote impartì loro la benedizione, prima che, sul calare della sera, tutti tornassero felici alle proprie abitazioni.
Al religioso fu assegnata una proficua scorta e, prima che le stelle prendessero posto del primo tramonto del regno di Giovanna I, l’uomo era già in viaggio verso la Sassonia.
Con non poca difficoltà, riuscì a convincere Lutero a recarsi in Spagna per avere un colloquio con la neonominata regina. Riuscì a smuoverlo dalla sua diffidenza, solo quando lo informò che Giovanna aveva voluto che i rivoltosi spagnoli venissero ripagati del versamento delle Indulgenze che avevano pagato, secondo il suo punto di vista, in modo del tutto ingiusto.
La cosa che maggiormente colpì il vescovo fu che durante il lungo viaggio di ritorno, il frate non scambiò con lui che poche frasi di circostanza.
20 settembre, 1520
Solo di fronte alla regina, Lutero capì che era giunto il momento di parlare.
Fu accompagnato nella sala del trono e fu introdotto a Giovanna dal vescovo in persona.
In un perfetto latino parlato da entrambi, i due poterono comunicare in modo cordiale e pacifico.
“Ditemi, dunque, perché avete voluto incontrarmi?”, chiese il frate una volta rimasto solo con Giovanna.
“Vi ringrazio per essere venuto fino a qui, per parlare con me. Io ho solo una domanda, per voi. Provate rabbia o disprezzo verso mio figlio, Carlo, futuro imperatore di Germania?”, chiese la regina spiazzando completamente il suo interlocutore.
Il frate inclinò le sopracciglia in uno sguardo serio e pensieroso. Era evidente che la domanda lo avesse colpito.
“Maestà, io sono un uomo di chiesa. Un cristiano. Non è nella mia natura provare sentimenti di questo tipo verso nessuno. Vostro figlio governerà un Impero. Se mi posso permettere, io credo che dovrebbe occuparsi di tutt’altro che di dogmi religiosi. La mia disputa con i princìpi della chiesa cattolica è un qualcosa che non ha niente a che vedere con le politiche di governo di vostro figlio”, spiegò con calma Lutero.
“Mi state dicendo che, in pratica, voi non siete affare suo”, lo interrogò la regina.
“Non le 95 regole che ho scritto riguardo alle Indulgenze, né tantomeno la mia interpretazione degli scritti di Sant’Agostino. Entrambe sono le basi per una profonda riforma religiosa e non le posso né rinnegare, né confutare. La Chiesa Cattolica non le vuole accettare, ma l’unico confronto a cui sono stato chiamato era una trappola per trarmi in arresto. Io rispetto profondamente le gerarchie monarchiche. Penso che un popolo debba essere governato a prescindere dalla religione che le persone scelgono di seguire. Ero venuto qui con la certezza che avreste voluto affrontare voi questo argomento e invece, l’unica cosa che volevate chiedermi è se ho sentimenti ostili verso vostro fi…”
La regina lo interruppe con una leggera risata.
Si coprì la bocca con la mano guantata e subito si ricompose.
“Perdonatemi, non volevo né interrompervi, né offendervi. Non ridevo certo di voi. Sorridevo per il fatto che speravate di poter avere un confronto teologico con me. Sapete… Mio padre, mio marito e anche mio figlio, Carlo, hanno ritenuto opportuno chiudermi per anni in un convento dove venivo torturata ogni giorno con l’unico fine di farmi accostare alla pratica della confessione, in modo che potessi, finalmente, liberarmi dal peso della pazzia, ammettendo una volta per tutte che fossi realmente uscita di senno. Dio, o il destino, o entrambi, hanno voluto che potessi ritornare a vivere e se ora sono qui a parlarvi è solo per capire se in voi posso avere l’appoggio che sto cercando. Non posso sostenere una discussione religiosa con voi, non ne sono all’altezza. Sono ben disposta a leggere e approfondire con voi le vostre 95 teorie, purché siano scritte in latino, ma di certo non ho nessuna cultura che mi permetta di dire se voi abbiate ragione o no”, disse la regina seria.
Lutero sospirò. Quell'incontro si stava facendo molto più interessante di quanto potesse sperare.
“E in cambio di cosa, esattamente, siete disposta ad accostarvi alle mie osservazioni religiose?”, chiese incuriosito.
“Credo che accostarmi non sia la parola giusta. Io sono e sarò sempre cattolica, su questo punto vorrei che non ci fossero fraintendimenti, né tra noi, né fuori da queste mura. Ho chiesto di poter leggere i vostri scritti per capire il vostro pensiero. In cambio, vorrei che facciate di tutto per porre fine alle rivolte in Sassonia. Personalmente non mi opporrò alla libera scelta di ogni singolo cittadino della religione o dei dogmi che ognuno ritiene più adatto alla propria cultura. Sono disposta a scrivere a mio figlio, per renderlo partecipe della mia decisione e sollecitandolo ad assumere la mia stessa posizione, ma voi mi dovete rassicurate sul fatto che i rivoltosi in Sassonia vi stanno seguendo per le vostre idee cristiane e non solo per non pagare le Indulgenze. Capite cosa intendo?”, chiese Giovanna seria.
Il frate si fece cupo.
Indurì i tratti del viso e disse:
“State insinuando che i contadini e la povera gente accondiscende ad ascoltarmi solo perché mi sono ribellato alle Indulgenze?”
“Avete tradotto le 95 regole contro il pagamento degli oboli in tedesco, in modo che tutti potessero leggerle. Cos’altro avete in mente di fare, per avvicinare il popolo alla chiesa?”, domandò a quel punto la regina, per rendersi veramente conto di quanto il frate si accostasse alle sue idee.
“Tradurrò le Sacre Scritture in tedesco e, d’ora in avanti, inizierò a celebrare messa nella lingua del popolo. È l’unico modo che conosco per assecondare il vostro desiderio di sedare le rivolte”, rispose il frate.
“Conto sul vostro impegno. Tornate quando più vi farà comodo, sarete il benvenuto. Vi farò scortare ovunque preferirete essere portato”, concluse la regina salutandolo.
Non appena il frate se ne fu andato, Giovanna fece chiamare il vescovo.
“Vostra Maestà”, la salutò cordialmente, appena giunto al suo cospetto.
“Vostra Grazia, interessante persona frate Lutero. Voi avete letto i suoi scritti riguardo alle Indulgenze e all’interpretazione delle lettere di Sant’Agostino?”, domandò la regina.
“Non ne ho avuto l’opportunità, veramente”, replicò Adriano.
Giovanna si fece pensierosa. Si incantò ad osservare le aiuole del giardino che, nonostante fosse l’ultimo giorno d’estate, erano ancora ricche di fiori di ogni tipo, circondati da nuvole di insetti di ogni genere. Dopo una lunga pausa disse:
“Domani partirete per Roma. Farò tutto quanto è in mio potere perché diventiate Papa, purché siate disposto e leggere e discutere con Lutero le sue teorie. Non appena sarete eletto, porrete fine alle Indulgenze. Non mi importa a chi toglierete fondi, sono sicura che di tutta l’opulenza di cui si vanta Roma, si possa sicuramente fare a meno di qualcosa. Lutero mi ha promesso che cercherà di placare le rivolte popolane servendosi della Parola di Dio. Voi dovrete giurarmi che farete tutto quanto è in vostro potere per assecondare i suoi sforzi. La Germania deve ritrovare un equilibrio, una pace interiore che vinca sui dissidi e le rivolte. Tutto questo credo sia possibile se tutti accettiamo il libero arbitrio degli altri. La possibilità di scegliere quale religione seguire”, chiarì la regina.
“Il Papa non accetterà mai di appoggiare uno Scisma”, replicò il vescovo.
“Leone X no, ma voi? Pensate sia meglio che tutti siano liberi di scegliere se stare con Lutero o con la chiesa Cattolica o che ci sia una guerra tra religioni con centinaia di migliaia di morti? Guardate questa aiuola fiorita. Insetti di tutti i tipi convivono dividendosi il polline dei fiori. Osservandoli ho capito qual è la mia missione. Vedo i popoli che vivono in pace, niente più guerre di religione niente più morti in nome di un Dio che ama tutti indistintamente da come viene chiamato o invocato. Questo è ciò per cui vorrei essere ricordata nei secoli futuri. Forse è un’idea folle, ma tutto sommato, che male c’è a sperare che un equilibrio sia possibile?”
***
Il vescovo divenne Papa nell’agosto del 1523 col nome di Adriano VI. Rimase in carica per poco più di un anno, il tempo necessario e sufficiente per dichiarare le Indulgenze illegittime, ritirare la scomunica a Lutero ed aiutarlo a pubblicare la prima bibbia scritta in tedesco.
Dopo aver ricevuto la lettera di sua madre Giovanna I regina di Spagna, Carlo V, appena eletto imperatore, pensò che l’idea di coesistenza di due religioni fosse completamente folle, ma presto capì che per mantenere pace, prosperità ed equilibrio, quella follia fosse l’unica strada percorribile.
I secoli a venire daranno ragione a Giovanna I, sulla possibilità di convivenza dei diversi filoni di pensiero della religione cristiana.
FINE
NcA: In realtà Giovanna di Castiglia detta “la Pazza”, morì nel convento in cui era stata rinchiusa da giovane, sola e abbandonata da tutti. La rivolta dei Comuneros fu sedata con la forza e de Padilla condannato a morte insieme ai capi dei rivoltosi. Martin Lutero fu condannato per eresia, visto che non rinnegò mai le sue tesi. La sua condanna fu confermata da Carlo V, durante la Dieta di Worms. Ci furono rivolte, morti, fame, carestia. Adriano VI rimase in carica poco più di un anno. Il tempo di cancellare le Indulgenze recuperando però i soldi dal pagamento degli stipendi degli artisti del Vaticano, tanto da arrivare a trascurare così tanto la Cappella Sistina, che quasi era arrivata a cadere a pezzi.
Grazie per essere arrivati fin qui e per qualsiasi commento/critica.
Alla prox.
SSJD