Tokyo
Stray Hearts
Capitolo 1: Passeggiata notturna nella città delle ombre danzanti
La notte, dopo il tramonto, trasformava la città in un caleidoscopio di luci e ombre. Il cielo, punteggiato da stelle brillanti, si tingeva di un blu profondo.
Tokyo si stagliava contro quello stesso cielo in una sinfonia di luci al neon che danzavano e si riflettevano sulle superfici bagnate dalle recenti piogge, le quali si mescolavano ai sussurri notturni della vita che non si ferma mai, nemmeno nelle ore più tarde. I suoi grattacieli, giganti di vetro e acciaio, si illuminavano uno ad uno, trasformando la skyline in un panorama futuristico e surreale; le strade invece si svuotavano lentamente, lasciando spazio a un silenzio irreale, interrotto solo dal ronzio dei condizionatori e dal fruscio dei treni che sfrecciano sulle sopraelevate. I vicoli stretti e tortuosi invece, illuminati da lanterne fioche e insegne sbiadite, diventavano a quel punto ancora più misteriosi e suggestivi. Le ombre si allungavano, creando forme strane e inquietanti che danzavano sui muri e sull'asfalto.
Ma Tokyo di notte non è solo silenzio e oscurità. È anche vita, energia, movimento. I quartieri del divertimento, come Shibuya e Shinjuku, si animano di luci e musica. Le discoteche pulsano al ritmo della techno, i bar karaoke risuonano di voci stonate, i ristoranti di ramen si riempiono di avventori affamati. Questa città è un luogo di contrasti, dove la modernità si fonde con la tradizione, la luce con l'ombra, il silenzio con il rumore. È un luogo che affascina e seduce, spaventa e incuriosisce.
Tra i vicoli stretti e labirintici, una figura solitaria si muoveva nel buio, avvolta in un'aura di mistero che sembrava respingere ogni tentativo di avvicinamento. Era un ragazzo giovane, non più di ventitré anni, con tratti delicati e quasi femminei che contrastavano in modo sorprendente con l'espressione distante e impenetrabile, quasi minacciosa, che aleggiava sul suo viso nascosto da una mascherina nera di tessuto. Avvolto in abiti ampi e fluenti che richiamavano la moda giapponese contemporanea, scrutava l'oscurità circostante con un misto di cautela e sfida. Ogni suo movimento era fluido e controllato, il passo era lento e cadenzato. Passeggiando ogni notte per quelle stesse strade e gli stessi vicoli, le gambe del ragazzo calibravano perfettamente il passo con fare quasi annoiato. Vagava per le strade deserte perché, quando la città si placava, il giovane riusciva a sentire un po' di pace. Cercando conforto nella compagnia silenziosa dei gatti randagi, proseguiva la sua passeggiata notturna quasi fino all'alba.
Ad un certo punto, un gorgoglio all'altezza dello stomaco interruppe il flusso dei suoi pensieri: aveva fame. Non metteva qualcosa sotto i denti da diverse ore, ripensandoci non era così strano che il suo corpo gli stesse inviando dei segnali chiari e precisi.
La fame, un animale selvatico, graffiava le pareti del suo stomaco vuoto e un brontolio insistente risuonava nel silenzio irreale della notte. Spinto da quell'urgenza viscerale, accelerò il passo mentre i suoi occhi scrutavano l'oscurità.
Ogni insegna luminosa, ogni riflesso di luce su una vetrina, faceva battere il suo cuore con la speranza di scorgere la familiare sagoma di un konbini. Quei piccoli negozi, onnipresenti e sempre aperti, erano l'ancora di salvezza per anime affamate e nottambule come la sua. Un faro di luce e calore nel mare notturno della città, un rifugio dove trovare conforto e sostentamento a qualsiasi ora.
Ma per il momento, solo strade deserte e vetrine buie si stendevano davanti a lui. Tokyo, la città che non dorme mai, sembrava essersi addormentata proprio quando lui aveva più bisogno di lei.
Il ragazzo si sentiva sempre più piccolo e solo in quella vastità urbana. Ogni passo era un'eco nel vuoto, ogni respiro un brivido di freddo. La fame, che prima era solo un fastidio, ora si trasformava in un'angoscia lancinante. Doveva trovare un konbini, e presto.
E poi, come un miraggio nel deserto, lo vide. Un rettangolo di luce calda che squarciava l'oscurità, l'insegna familiare di un minimarket - 7-Eleven, Lawson, FamilyMart - non importava quale, brillava come un faro nella notte. Un sospiro di sollievo gli sfuggì dalle labbra e la tensione che gli attanagliava il corpo si sciolse.
Accelerò il passo, quasi correndo verso quella promessa di salvezza. La porta automatica si aprì riproducendo un jingle accogliente, e lui si ritrovò immerso in un'oasi di luce e calore. L'aria era satura di aromi invitanti: il caffè appena fatto, il pane tostato, il profumo dolce e leggermente speziato degli onigiri, la frittura croccante del pollo fritto. I suoi occhi si illuminarono e la fame si fece ancora più intensa, ma ora era accompagnata da un senso di conforto e appagamento.
Il konbini era un microcosmo ordinato e rassicurante. Gli scaffali, perfettamente allineati, offrivano una varietà infinita di prodotti: snack dolci e salati, dalle Pocky alle Pringles, bevande di ogni tipo, dai tè freddi ai succhi di frutta esotici, pasti pronti da mangiare, articoli per la casa, riviste e manga, un'immersione istantanea nella cultura pop giapponese. Dietro il bancone l'impiegato, forse uno studente o un lavoratore part-time, lo accolse con un cenno del capo ed un mezzo inchino. Nonostante l'orario c'era una discreta fila in cassa e l'operatore era impegnato nelle sue mansioni.
Il ragazzo si mosse con sicurezza tra gli scaffali, guidato dall'istinto e dalla fame. Scelse un onigiri al tonno, una bottiglia di tè verde freddo e un dorayaki, nel caso in cui gli venisse di nuovo fame sulla via del ritorno. Dopo aver messo tutti i prodotti nel cestino esitò per qualche istante, guardandosi intorno. Il suo pensiero andò subito a Momo e a Kenji, e per questo si diresse verso il frigorifero degli alcolici; per lei prese un succo alla pesca, frizzantino e con bassa gradazione alcolica, per lui invece una birra. Pagò alla cassa, forse con qualche moneta trovata in fondo alla tasca o con la sua carta ricaricabile, ringraziò l'impiegato e si diresse verso l'uscita.
La porta del konbini si chiuse alle sue spalle con un sibilo sommesso, riportandolo alla realtà della notte cittadina. L'aria fresca dell'alba lo investì, risvegliandolo dal tepore del negozio. Proprio in quel momento, la sua spalla urtò accidentalmente quella di un uomo sulla trentina che rideva rumorosamente con una ragazza occidentale. La risata si interruppe bruscamente, sostituita da un'imprecazione gutturale.
"Ma guarda dove metti i piedi, idiota!" urlò, spingendo l'altro all'indietro. Il ragazzo barcollò, le sue guance arrossirono per l'umiliazione. Cercò di calmare la situazione, balbettando delle scuse, ma l’altro era troppo ubriaco e aggressivo per ascoltare.
"Cosa ci fai qui a quest'ora, ragazzino?", sbraitò, mentre la ragazza occidentale sembrava a disagio. L'uomo aveva un'aria scomposta e gli occhi iniettati di sangue. Il suo sguardo si posò sul giovane con un misto di disprezzo e aggressività.
Il ragazzo, colto di sorpresa, si irrigidì. L'istinto gli suggeriva di ignorarlo e allontanarsi in fretta, ma qualcosa nel tono dell’interlocutore lo trattenne. "Stavo solo prendendo qualcosa da mangiare", rispose con voce calma, cercando di non mostrare paura.
"Ah sì? E cosa ci fai in giro da solo a quest'ora, eh?", incalzò l'uomo, avvicinandosi minaccioso. "Stai forse cercando guai?"
L’altro indietreggiò di un passo, sentendosi intrappolato. La ragazza lanciò un'occhiata preoccupata al suo accompagnatore, ma rimase in silenzio.
"Non cerco guai", replicò il ragazzo, cercando di mantenere la voce ferma. "Stavo solo tornando a casa."
"Casa?", l'uomo rise sguaiatamente. "E dove sarebbe questa casa, sfigatello? Forse in uno di quei vicoletti bui? O forse non hai nemmeno una casa, eh?"
La situazione stava precipitando. Il ragazzo si sentiva sempre più a disagio, l'ansia cresceva dentro di lui come una marea montante. Sapeva di dover fare qualcosa, ma non sapeva cosa. La sua mente correva, cercando una via d'uscita, una soluzione a quell'incontro sfortunato.
L'uomo giapponese, ubriaco e tronfio della sua prepotenza, non si aspettava quello che accadde dopo. Il ragazzo, con una rapidità che smentì la sua apparente fragilità, si mosse. Non fu un movimento studiato o calcolato, ma un'esplosione di rabbia repressa, un'ondata di furia cieca e primordiale che si riversò sull'aggressore. Un pugno scattò, preciso e potente, colpendo l'avversario in pieno volto.
Il suono del colpo echeggiò nel silenzio della notte, seguito da un gemito di dolore. L'uomo barcollò all'indietro, gli occhi sgranati per la sorpresa. La ragazza occidentale sussultò, portando una mano alla bocca aperta in un gesto di shock. Il ragazzo, la sua espressione trasformata in una maschera di rabbia, si avvicinò, pronto a colpire ancora.
Ma l'uomo, sebbene stordito, non era ancora sconfitto. Raccolse le forze residue e si lanciò contro il suo oppositore, cercando di afferrarlo. Ne seguì una breve ma intensa colluttazione, i due corpi che si scontravano nell'oscurità, i loro respiri affannosi che rompevano il silenzio. Il ragazzo, nonostante la sua corporatura più esile, lottava con una ferocia inaspettata, alimentata dall'adrenalina e dalla rabbia.
La ragazza occidentale, paralizzata dalla paura, assisteva alla scena senza poter intervenire. I suoi occhi erano fissi sui due contendenti, il suo cuore batteva all'impazzata nel petto. Non sapeva cosa fare, chi aiutare. Era combattuta tra la paura per l'uomo giapponese, che conosceva, e la preoccupazione per il ragazzo, che sembrava così vulnerabile.
La lotta proseguì per alcuni interminabili secondi, finché il ragazzo, con uno sforzo supremo, riuscì a liberarsi dalla presa dell'uomo e a sferrare un altro pugno, questa volta allo stomaco. L'avversario emise un grido soffocato, piegandosi in due per il dolore. Il ragazzo lo spinse via con un calcio, facendolo cadere a terra.
Dopo aver sferrato il colpo decisivo, il giovane sentì un'ondata di nausea travolgerlo. La vista gli si annebbiò, le gambe cedettero sotto il suo peso e l'oscurità lo inghiottì completamente.
******
Il
mondo girava vorticosamente intorno al ragazzo, un turbine di luci blu
e rosse
che si riflettevano sull'asfalto bagnato creando un paesaggio distorto
e
irreale. Si trovava seduto sul marciapiede freddo circondato da una
folla di
curiosi, paramedici in uniforme e poliziotti in divisa. Il konbini,
teatro della sua furia incontrollata, era illuminato a giorno, le sue
vetrine
infrante come un grido silenzioso nella notte, testimoni muti della
violenza
appena scatenata.La realtà lo colpì come un pugno nello stomaco. L'uomo... la ragazza... la polizia... I frammenti della notte appena trascorsa si ricomponevano nella sua mente, formando un quadro inquietante. Doveva andarsene, sparire prima che lo interrogassero. Non poteva permettersi di essere coinvolto, di nuovo, in un'indagine della polizia.
La ragazza era scomparsa, inghiottita dalla notte come un fantasma, così come il suo aggressore. Rimanevano solo i frammenti della sua rabbia: l'odore metallico del sangue che impregnava l'aria, i vetri sparsi sul pavimento come schegge di ghiaccio, il silenzio pesante che seguiva la tempesta interrotto solo dal brusio sommesso della folla e dal crepitio delle radio della polizia. Il ragazzo tentò di alzarsi, ma le sue gambe cedettero sotto il peso del dolore, come se fossero state riempite di piombo. Un paramedico si avvicinò, il suo volto preoccupato illuminato dalla torcia, creando ombre grottesche che danzavano sul suo viso.
"Signore, ha bisogno di andare in ospedale. Ha delle ferite che devono essere curate."
Il giovane scosse la testa, la paura che gli stringeva la gola come una morsa di ferro. Non poteva andare in ospedale, non poteva permettere alla polizia di interrogarlo e scavare nel suo passato. Doveva scappare, sparire, dissolversi nell'anonimato della città prima che fosse troppo tardi.
"Sto bene," mentì, la sua voce un sussurro rauco, graffiato dalla paura e dalla vergogna. "Devo solo... devo andare a casa."
"Signore, ha perso i sensi," disse uno dei paramedici, la sua voce gentile ma ferma. "Dobbiamo controllare che non abbia riportato ferite gravi."
"Davvero, sto bene," insistette il ragazzo, cercando di alzarsi. Ma le gambe non lo reggevano, e cadde di nuovo a terra con un gemito.
I poliziotti si avvicinarono, i loro volti impassibili. "Signore, dobbiamo farle alcune domande," disse uno di loro, estraendo un taccuino. "Cosa è successo qui stanotte?"
Il ragazzo deglutì, il cuore che martellava nel petto. Doveva trovare una scusa, qualcosa di plausibile che lo tirasse fuori da quella situazione. "Sono... sono caduto," balbettò, cercando di sembrare convincente. "Ho sbattuto la testa e ho perso i sensi."
I poliziotti si scambiarono uno sguardo dubbioso. "È sicuro? Ci sono testimoni che dicono di aver visto una colluttazione."
Il ragazzo impallidì. Non poteva negare l'evidenza. Doveva inventarsi qualcos'altro, e in fretta. Ma la sua mente era un vuoto, le parole si rifiutavano di formarsi. La paura lo paralizzava, la consapevolezza di essere intrappolato in una situazione senza via d'uscita lo soffocava.
"Signore," insistette il poliziotto, "è importante che ci racconti cosa è successo."
Il ragazzo chiuse gli occhi, cercando di controllare il panico che minacciava di sopraffarlo. Sapeva che doveva agire, e doveva farlo in fretta. Ma come? Come poteva sfuggire a quella situazione senza attirare ulteriormente l'attenzione su di sé?
Il tempo sembrava essersi fermato, ogni secondo un'eternità. Il sole continuava a salire nel cielo, illuminando la scena con una luce crudele, impietosa. Il ragazzo si sentiva come un animale braccato, circondato da predatori pronti a saltargli addosso. Doveva trovare una via di fuga, doveva sparire prima che fosse troppo tardi. Ma come?
Un'ambulanza arrivò, le sue sirene lacerarono il silenzio dell'alba. I paramedici, preoccupati per le sue condizioni, insistettero per portarlo in ospedale. Il ragazzo vide in quell'insistenza la sua unica possibilità di fuga.
"Va bene," disse con un filo di voce, fingendo di cedere. "Mi sento un po' debole, forse è meglio farmi controllare."
I paramedici lo aiutarono a salire sull'ambulanza, mentre i poliziotti li seguivano con lo sguardo, delusi di non aver potuto portare avanti l’interrogatorio. Il ragazzo si sdraiò sulla barella, fingendo di essere più debole di quanto non fosse in realtà. Infine chiuse gli occhi, nella speranza di riuscire a calmare il battito frenetico del suo cuore.
L'ambulanza si mise in moto, le sirene ancora ululanti. Il ragazzo ascoltava il suono ritmico delle ruote sull'asfalto cercando di non pensare a quello che aveva fatto e alle possibili conseguenze delle sue azioni. La sua mente era un vortice di pensieri confusi, di paure e rimpianti.
Quando l'ambulanza rallentò ad un incrocio, il ragazzo aprì gli occhi. Vide la sua occasione. Con un movimento rapido e silenzioso, si alzò dalla barella e aprì la porta posteriore del veicolo. Il vento freddo dell'alba lo investì, facendolo rabbrividire. Senza esitare, saltò giù dall'ambulanza rotolando sull'asfalto.
I paramedici gridarono sorpresi ma lui era già in piedi e correva a perdifiato, zigzagando tra le auto ferme al semaforo. Sentiva le sirene dell'ambulanza che si avvicinavano, ma non si voltò indietro. Correva spinto dalla disperazione, dalla paura di essere catturato.
Si infilò in un vicolo buio, il suo cuore che batteva all'impazzata. Si nascose dietro un cassonetto, cercando di riprendere fiato. Le sirene si avvicinarono per poi allontanarsi, fino a scomparire nel frastuono della città che si svegliava.
Il ragazzo rimase immobile, in ascolto. Quando fu sicuro di essere solo, si alzò lentamente, appoggiandosi al muro per sostenersi. Era esausto e dolorante, ma libero. Aveva evitato la polizia, almeno per il momento, ma sapeva che non poteva abbassare la guardia. Doveva sparire, trovare un posto dove nascondersi, finché le acque non si fossero calmate. Riuscì a farsi strada fino all'entrata secondaria di un grande parco, lo Yoyogi, dove sapeva che nessuno, o quasi, lo avrebbe trovato. Quella zona dell'immensa area verde del centro città era una delle dimore più gettonate da parte di chi, una vera casa, non l'aveva da fin troppo tempo.
Rannicchiato dietro un cespuglio, il ragazzo cercava di riprendere fiato. La schiena premuta contro il tronco ruvido di un albero gli offriva un minimo di sostegno, ma il terreno umido e freddo penetrava attraverso i suoi vestiti, aggiungendo ulteriore disagio al suo corpo già dolorante. Le foglie degli alberi, ancora umide dalla rugiada notturna, scintillavano sotto i primi raggi del sole, creando un gioco di luci e riflessi che lo disorientava. I fiori sbocciati durante la notte invece, emanavano un profumo dolce e inebriante, un contrasto stridente con l'odore acre di sudore e paura che impregnava i suoi vestiti.
Si strinse a sé stesso, le braccia avvolte intorno alle gambe, come se cercasse di ricomporre i frammenti della sua vita andata in frantumi.
Il suo respiro era affannoso, irregolare, un eco della paura che ancora lo tormentava. L'ansia e l'adrenalina, che lo avevano sostenuto durante la fuga, avevano lasciato il posto a un senso di vuoto e di impotenza. Cercò di concentrarsi sul ritmo del suo cuore, di calmare la tempesta che infuriava dentro di lui. Ma ogni volta che provava a rilassarsi, i ricordi della colluttazione tornavano a tormentarlo come un promemoria costante della sua violenza, della sua incapacità di controllare la bestia, ovvero la violenza che si scatenava in momenti di forte stress o impotenza, che si nascondeva dentro di lui.
Il senso di colpa lo schiacciava come un macigno. Cosa ho fatto? si chiedeva, la mente annebbiata dal rimorso. Sono diventato un mostro?
Aveva bisogno di aiuto, di una mano amica che lo tirasse fuori da quell'abisso di disperazione. E c'era solo una persona a cui poteva rivolgersi: Kenji.
Tirò fuori il telefono dalla tasca, le dita tremanti mentre componeva il numero a memoria. Lo schermo illuminò il suo viso pallido, rivelando i segni della lotta: un labbro spaccato, graffi e lividi sparsi sulle braccia. Attese con il fiato sospeso, pregando che Kenji rispondesse. La sua unica ancora di salvezza.
"Kenji, sono io," sussurrò quando l'amico rispose alla chiamata. La sua voce era roca e spezzata, tradendo la sua disperazione. "Ho bisogno del tuo aiuto. Ti prego."
La voce dell'amico solitamente allegra e spensierata, si fece seria all'istante. "Haru? Cosa succede? Stai bene?"
"Non proprio," singhiozzò lui, incapace di trattenere le lacrime.
"Di nuovo? Haru... abbiamo smesso, ricordi?" Si lamentò Kenji.
"Ho bisogno che tu venga a prendermi. Ti prego, Kenji, mi stanno cercando e sono lontano da casa."
"Dove sei?" chiese l'altro, senza esitazione. La sua voce era l'unico raggio di luce in quel tunnel di oscurità.
Haru gli diede le indicazioni per raggiungerlo al parco, le parole che gli uscivano a fatica dalla bocca. "Per favore, fai presto," implorò. "Non ce la faccio più."
"Arrivo subito," promise Kenji. "Non ti muovere, sto arrivando."
Haru chiuse il telefono, stringendolo al petto come un talismano. L'attesa era straziante, ogni minuto un'eternità. Si rannicchiò ulteriormente, cercando di nascondere il suo corpo tremante.
Kenji, per favore, sbrigati, pregò silenziosamente, quando all'improvviso gli tornò in mente il cibo che aveva comprato al konbini e le bevande per i suoi amici. La fame, quella ormai non la sentiva nemmeno più; era solo stanco, desiderava stendersi e chiudere gli occhi per quanto più a lungo possibile.
Note: Questa storia è stata pubblicata anche su Wattpad con lo stesso titolo, e verrà aggiornata contemporaneamente su entrambe le piattaforme.