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Autore: Orso Scrive    09/09/2024    1 recensioni
Durante la torrida estate del 2022, la Toscana è sconvolta da alcuni misteriosi e brutali omicidi. Omicidi che vedono, come vittime, tombaroli sorpresi a scavare all’interno di antiche sepolture etrusche.
Per questo motivo, il tenente Manfredi e il sottotenente Bresciani vengono inviati a San Gimignano, in provincia di Siena, nel cuore dell’antica Etruria, per indagare sugli strani avvenimenti.
Riusciranno Alberto e Aurora a fare luce su questo nuovo caso, che affonda le sue radici ai tempi della guerra tra Roma e gli Etruschi, e forse a tempi ancora più remoti?
Genere: Horror, Mistero, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'A&A - STRANE INDAGINI'
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18.

 

 

 

Il luogo era davvero selvaggio e dimenticato, come isolato in un’altra dimensione. Pareva quasi di aver smarrito la diritta via nella selva oscura. In confronto a quel posto, il loro agriturismo sembrava immerso nella frenesia del mondo moderno.

Aurora e Manfredi avevano seguito per un buon tratto la strada provinciale, per poi proseguire lungo alcune strade secondarie tutte curve e tornanti, che si insinuavano tra colline alberate e boschetti di querce e castagni. Strade scarsamente battute, in cui avevano visto transitare pochissimi veicoli.

«Sei sicuro che sia la strada giusta?» domandò a un certo punto Aurora, fissando oltre il finestrino una quercia che le sembrava di aver già visto almeno tre volte.

«Mmm…» fu tutto ciò che il tenente si sentì di risponderle.

Stava cercando di raccapezzarsi con le sommarie indicazioni che gli aveva dato Morone per telefono.

«Prenda di qua, vada di là, al bivio a destra, segua il cartello, anzi lo ignori…»

Di utilizzare il GPS non se ne parlava proprio. Il segnale del telefono era scomparso non appena avevano cominciato ad addentrarsi in quella zona sperduta della provincia. Finalmente, quando ormai Alberto cominciava a perdere le speranze e Aurora iniziava a sbuffare spazientita (Pericolo crescente! Come se fosse colpa mia, poi!), avevano trovato il luogotenente Morone, che li aspettava con l’auto parcheggiata vicino a uno strettissimo sentiero che si perdeva nel folto di una foresta dall’aria impenetrabile.

Morone aveva attirato la loro attenzione con un lampo degli abbaglianti. Senza di lui, non avrebbero più saputo dove andare. Si erano accodati alla sua auto di servizio e i due veicoli si erano inoltrati in mezzo al bosco, lungo la strada più accidentata che la vecchia Punto di Manfredi avesse mai affrontato nella sua lunga e onorata carriera. E di strade brutte ne aveva percorse parecchie.

Come quella volta che mi sono quasi incastrato tra due fossi, perché il Gigi voleva farmi vedere dove andavano a giocare le partite di soft-air lui e i suoi amici. Se fossi andato avanti ancora di un paio di metri, avrei potuto dire addio alla macchina.

«Povera macchinina», borbottò Alberto, quando all’ennesimo scossone sentì le sospensioni gemere come se fossero state sottoposte alla peggiore delle torture.

«Chissà che non sia la volta buona che ti decidi a cambiarla», replicò Aurora, con tono aspro.

Lui le lanciò un’occhiata di sfuggita. Aurora aveva arricciato il naso in una smorfietta irresistibile.

Facile, dire così. Come se uno i soldi per una macchina li trovasse per terra, così, da un momento all’altro.

Tornò a concentrarsi sul percorso. Le possibilità di finire in un fossato erano molto elevate. Oppure, in alternativa, di incastrarsi su qualche arbusto o di andare a sbattere contro un tronco. Era proibito perdere la concentrazione, da quelle parti.

«Ma se le vuoi così bene», disse. «Ci siamo divertiti così tanto, su questa macchina. Come potresti fare a meno di lei?»

La giovane non rispose. Ma, sbirciandola attraverso lo specchietto retrovisore, a Manfredi non sfuggì il suo sorriso.

Percorsero a passo d’uomo il sentiero. I rami degli alberi si protendevano sui due lati a schiaffeggiare la carrozzeria, quasi cercassero di opporsi all’avanzata di quegli intrusi che avevano invaso il loro regno. Le erbe folte che crescevano lungo il sentiero si strusciavano addosso alla macchina come una strana forma di gatto in cerca di attenzioni.

Graffio più, graffio meno, pensò Alberto.

Quando voleva, sapeva essere stoico. Lamentarsi, inoltre, non sarebbe servito a nulla.

Figurati se a qualcuno verrà mai in mente di indennizzarmi dei danni subiti. Al massimo mi diranno di stilare una richiesta scritta da mandare al Comando Provinciale, che la passerà a quello Regionale, che la indirizzerà a qualche misconosciuto ufficio di Roma, dove finirà dimenticata in mezzo a mille altre scartoffie.

Sembrava che il verde li avrebbe inghiottiti. Un insieme vegetale privo di una fine. Un viaggio senza ritorno nel fitto di un mondo inesplorato. Invece, quando meno se lo aspettavano, gli alberi si diradarono fino ad aprirsi quasi all’improvviso in una vasta radura in cui crescevano erbe alte.

L’unico segno che un essere umano avesse mai messo piede da quelle parti era un vetusto casolare che si trovava al margine opposto del campo. Era messo tanto male che sembrava stare insieme per miracolo. Una parte del tetto appariva sfondata, con le vecchie tegole tutte sparse al suolo, e molte finestre erano state inchiodate alla meglio con delle assi. Si poteva notare anche quella che pareva essere una rimessa di legno, mezza marcia. I lecci folti e inselvatichiti che gli crescevano attorno contribuivano ad accentuare il senso di abbandono. Ma la Volvo posteggiata a metà strada tra loro e il casolare, e i cinghiali che grattavano il terreno all’interno di un recinto, raccontavano un’altra verità: quel posto era abitato da qualcuno.

«E chi ci vive qui?» borbottò Alberto, lanciando un’occhiata stralunata alla fatiscente cascina. «L’abominevole uomo della Toscana?»

«Be’, se così fosse, forse avremmo già trovato il nostro pazzo omicida», ammiccò Aurora.

Con quella sua rara grazia che sapeva sfoggiare in ogni occasione, aprì la portiera e uscì con una mossa fluida dall’auto. Alberto lasciò in folle, sollevò il freno a mano e la imitò. Prima di scendere, diede una pacca affettuosa al volante.

E brava la mia macchinina. Ci hai portato fino a qui.

C’era solo da sperare che li riportasse anche indietro.

La cosa non era poi così scontata.

Morone, un po’ irrigidito dagli scossoni della strada, gli si stava facendo incontro.

«Buongiorno», li salutò. Dal suo tono, quello era tutto fuorché un “buongiorno”. Indicò oltre la radura, dove la foresta ricominciava. Gli alberi, fitti e oscuri, si arrampicavano su alte colline. «Il posto è un paio di chilometri più in là, ma ci dovremo arrivare a piedi. Dovremmo imboccare un canalone o qualcosa di simile, da quello che ho capito.»

«Che cosa sappiamo, di questa necropoli di cui mi ha parlato al telefono?» domandò Alberto.

Morone allargò le braccia.

«Molto poco, a dire il vero. La chiamano la Fossetta, ma accidenti a me se ne avevo mai sentito parlare prima. Qui non ci viene mai nessuno. Vedete quella casa mezza caduta? Ci abita un tizio un po’ fuori di testa. Uno svitato, insomma. Da queste parti è conosciuto come Guccio Cinghiale. Odia la gente, vuole che tutti gli stiano alla larga; e la gente sta bene attenta ad accontentarlo, visto il suo caratteraccio e il bel posto in cui vive.»

Credo che lui e Aurora andrebbero d’accordo, rifletté Alberto con un sogghigno. Hanno la stessa amabile considerazione del genere umano.

Aurora lo fulminò con lo sguardo.

No, dai! Ma allora è vero che mi legge nella mente!

Morone si grattò il mento.

«Comunque, tornando alla necropoli, da quello che ho capito è una specie di strada scavata dagli Etruschi in mezzo alla roccia, o qualcosa di simile», borbottò.

Aurora, che era tornata a osservare la casa in lontananza, annuì e si girò verso di loro.

«Una via cava», rispose. «Alcuni le chiamano anche tagliate, una definizione che rende piuttosto bene il concetto. A prima vista si possono scambiare per delle fenditure naturali, come dei piccoli canyon. Ma, se le si guarda bene, ci si rende conto che in realtà sono lunghissime e ritorte aperture artificiali che si insinuano tra monti e colline. Stretti passaggi scavati nella viva roccia, spesso per interi chilometri, lungo i percorsi più disparati.»

Prese la solita ciocca ribelle tra indice e pollice e cominciò a giocherellarci distrattamente, mentre continuava a spiegare.

«L’Italia centrale ne è costellata, anche se sono relativamente in pochi a saperlo. C’è stata una sorta di muta e condivisa censura da parte degli storici e degli archeologi, al riguardo: non sono state fatte dai Romani, questo è certo, e quindi agli studiosi del nostro Paese non hanno mai interessato troppo. Nessuno sa a che cosa servissero di preciso, né come e quando furono realizzate. Gli studiosi, quando proprio non possono fingere che non esistano, le definiscono sbrigativamente come delle strade; ma basta un’occhiata perché anche un bambino capisca che non avevano alcunché di funzionale. Sono scomode, ripide e strette. E a volte tanto profonde da essere buie anche in pieno giorno. Non ci possono transitare eserciti, non permettono il passaggio di carri, e un cavallo rischierebbe di azzopparsi a ogni metro. Nessun mercante sano di mente le avrebbe mai percorse.»

Si risistemò la ciocca dietro l’orecchio.

«A dire il vero, per fare prima e tagliare una volta per tutte la testa al toro, gli etruscologi hanno cercato di ignorarle e disinteressarsene.»

Arricciò di nuovo il naso in quella smorfia che faceva impazzire Alberto. Una delle numerose cose di lei che lo facevano impazzire. Anche il solo ascoltarla mentre parlava di quelle antiche opere lo estasiava.

Non posso farci nulla. Mi fa questo effetto. Sempre.

«Un modo spiccio per risolvere un antico enigma, direi», concluse il sottotenente. Adesso c’era una punta di amaro sarcasmo, nella sua voce. Si strinse nelle spalle. «Fai finta che non esista e continua a sperare che nessuno ti domandi nulla in merito. Del resto, è una vecchia tradizione italiana: o tutto ciò che è antico è Romano, oppure si finge di non vederlo. È stato sancito così ai tempi del fascismo e così è rimasto sempre.»

«A dirla tutta, non sappiamo nemmeno se siano stati davvero gli Etruschi a realizzarle, oppure se le abbiano ricevute, come dire, in eredità da qualche popolo più antico ancora, per esempio dai Pelasgi», intervenne Manfredi. «Una civiltà di cui parlano gli autori antichi e di cui non sappiamo quasi nulla, ma che potrebbe aver lasciato più tracce di quanto non si creda nella Penisola».

Si interruppe un istante, per ammirare le colline coperte di boschi. Provò a immaginare quali grandi misteri della storia celassero. Innumerevoli, senza dubbio, come tantissimi erano i segreti ancora sparsi in giro per l’Italia e per il mondo intero. Segreti che aspettavano soltanto di essere svelati. Per come la vedeva lui, l’archeologia era ancora una scienza molto giovane, ed erano molte più le cose ancora da dire e da scoprire, che quelle già dette e scoperte.

«Se consideriamo i secoli tutto sommato brevi in cui prosperò la loro civiltà, forse gli Etruschi non avrebbero nemmeno avuto il tempo materiale per scavare tutte quelle aperture nella roccia», constatò.

Alzò la mano e sistemò gli occhiali da sole. Il sudore glieli aveva fatti scivolare sul naso. Anche quella giornata si prospettava molto calda.

«Comunque, il fatto che le abbiano spesso impiegate per le loro necropoli, potrebbe indurci a credere che la funzione delle vie cave, fin dalle loro origini, fosse di tipo religioso, o comunque mistico e soprannaturale», concluse. «Qualche studioso più ardito di altri sostiene che fossero costruite in onore della Grande Madre, l’ancestrale dea mediterranea: ne rappresenterebbero, in un certo senso, l’utero.»

Manfredi trattenne a stento un grugnito. Citare la Grande Madre lo aveva costretto a ripensare a Rakovac.

Maledetto pelatone, tre volte maledetto!

Ignorò quel pensiero e tornò a concentrarsi sulle sue spiegazioni.

«Certo, come ha ben chiarito la mia collega, non si trattava affatto di vie di comunicazione», proseguì. «A meno che, naturalmente, non vogliamo essere tanto sciocchi da immaginare i nostri lontani predecessori intenti a fare una fatica immane per andare da un posto all’altro… senza contare, poi, che – nella maggior parte dei casi – le vie cave non conducono proprio da nessuna parte, limitandosi a girare su se stesse o a concludersi contro pareti montane.»

Il luogotenente Morone li studiò con attenzione. A nessuno dei due sfuggì il fatto che il suo sguardo indugiasse un po’ troppo oltre il consentito sul logo rosso degli AC-DC che si sporgeva in avanti sotto la spinta del seno di Aurora. La sua faccia assunse un’espressione che non fece proprio nulla per nascondere un moto di ribrezzo.

«Sembra che voi la sappiate molto lunga, su queste cose», commentò con fare acido. «Per fortuna mi hanno mandato due professoroni di stirpe. Avevo proprio bisogno di sentirmi dire roba del genere, per risolvere una serie di crimini orribili. Perché qui si parla di omicidi, se ve lo siete dimenticati. A me interessa risolvere quelli. Di dove vengano commessi, e di quale sia la natura di un posto, non me ne frega niente.»

Aurora si morse il labbro. I suoi occhi lampeggiarono in maniera pericolosa. Fletté anche le dita delle mani. Bruttissimo segno.

Pessimo.

Per fortuna, Manfredi se ne accorse in tempo per evitare un disastro.

«Non dimentichi che noi ci occupiamo prima di tutto della tutela del patrimonio culturale», rispose veloce, a mo’ di scusa. «Saperne di archeologia è parte dei nostri compiti. Sa, non ci capita tutti i giorni di avere a che fare con una via cava etrusca di cui non si è mai sentito parlare prima.»

Prima o poi gli salta alla gola e lo strozza. Oddio, anche io lo prenderei a schiaffoni su quella faccia di cazzo che si ritrova. Quegli occhiali da vecchio rincoglionito glieli farei inghiottire. Ma fa già abbastanza caldo per il clima, per avere anche voglia di mettersi a litigare.

Forse Morone avrebbe voluto replicare qualcosa di tagliente. Intercettò lo sguardo della giovane. Probabilmente comprese di essere in pericolo di vita. Nonostante il caldo, fu scosso da un brivido.

«Sia come sia», tagliò corto. «La moglie di Solmi mi ha raccontato che i tombaroli frequentano la Fossetta da decenni. Uno di loro l’ha scoperta per caso una cinquantina di anni fa e, da allora, è una meta ambita e in apparenza inesauribile. Pare sia ricchissima di tesori, molti dei quali ancora da scoprire. Così ieri notte Solmi è venuto qui, approfittando dell’occasione propizia data dal fatto che la concorrenza sia stata smorzata dalla paura degli omicidi. Doveva tornare prima dell’alba, ma non l’ha fatto. La signora, visti i tempi, si è spaventata ed è corsa subito a dirmelo.»

Accennò con la testa alla vecchia Volvo bordeaux e si tamponò le tasche alla ricerca del blocco degli appunti.

«Quella dovrebbe essere la sua macchina. Ora controllo la targa, ma credo che non ci siano dubbi.»

Mentre il luogotenente andava a verificare di chi fosse l’automobile, Aurora si affiancò ad Alberto. Entrambi guardarono ancora una volta verso le colline. La direzione in cui, presumibilmente, si trovava la misteriosa Fossetta.

«Che ne pensi?» sussurrò Manfredi, in modo che Morone non li sentisse.

«Penso che gli strapperei quegli occhiali di merda e glieli caccerei in gola», mormorò lei.

Manfredi ridacchiò.

«Va bene, è scientificamente provato: pensiamo le stesse cose. C’è un legame psichico, tra di noi.»

Aurora allargò le labbra in un sorriso.

«Dopo tutti questi anni insieme ne dubitavi, Manfredino?» chiese, sfiorandogli la mano.

«Comunque parlavo della Fossetta, non di quel pachiderma idiota», rimarcò il tenente. «Credi che troveremo un cadavere, laggiù?»

Aurora lanciò un’occhiata a Morone che controllava la targa. Distolse lo sguardo e tornò a guardare le colline.

«Credo che non ci siano dubbi», rispose. «Ma, ora come ora, mi eccita di più l’idea della via cava. Non ho mai potuto visitarne una, e sapere di avere il privilegio di poterne vedere una quasi sconosciuta, mai visitata prima da uno studioso…» Si morse il labbro inferiore. «Be’, mi sento come una bambina la mattina di Santa Lucia.»

Alberto annuì. Condivideva appieno la passione di Aurora per l’archeologia e l’antichità. Se avevano scelto di schierarsi a favore e in difesa del patrimonio artistico e culturale, era perché si sentivano legati a doppio filo all’eredità che gli antichi avevano lasciato ai posteri.

In quel momento, il turbamento che stavano vivendo doveva essere il medesimo.

Che abbiano fatto fuori un altro ladrone mi importa poco, si disse Alberto. Ognuno fa la fine che si cerca. Ma sapere che, una necropoli che avrebbe potuto rivelarci tanti segreti nei confronti del passato, sia stata sistematicamente saccheggiata per chissà quanti anni, mi dà il voltastomaco.

Osservò il profilo di Aurora, quel volto che riusciva a essere insieme duro e delicato. Poteva scorgervi la stessa amara delusione che doveva aver riempito il suo.

Morone li strappò dalle loro silenziose riflessioni.

«Come credevo è l’auto di Solmi», dichiarò. «Forse sarà meglio andare a vedere…» Lanciò un’occhiata nervosa ad Aurora. «Ehm… se gli è davvero stato riversato un trattamento simile agli altri… forse non è uno spettacolo per signore… magari è meglio che lei resti qui, Bresciani.»

Hai detto la frase sbagliata, amico, pensò Alberto.

Una palpebra di Aurora tremò in modo pericoloso quando il suo sguardo incontrò quello del luogotenente. Le sue labbra parvero sul punto di spruzzare veleno. Manfredi la sentì emettere ondate vibranti nell’aria circostante.

Perlomeno, con questo ciccione a farle da bersaglio, non può prendersela troppo con me.

Aurora tremò ancora più forte. Sembrava ormai sul punto di esplodere. Manfredi si preparò psicologicamente alla sfuriata. D’improvviso, invece, si acquietò. Forse il pensiero del cadavere e della necropoli saccheggiata bastarono a calmarla e a rimandare ad altro momento il suo sfogo contro il finanziere.

«Allora sarà meglio che resti qui lei, Morone.» Indicò la collina. «Ha detto da quella parte, giusto?» Senza attendere risposta, si avviò ad ampie falcate.

Manfredi notò l’aria di completo stupore assunta da Morone. Allargò le braccia come a dire “la perdoni” e la seguì in fretta. Fece parecchia fatica a soffocare una risata.

Per ultimo, borbottando sottovoce qualche incomprensibile bestemmia in un mezzo toscano, il luogotenente gli andò dietro.

 

 
   
 
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