C'era una volta una vecchia strega.
Non era sempre stata vecchia, in realtà. Si era ingobbita pian piano, sotto il peso della tristezza e della solitudine, come un arbusto di rosmarino dalla chioma troppo folta per il suo esile tronco, finché fu costretta a fare uso del bastone per continuare a camminare. Quel bastone, in seguito, venne usato anche per scacciare i gatti e i corvi che infestavano il suo giardino, segno che la vecchiaia l'aveva inacidita a sufficienza da renderla musona e intrattabile. Non c'era da sorprendersi se nessuno le si avvicinava più.
Le rughe, non gliele aveva viste nessuno. Aveva certi baffi! Così tanti da coprirle l'intero volto, e il petto, e le braccia. Nessuno la chiamava Strega Barbuta, comunque, perché Strega delle Mille Macchie era arrivato prima, e perché si narrava che nei paesi al di là della vallata esistessero diverse streghe dall'aspetto scimmiesco. Erano permalose, e non conveniva offenderle: circolavano numerose storie sui loro poteri e sugli sciagurati che ne erano stati vittima.
La Strega delle Mille Macchie, comunque, era innocua. Era nelle capacità di tutti offenderla, farle brutti scherzi, intrufolarsi in casa sua e rubarle la farina, l'uva o il succo di pera, distruggerle lo spaventapasseri e sfilarle la gonna: non ci sarebbe stato modo, per la strega, di difendersi, se non picchiare duro con il suo bastone di legno, o lanciare una pantofola.
La Strega delle Mille Macchie non era in grado di far incantesimi, né con né senza bacchetta. Non era in grado di lanciare maledizioni che il più ignorante dei contadini non avesse saputo lanciare. Non sapeva nemmeno far pozioni! Sapeva fare le torte, questo sì. Le torte migliori di tutto il regno, almeno secondo il modesto parere del barone del paese e del mercante di stoffe, che viaggiava in ogni dove. E così tutto il paese sapeva che la Strega faceva le migliori torte del mondo, ma non era cosa da andarci fieri: ormai era da un pezzo che non cucinava più.
Aveva avuto un'attività, venti anni prima: si chiamava "Torte Stregate". Proprio così, un nome sorprendente. Ma l'insegna era caduta, e i tavoli e le sedie per i clienti erano stati ammassati in un angolo nella cantina a prender polvere. Ogni tanto qualcuno parlava della buonissima "Torta Primula" o della leggendaria "Torta Focosa": i bambini ascoltavano i vecchi e rimanevano a bocca aperta quando scoprivano degli effetti di queste delizie sui fortunati che le poterono assaggiare.
«Ti dava una forza tale da spiantare l'intera Foresta dei Cincillà!»
«Ti spuntavano le ali! Un dolore lancinante all'inizio, ma poi potevi volare!»
«Mi ha curato la febbre e la balbuzie! Da piccolo balbettavo anch'io, sai Dodo?»
«D-d-d-dav-ve-r-r-ro?»
Era anche per questo che nessun bambino se la sentiva di fare i dispetti alla vecchia strega, e che nessun adulto poteva mai pensare di prendersi gioco di lei. In fondo, non aveva mai fatto male ad una mosca, ed erano tutti dispiaciuti per quello che le era successo.
«Ma cosa le è successo?» chiese Tilda al padre, quando la famiglia era radunata sotto il melograno, dopo cena. «Perché è diventata così vecchia e brutta?»
Il padre alzò le spalle, scostando la pipa ed esalando una nuvoletta di fumo. «Un giorno ha perso il sorriso. Poi ha cominciato a far meno torte, a parlare di meno. Il suo bar si svuotava pian piano, finché non è rimasta sola.»
Il che era un ottimo riassunto di quello che è successo, ma non dava la spiegazione che la bambina cercava: perché, dunque, è successo tutto ciò?
La triste verità era questa: nessuno lo sapeva, o meglio, nessuno aveva avuto sufficiente curiosità e preoccupazione per far attenzione ai sentimenti della strega. Era più semplice confondere causa ed effetto, e dire "è rimasta sola perché è invecchiata", quando invece si trattava dell'esatto contrario.
La strega, che vent'anni prima si chiamava Mina – un nome modesto, su misura per lei che in fondo era una streghetta da quattro soldi – aveva numerosi amici. Erano tanti quelli che si fermavano da lei per un tè, un consiglio, un abbraccio. Sfortunatamente, nessuno era lì per lei quando Mina sentiva bisogno delle stesse cose. Mai nessuno che le facesse i complimenti per la sua bella treccia, che la incoraggiasse quando si sentiva avvilita, che le chiedesse anche semplicemente "come ti senti?". Quando si parlava di partire per l'avventura, come i giovani fanno sovente, nessuno pensava che Mina avrebbe gradito far parte della comitiva. Mina ci rimaneva tremendamente triste; d'altra parte, era manchevole di quella buona dose di faccia tosta che le avrebbe concesso di autoinvitarsi e, in generale, di cercare di prendersi quella fetta di felicità che era nel mondo e che spettava anche a lei. Troppo timorosa di chieder troppo, aveva continuato a far torte esaurendo pian piano gli ingredienti.
Anche perché, nessuno la riforniva. Tutti continuavano a mangiare le sue delizie, però.
«Oh, Mina, non starai piangendo? Suvvia! Sei una strega!» Ebbene, le streghe non possono tirare su con il naso? pensava Mina, soffiandosi il nasone con un rumore da corno francese.
Poi c'era quell'altro, graffiante, ammiccante e imbarazzante pensiero che le frullava in testa senza aver mai trovato la via di uscita, come una mosca chiusa tra vetro e zanzariera. C'era questo, che Mina avrebbe tanto desiderato essere considerata dai ragazzi proprio come le sue coetanee! Ma l'occhiolino che il garzone del falegname le rivolse, un giorno, o il tip tap che ballò in compagnia del principe in occasione della festa del grano, furono una magra consolazione. Alla sua età, le altre ragazze ricevevano inviti, fiori lasciati sulla porta, baci sotto il lampione con le falene svolazzanti, serenate sotto la finestra. Nessun giovanotto trovava Mina piacente, e così lei non aveva di che sospirare con nessuna delle sue amiche. La giovane strega divenne sempre meno interessante per tutti quanti, ogni giorno che passava.
Inoltre, nessuno badava al suo cattivo umore, se non per farglielo notare, come se fosse colpa sua!
«Mina, non è bello vederti spuntare foruncoli sulle braccia! Non devi essere triste.»
«Cos'è quella faccia? Vuoi ricoprirti di macchie bianche come l'ultima volta?»
«Ti sta crescendo un neo sul naso! Se non stai attenta te ne crescerà uno in fronte, proprio in mezzo. Allora sì che rideremo tutti di te!»
Insomma, Mina, per i suoi amici, c'era ma non c'era, quando la vedevano e non si confondeva con la tappezzeria a fiori del suo locale, e nonostante i suoi propositi di mantenersi sempre allegra e di non scocciare mai nessuno con le sue lagne, a un certo punto non ci riuscì più. Le macchie – lentiggini, vitiligine, nei dalle forme insolite e talvolta pelosi – le ricoprirono pian piano tutto il corpo. Spuntavano come i suoi desideri inespressi: si grattava l'avambraccio quando voleva essere notata, ed ecco una voglia color fragola. Si grattava la spalla quando desiderava un bacio, ed ecco un altro puntino nero. A un certo punto, in paese, non si ricordarono più di che colore fosse la sua pelle in origine, ma quello fu l'ultimo dei problemi. Poco tempo dopo i suoi peli cominciarono a crescere folti e scuri anche laddove non ce n'erano, ricoprendola interamente. I capelli si mischiavano alle sopracciglia nel coprirle gli occhi, tanto che dovette usare delle mollette per mantenerli scostati e garantirsi la visuale. Nessuno vedeva più da tempo il suo vestito verde con fiori bianchi, ma, peggio ancora, nessuno vedeva più il suo volto. Chi l'aveva vista parlare l'ultima volta giurava che i suoi denti si fossero ingialliti; per quello che ne potevano sapere ormai poteva averli anche persi. Per finire, nessuno poteva accorgersene, ma la sua postura non era certo migliorata con l'andare del tempo e della solitudine. Si era ingobbita oltremodo, riducendo la sua altezza di quasi la metà.
La svolta arrivò sottoforma di una ragazzina che varcò la soglia del giardino della Strega. La Cameriera – così la straniera veniva chiamata – era giunta in paese indecisa se proseguire oltre o fermarsi a cercare una sistemazione nei dintorni. Cosa ci trovasse in quel giardino, nessuno lo seppe, ma passandoci di fronte fu colpita dall'arsura dei cespugli, dalla secchezza delle foglie, dal crepitio dell'erba gialla quando la calpestava. Dovette leggere l'insegna gettata per terra, perché quando avvistò la strega seppe subito cosa dirle.
«Buongiorno, potrei avere una torta?»
La strega rimase impalata sulla soglia di casa per diverso tempo. Fosse stato un corvo o un gattaccio, avrebbe saputo come trattarlo: voleva stare da sola, lei! Lo avrebbe scacciato in men che non si dica. Ma l'intruso era un soggetto tanto sconosciuto e imprevedibile da mettere a dura prova la sua vita abitudinaria da vecchia musona. Avrebbe dovuto lanciare la pantofola, sì o no?
Poi c'era quel piccolo problema, il non riuscire più a parlare. La strega non parlava da così tanto tempo che non sapeva nemmeno più di averne perso la capacità! Questo sì che la sorprese.
Come comportarsi, dunque? La strega giudicò di essere rimasta troppo tempo come una statua di sale, e improvvisamente si ricordò, come se qualcuno avesse soffiato su un mobile pieno di polvere, che i clienti non si fanno aspettare.
Non le disse di entrare, non le chiese che torta volesse: non poteva fare nulla di tutto ciò. Fortunatamente, la Cameriera la seguì in casa senza fiatare, passò un fazzoletto su uno sgabello e si sedette in attesa. Alla strega, improvvisamente, dispiacque di non avere nemmeno una torta pronta in vetrina – da quanto tempo non passava lo straccio su quella vetrina! – e dispiacque di aver smesso di cucinare torte. Un pensiero la rattristì: aveva smesso di cucinare, che gran peccato! Se ne era accorta solo allora.
Subito, la colse la paura che quella missione che le era stata assegnata, cucinare una torta, fosse troppo per lei. Sperò che andasse bene una torta qualsiasi, non sapeva nemmeno cosa sarebbe stata in grado di ottenere racimolando dagli ingredienti rimasti in casa – lo zucchero? Invaso dalle formiche. La farina? Caduta, sparsa nel cassetto. Il miele? Non rimaneva che il fondo del barattolo.
Con mani tremanti, sapendo di partire col piede sbagliato sin dal principio, la strega cominciò a impastare, senza il coraggio di alzar gli occhi sulla Cameriera. Dovette combattere con il timore di non essere all'altezza: non era forse troppo vecchia, il suo cuore troppo malandato, per poter reggere un compito del genere? Se fosse andata male, sarebbe morta di dolore. Tanti pensieri le affollarono la mente, ma la strega sapeva, in cuor suo, che non aveva il coraggio di accompagnare la Cameriera alla porta. No, le avrebbe cucinato qualcosa, qualsiasi cosa, doveva provarci!
Senza nemmeno pensarci, aveva cominciato a impastare la Torta Millecolori. Si maledisse, quando se ne accorse, perché sapeva di aver finito le arance, il gelsomino era seccato, e quella non era certo la stagione per le fragole. Metà dell'impasto le cadde per terra. L'altra metà fu bruciata in forno – e non perché la strega non fosse stata attenta. Perdendo l'abitudine di cucinare, purtroppo, il risultato non poteva che essere questo.
La strega non aveva nemmeno mai partorito, nel sonno, un incubo del genere. Quello che si aspettava era un rifiuto della Cameriera, una porta che sbatteva, e lo sapeva, sarebbe rimasta da sola, di nuovo. Avrebbe pianto, forse, accasciandosi a terra, priva di forze.
Tuttavia, non aveva il coraggio di presentarsi davanti alla Cameriera a mani vuote. Prese la parte superiore della torta, quella che non si era incrostata sul recipiente, la mise in un piattino e accelerò il passo verso la cliente.
Affrettandosi per servirla, ansiosa com'era, fece cadere il dolce. Non rimase che una briciola: una briciola di Torta Millecolori mezza bruciata, talmente piccola che non si sapeva neppure di che colore fosse. La strega arrivò di fronte alla cliente e tacque, con occhi spalancati e labbra sigillate in una morsa impaurita.
La Cameriera, che aveva atteso tanto, senza farsi pregare prese tra indice e pollice la briciola, accompagnandosi con l'altra mano per paura di farne cadere un millesimo, e la mise in bocca.
«È la cosa più buona che io abbia mai mangiato.»
Il cuore della strega batteva forsennato già prima del complimento inatteso. Respirò rumorosamente, mentre la Cameriera le scostava i lunghi peli dal volto per osservarla. La ragazzina le rivolse un gran sorriso, prima di stamparle un bacio sulle labbra.
Tutto si fece nero, poi bianco. Lampi e tremori le scossero le viscere nel profondo fino alla superficie, facendole venire la pelle d'oca. Le sue cellule battevano come forsennate le une sulle altre, urtandosi e bisbigliando fra di loro: "Ohimè! Sentito cosa è successo?", "Sì! Non riesco a smettere di tremare!"
Quando la strega si riprese, era ormai da sola. Pioveva a dirotto fuori dalla porta di casa sua, nel suo giardino, ma non riusciva nemmeno a rendersene conto.
I compaesani se ne accorsero, eccome! Pioggia sulla casa della strega? Non se ne vedeva da anni. Tutte le nuvole evitavano il tetto di quella casa, c'era stato il sole per un tempo infinito su quel terreno.
Nessuno disse "era pure ora". Nessuno disse "un po' di acqua per quelle povere piante!". Nessuno disse "chissà se alla vecchiaccia è venuto un colpo". Nessuno sapeva cosa dire.
Che stregoneria era mai quella?
Ma le sorprese non erano finite qui. Presto la Cameriera, si chiamava Erica, ritornò e chiese un'altra torta. Stavolta la strega non si fece trovare impreparata. Aveva le dispense piene di cibo e tutti i ripiani erano stati spolverati e tirati a lucido, mentre la vecchietta ignorava i dolori alle giunture. Non smise mai un attimo di tremare ogni volta che si rimetteva a cucinare ed era per la Cameriera, ma i risultati erano sempre migliori di volta in volta.
La Cameriera tornò spesso da lei, e alla fine rimase e basta.
Pian piano i peli caddero. La strega non se ne accorse nemmeno, presa com'era dalla cucina e dal giardinaggio, ma Erica era sempre dietro a raccogliere la peluria che altrimenti avrebbe formato scie sul terreno, seguendo l’affaccendamento di Mina. Un giorno, Mina si ritrovò glabra con pulcino appena nato. Le macchie sulla sua pelle cominciarono a sbiadirsi un po', come i tentativi di cancellare un tatuaggio permanente. La sua schiena tornò dritta, e finalmente Mina tornò ad essere la strega alta che era sempre stata.
Possibile che fosse diventata curva come un ramo carico di frutti? Non riusciva a capacitarsene. Ora che vedeva di più, e vedeva più lontano, molte cose le erano più chiare.
La vetrina era stata vuota per troppo tempo. Il locale, senza sedie e tavoli, non aveva nessun'altra destinazione ed era troppo triste. Il giardino intorno soffriva e reclamava acqua e radici nuove.
Pian piano tornò la vita. Un giorno si affacciarono alla porta alcuni vecchi clienti affezionati a chiedere una fetta di torta. Mina non fece nemmeno in tempo a dire "aspettate", che le sedie erano state scese dai tavoli, e il sorriso di Erica diceva "prego!".
Era sempre così. Laddove non era Mina ad agire, laddove pensava "cielo, potrei piantare una rosa in quell'angolo!" e correva verso il giardino, ci trovava già un roseto. Erica, sicuramente, sapeva il fatto suo.
«Tu sei una fata» le diceva Mina talvolta.
«Ma cosa dici, sciocchina! Sono solo la Cameriera» rispondeva lei, con la sua voce cristallina. Sembrava un tintinnio di campanelle d'argento.
Come poteva dire che non ci fosse magia in lei? Aveva fatto la magia più grande di tutte. Aveva portato la vita.
E poi, fu la vita ad arrivare a loro. Nacque un bambino, come nascono i bambini delle streghe: davanti alla soglia di casa, un giorno, avvolto in un lenzuolo caldo, senza sapere come. Tutto l'amore che era in eccesso in quelle mura, e trasudava da ogni briciolo di torta, saliva al cielo con il fumo del camino, poteva essere donato a una nuova creatura, e quello era il momento. Albino venne su tra il profumo dei dolci appena sfornati e i libri di magia, tra corvi gracchianti e gatti bisognosi di coccole, tra rose spinose e tralci di edera rampicante. Quando divenne abbastanza grande dimenticò le sue origini, come succede a tutte le streghe e gli stregoni, e se ne andò per la sua strada, come era giusto che fosse.
Erica morì e la strega rimase sola. Ma il fatto è che, fin quando una cosa è naturale, è sempre accettabile. È la normale dose di amaro della vita. La strega lo sapeva. Non se ne rammaricava.
L'affetto che aveva ricevuto le sarebbe bastato per tutta la vita che le era rimasta, che fosse un secolo o più. Mina non soffrì mai di solitudine. Gli anni passarono, accumulandosi sul suo corpo nel modo giusto: il suo busto divenne sempre più magro, la testa canuta e tantissime rughe piccole e grandi a solcarle il corpo, come l'acqua scava la terra e crea argini di un fiume. Ogni strega di buon senso da giovane si augura di guadagnare quell'aspetto nodoso in età anziana, ma la verità è che quando arriva il momento non ce ne si accorge nemmeno. Mina divenne cieca a se stessa e insensibile a tutto ciò che lo riguardava, molto più concentrata sulla terra e su ciò che la circondava: il benessere dei suoi clienti, quello delle piantine che le crescevano intorno, il pensiero affettuoso per Albino, ormai adulto e lontano.
Trovò un punto abbastanza spazioso nel giardino, ed era lì che stazionava spesso. Ripeteva sempre ai clienti che venivano a trovarla: «Mettetemi due corde e una barra di legno, per farne un'altalena per i bambini.» In paese non lo sapevano, ma è così che le streghe invecchiano quando hanno vissuto bene: alla loro morte diventano alberi.