The weight of visions
Il rapporto dell’obitorio non mi aveva fatto chiudere occhio. Le informazioni non avevano sciolto i miei dubbi, anzi, li avevano moltiplicati. L’assassino aveva inflitto alla vittima una morte lenta, dolorosa, quasi deliberatamente crudele? Forse voleva mandare un messaggio. Ma a chi? C’erano connessioni con il caso Kirsten, quello che mi teneva sveglia da settimane? E poi c'era l'e-mail. Chi mi aveva inviato quel messaggio e perché? Avevo bisogno di una pausa, di spazio per respirare, e l’allenamento con Noah era il modo perfetto per farlo. Dovevo liberare la mente, almeno per un po’.
Era presto, l’alba filtrava appena dalle finestre della palestra, e il silenzio era rotto solo dal rumore metallico dei pesi e dal ronzio sommesso degli istruttori che sistemavano gli attrezzi. Il posto sembrava sospeso, come se aspettasse che la vita quotidiana iniziasse a scorrere. Io e Noah avevamo preso l’abitudine di venire qui una volta a settimana. Era il nostro rituale, un modo per scaricare la tensione, lontano dai casi, dai rapporti, dalle carte da firmare.
Mentre legavo i miei capelli in una coda alta, Noah si avvicinò.
"Hey Emma, sembri lontana anni luce. Va tutto bene?"
La sua voce era calma, ma il suo sguardo non lasciava scampo. Non c’era modo di nascondere il fatto che qualcosa non andava. Lavorando insieme da così tanto, conosceva i miei silenzi meglio di chiunque altro.
"Sto bene, davvero,"
risposi con un sorriso forzato, cercando di sembrare convincente. Non avevo voglia di condividere i miei pensieri sul caso. Non ora.
"Perché non dovrei stare bene?"
Lui mi guardò per un attimo, poi, accennando un sorriso, scrollò le spalle.
"Ok, se lo dici tu. Facciamo un po' di riscaldamento, e dimmi quando sei pronta per salire sul ring."
Fece l’occhiolino mentre si allontanava verso la panca dei pesi. Lo osservai mentre si allungava e sollevava con precisione il bilanciere. Era il suo modo di allontanare i pensieri, proprio come il mio. Lo capivo. Ultimamente aveva i suoi problemi. La sua ragazza non sopportava più l’idea che facesse il poliziotto, ed era sempre più nervosa. Ma Noah amava il suo lavoro, e io ero orgogliosa di lui per la dedizione con cui lo svolgeva.
Cominciai il mio riscaldamento con qualche esercizio di stretching. Il tappetino sotto di me era freddo, e i muscoli si allungavano piano, come a risvegliarsi dopo una notte di tensione. Guardai Noah di tanto in tanto, persa nei miei pensieri. Qualche serie di addominali, poi flessioni, infine squat per preparare le gambe. Sentivo la tensione sciogliersi lentamente. Dovevo concentrarmi solo sul presente. Niente più rapporti, niente più corpi all’obitorio, solo il ritmo costante del mio corpo che si muoveva.
Dopo circa quindici minuti eravamo pronti. Il personal trainer ci portò le protezioni. A me diede quelle rosse, il mio colore preferito, e mi sembrò un piccolo segno di conforto. Indossai il casco e notai Noah che faceva lo stesso.
"L’ultima volta mi hai buttato giù,"
scherzò mentre si sistemava i guanti,
"ma oggi è il giorno della rivincita."
Sorrisi, una smorfia complice. Era tutto ciò di cui avevo bisogno per alleggerire l’atmosfera. Una battuta, un po’ di leggerezza, e la pesantezza che mi gravava addosso sembrava scivolare via. Finito di indossare le protezioni, saltellai sul posto, sentendo i muscoli rispondere prontamente.
"Signore e signori, benvenuti a Las Vegas!"
esclamai, fingendo di essere l’annunciatrice di un grande incontro. Immaginai di avere un microfono in mano mentre Noah mi guardava, divertito.
"Per l’incontro di oggi: Noah Richardson il terribile contro Emma Roberts la sanguinaria!"
Il suono della mia voce rimbombava nella palestra vuota, e Noah rise mentre si avvicinava al ring. Non c’era nessun altro a parte noi, il personal trainer era uscito un momento. Era il nostro mondo, almeno per quell’ora. E per una volta, non dovevo essere Emma Roberts, detective di polizia.
Sorrisi sorniona mentre parlavo e Noah incrociò le braccia, cercando disperatamente di trattenere una risata. Il suo tentativo di serietà era quasi comico.
“Ah sì? Chi è che rompe continuamente le scatole sul fatto che mi comporto come un bambino?”
cercò di mantenere il tono serio, ma alla fine scoppiò a ridere. Quella scena era un classico tra di noi, e io non potei fare a meno di ricambiare il sorriso, anche se lo facevo spesso sentire come se fosse sotto tiro.
Era vero che a lavoro lo bacchettavo, forse anche troppo. Noah era più giovane di me di sette anni, ma a volte il divario sembrava ancora più grande per via del suo carattere spensierato. Il suo modo di essere infantile contrastava con il mio atteggiamento fin troppo serio, ma forse proprio per questo funzionavamo così bene insieme. Dove lui alleggeriva l'atmosfera, io la riportavo sulla retta via. Era una dinamica che ci bilanciava alla perfezione, e questo faceva di noi una squadra affiatata, sia sul campo che nella vita reale. Non avrei mai potuto chiedere un partner migliore.
L'incontro iniziò senza preavviso. Combattevamo ad arti marziali miste, un retaggio dei giorni all'accademia che avevamo portato con noi. Per noi era diventato un modo per restare in forma e mantenere la mente agile. Ma non era solo questione di allenamento. Il confronto fisico con Noah era sempre una sfida interessante, e mi teneva costantemente sulle spine. Entrambi sapevamo leggere l’altro, e non era mai un combattimento semplice. Mentre sgombravo la mente dai pensieri, mi preparai ad affrontare l’avversario davanti a me.
Piega leggera le ginocchia per avere stabilità, gli avambracci in posizione per proteggere il corpo. Noah partì subito all'attacco con un calcio diretto da sinistra, che parai senza difficoltà. Appoggiando il peso sulla gamba destra, scattai verso di lui con un pugno al fianco, ma lui lo schivò con una prontezza che mi lasciò di stucco. La danza del combattimento cominciò davvero in quel momento. Colpi che venivano schivati, parati, o che impattavano, si susseguivano in un flusso costante.
Il sudore iniziava a scorrere lungo la mia schiena, impregnando il tessuto del top sportivo che portavo, ma non mi distraeva. Sentivo la tensione sciogliersi dai muscoli con ogni movimento. Anche Noah stava cedendo un po’, lo vedevo dal modo in cui il ciuffo biondo si afflosciava sulla fronte, bagnato di sudore. Nessuno di noi, però, aveva intenzione di cedere.
Quando mi arrivò un colpo alla spalla, reagii con rapidità. Mi abbassai, scivolai avanti e colpii Noah al torace con abbastanza forza da fargli piegare la schiena e togliergli il respiro per un attimo. Non gli diedi tregua, girai su me stessa e caricai un calcio, centrando in pieno l’elmetto blu che portava. Noah cadde sul ring con un gemito, alzando la mano in segno di resa.
“E va bene, anche stavolta. Ci vediamo settimana prossima,”
disse con una risata strozzata, massaggiandosi il torace.
“Voi due ci andate troppo pesante,”
scherzò il trainer, che ci osservava dall'esterno del ring.
Noah scosse la testa, scavalcando le corde con la solita agilità.
“Lo fa perché mi vuole bene,”
replicò con un sorriso. Io lo seguii, scendendo dal ring in modo più calmo e meno teatrale, ma con un’aria di soddisfazione.
Mentre ci toglievamo le protezioni e le riponevamo nell’armadietto assegnato, sentivo una calma tornare a impossessarsi di me. L'allenamento era servito a scaricare quella tensione che mi attanagliava da giorni, ma mentre mi preparavo a tornare al lavoro, una parte di me sapeva che la pressione sarebbe ritornata subito.
“No riesci a toglierti quel caso dalla testa, eh?”
Noah mi guardava con la solita espressione di chi sapeva già la risposta.
“No,”
ammisi, sospirando.
“Ho la sensazione che manchi un pezzo del puzzle. Qualcosa non torna.”
Noah scrollò le spalle, chiudendo l’armadietto con un gesto deciso.
“Quel tizio è un pazzo, fine della storia. Non c’è da rompersi troppo la testa.”
Per lui era tutto semplice, un puzzle già risolto. Ma io non potevo fare a meno di scavare più a fondo. Avevo quella mente analitica, e finché non avevo tutte le risposte, non potevo fermarmi. Noah, invece, cercava sempre di ricordarmi di non prendermi troppo sul serio, di godermi di più le giornate. Ma non ero fatta così.
“Voglio trovarlo e assicurarmi che non faccia più niente di simile,”
dissi, convinta.
“Lo prenderemo,”
rispose Noah con un sorriso rassicurante.
“Un assassino che lascia così tanti indizi non andrà lontano.”
Gli feci un debole sorriso mentre scioglievo i capelli.
“Spero sia così, davvero.”
“E adesso?”
chiese Noah mentre ci incamminavamo verso l'uscita della palestra.
“Vuoi continuare o andiamo a prenderci un centrifugato?”
“No, vado a casa, mi faccio una doccia e mi rimetto a lavoro”
dissi, afferrando l'asciugamano che avevo lasciato all'inizio dell'allenamento vicino al tappetino. Noah mi osservava, con il solito sorriso rilassato, mentre beveva dalla bottiglietta d’acqua per reidratarsi.
“Perfetto, farò lo stesso allora. Ci vediamo in centrale?”
annuì alle mie parole e io mi incamminai verso l’uscita.
La doccia era esattamente ciò di cui avevo bisogno. L'acqua calda scivolava sulla mia pelle, lavando via il sudore, la tensione, e per un momento anche i miei pensieri. Mi presi un attimo per riflettere, per liberare la mente dalle immagini della scena del crimine. Ogni tanto il caso di Kirsten tornava in superficie, come un quadro incompleto che mi rifiutavo di lasciare irrisolto.
Mi vestii in modo pratico: un maglioncino nero, jeans scuri e stivaletti, adatti al freddo che mi aspettava fuori. Una volta pronta, mi guardai un attimo allo specchio. I capelli, ancora leggermente mossi, incorniciavano il viso. Di solito non mi preoccupavo troppo dell’aspetto, soprattutto in quelle giornate intense in cui l’unica cosa che contava era il lavoro. Li lasciai sciolti. Non avevo il tempo né la voglia di metterli in ordine perfetto.
Scesi in strada e guidai fino alla centrale. Il tragitto fu breve ma sufficiente per farmi riflettere ancora. L’omicidio. Il sangue. Le impronte. Era tutto troppo... esibito. Come se l’assassino volesse che lo trovassimo. Ma perché?
Arrivata alla centrale, trovai Noah fuori, a chiacchierare con alcuni agenti. Mi sorrise appena mi vide, e mi avvicinai a lui, scostandomi i capelli dietro le orecchie.
“Sembra che io sia arrivato prima di te, e pensare che eravamo in due in doccia da me”
scherzò, con un tono divertito.
“Noah!”
esclamai con un piccolo sorriso, dandogli un buffetto sul braccio.
“Sempre il solito.”
Camminammo verso l’entrata della centrale, ancora scherzando, ma subito Noah cambiò tono.
“Comunque, Logan mi ha consegnato il libro che abbiamo trovato sotto il tavolo nel diner. L’ho lasciato in ufficio.”
“Perfetto, ci lavoreremo più tardi,”
risposi, mentre entravamo. Ma non facemmo in tempo a raggiungere le scale che l’ispettore capo, Jiminez, ci intercettò con uno sguardo serio. Senza dire una parola, ci fece cenno di seguirlo. Non c'era bisogno di chiedere, sapevamo entrambi che ci aspettava una conversazione importante.
Il suo ufficio era imponente, con la solita scrivania massiccia che dominava la stanza. Ci sedemmo di fronte a lui, le nostre sedie separate dalla sua solo da quella distesa di legno lucido e dalla targhetta dorata con il suo nome. L'atmosfera era seria, quasi tesa.
“Come mai ci ha chiamati qui, ispettore Jiminez?”
chiesi con un tono professionale, accavallando le gambe in modo elegante. Lui ci osservava con i suoi occhi chiari, analizzando ogni nostro gesto, prima di rompere il silenzio.
“Ci sono sviluppi sul caso del diner?”
domandò, puntando lo sguardo prima su di me, poi su Noah. Il mio sguardo non vacillò, mantenni la calma, ma notai Noah abbassare leggermente gli occhi, come se sentisse il peso dell'autorità dell'ispettore.
“Abbiamo qualche pista, ma nessun sospetto concreto per ora. Ci sono alcuni elementi problematici in questo caso,”
risposi, mantenendo le mani giunte sul ginocchio. Noah aggiunse la sua opinione subito dopo.
“Di sicuro non è stato un omicidio premeditato o a scopo di rapina,”
disse Noah. Annuì leggera, d'accordo su quel punto. Il caso aveva troppe anomalie per essere classificato come un semplice furto andato male.
L’ispettore, seduto sulla sua sedia di pelle, sembrava riflettere profondamente.
“Qualche teoria?”
Noah prese l’iniziativa:
“Sembra il modus operandi di uno psicopatico. Impronte e sangue ovunque, non si è preoccupato di coprire le sue tracce o di evitare testimoni. È come se ci avesse lasciato il suo nome e indirizzo. Un caso tipico di omicidio sicuramente ordinato da una forza superiore.”
Le parole di Noah avevano senso, ma una parte di me non era del tutto convinta. Sentivo che c'era qualcosa di più, qualcosa che non stavamo vedendo.
Un assassino che agisce su ordine di qualcuno potrebbe spiegare la mancanza di predeterminazione, riflettei tra me e me, mentre osservavo Jiminez. Volevo vedere come avrebbe reagito a questa teoria.
L'ispettore rimase in silenzio, pensieroso, portando entrambe le mani al viso, come se stesse rivedendo ogni dettaglio del caso nella sua mente. Anche se Noah aveva dato una spiegazione logica, non potevo fare a meno di sentire che mancava ancora di un pezzo importante.
“Ci sono probabilità che uccida ancora?”
chiese l’ispettore, la sua voce era secca, quasi spietata. Sentii la responsabilità del momento gravare su di me. Risposi senza esitazione, anche se sapevo che la mia risposta non avrebbe offerto certezze.
“Non abbiamo sufficienti elementi per stabilirlo con certezza. Potrebbe rifarlo domani o sparire per sempre.”
Le mie parole erano oneste. Non volevo dare false speranze, soprattutto perché, in fondo, non avevamo nulla di concreto. L'ombra di un assassino seriale aleggiava su tutto, ma non potevamo ancora definirlo tale. Le incertezze erano troppe.
Lo sguardo di Jiminez si incupì, le sue labbra si piegarono in una smorfia di insoddisfazione. La tensione crebbe nella stanza, palpabile come una corda tirata al limite.
“Voglio che incastriate questo squilibrato al più presto!”
La sua mano colpì la scrivania con forza, e il suono secco mi fece sbattere le palpebre per un istante, ma non mi scomposi. Accanto a me, Noah trasalì leggermente, ma cercò di mantenere la compostezza.
“Avete carta bianca,”
aggiunse l’ispettore con tono deciso, facendoci un cenno per indicare che l’incontro era concluso. Ci alzammo, e mentre mi avviavo verso la porta, la sua voce mi richiamò.
“Detective Roberts, questo è suo,”
disse porgendomi un foglio. Lo presi e lo guardai. Era il permesso per accedere agli archivi, esattamente ciò di cui avevo bisogno. Sorrisi appena, un gesto minimo che conteneva sia gratitudine che determinazione.
“Grazie, ispettore,”
dissi con un cenno del capo prima di uscire dall’ufficio.
Una volta fuori, piegai il foglio in due, stringendolo nella mano, mentre camminavo accanto a Noah. La frustrazione dell’ispettore era comprensibile, voleva risultati immediati, un sospettato da interrogare, un arresto che potesse placare la sua ansia. Ma quel caso era un labirinto di dettagli confusi, e non potevamo permetterci di correre. Ogni passo doveva essere calcolato. Sapevo che ci aspettava ancora molto lavoro, e la pressione non faceva che aumentare.
“Ok, qual è il piano?”
chiese Noah, sistemando la felpa blu scuro che portava. Era il tipo di domanda che mi piaceva sentirgli fare, dimostrava che era già pronto ad agire.
“Controlla negli ospedali se hanno un uomo con ferite da arma da taglio,”
risposi senza esitare. Il nostro assassino era rimasto ferito durante l’omicidio, e c’era la possibilità che avesse cercato cure mediche.
“E controlla nelle cliniche psichiatriche. Chiedi se qualche loro ex paziente potrebbe essere in grado di compiere un gesto simile.”
Se la teoria dello psicopatico reggeva, dovevamo esplorare anche quella pista.
“Ok, c’è altro?”
domandò Noah, il suo tono era serio e concentrato.
“Il libro dell’assassino, hai detto che è nel nostro ufficio. Bene, vedi se riesci a ricavarne qualcosa.”
Era un compito che poteva sembrare secondario, ma ogni dettaglio poteva rivelarsi fondamentale.
“Perfetto, mi metto subito al lavoro,”
rispose con prontezza, superandomi con passo rapido verso l’ufficio. Poi si fermò, voltandosi per chiedermi:
“E tu che farai?”
C’era una traccia che mi tormentava da giorni, qualcosa che dovevo verificare di persona.
“C’è una cosa che devo controllare,”
risposi con un sorriso accennato, un piccolo segno di fiducia e mistero.
Gli voltai le spalle e riaprii il foglio che mi aveva consegnato l’ispettore. Gli archivi erano la mia prossima tappa, e avevo la sensazione che potessero fornirmi le risposte che cercavo. Forse lì avrei trovato la chiave per sbloccare quel puzzle maledetto. Ero determinata a scoprire la verità, e niente mi avrebbe fermata.
Liam POV
Non sapevo come avrei passato quella giornata, ma alla fine decisi di andare a trovare i miei genitori. Il cimitero era il luogo dove potevo riflettere, dove il peso della loro assenza si faceva sentire in modo opprimente, ma in qualche modo anche consolante. Avrei trovato lì anche Mason. Mio fratello mi aveva scritto mentre mi avviavo e aveva insistito per unirsi a me. Non avevo rifiutato la sua compagnia, anche se una parte di me desiderava essere solo. Dopotutto, c'era stato un tempo in cui avevamo avuto una distanza tra noi, una frattura che non volevo si riaprisse. Nonostante tutto, avevo bisogno di lui, anche se non lo ammettevo apertamente.
La neve copriva il vialetto del cimitero, trasformando tutto in una distesa bianca e silenziosa. I miei passi erano l’unico suono, un lieve scricchiolio sotto le scarpe. L’aria fredda pungente mi tagliava il viso, rendendo ogni respiro doloroso. Non c'era nessun altro in giro, il gelo aveva scoraggiato chiunque a venire a far visita ai propri cari. Molte tombe erano prive di fiori, e quelli che c’erano erano ormai congelati, come se la morte si fosse presa anche loro.
Stringevo tra le mani un piccolo mazzolino di rose e garofani, i fiori preferiti di mia madre. Anche se sapevo che sarebbero presto appassiti sotto il gelo, sentivo l’impulso di portarli, di fare almeno quel piccolo gesto. Quando arrivai alla tomba dei miei genitori, Mason era già lì. Mi accolse con un sorriso gentile.
“Sono felice che tu sia qui,”
sussurrò, rispettando il silenzio solenne che regnava in quel luogo. Ricambiai il sorriso, anche se con fatica.
Mi chinai per posare i fiori sul marmo freddo della tomba. Micheal Martinez e Sophia Hughes. I loro nomi erano incisi nel marmo insieme a una fotografia di loro due, sorridenti e felici. Li guardai per qualche secondo, sentendo un nodo formarsi in gola. Non era solo la tristezza, era il senso di colpa. Mi resi conto di quanto tempo fosse passato dall'ultima volta che ero venuto a trovarli. La vita aveva preso il sopravvento, e io avevo dimenticato di rendere omaggio a chi mi aveva amato incondizionatamente.
Carezzai la foto con la mano, come a cercare un contatto, una connessione con loro. Poi mi rialzai, raggiungendo Mason. Eravamo solo noi due, lì, in quel momento. La nostra famiglia era ridotta a quei ricordi e a quella tomba, ma erano le uniche persone di cui avevo davvero bisogno in quel momento della mia vita. Niente andava per il verso giusto, ma almeno lì trovavo un po’ di pace.
Congiunsi le mani davanti a me, chinando il capo in silenzio. Mason fece lo stesso, ma lo sentii pregare sottovoce. Non lo seguii. Non ero lì per pregare. Non credevo in nessuna divinità, non dopo tutto quello che avevo passato. Ero lì per riflettere, per cercare di ricordare i momenti felici, anche se erano sempre più difficili da richiamare alla mente.
Dopo qualche istante di silenzio, Mason interruppe i miei pensieri.
“Come stai, Liam?”
chiese in un sussurro, con una preoccupazione evidente nella sua voce. Avrei potuto mentire, come facevo sempre, dire che andava tutto bene. Ma non ci riuscii. C’era troppa verità che premeva per uscire.
“Non bene,”
ammisi, continuando a fissare la tomba.
“Ho delle allucinazioni, vedo cose che non credo siano reali… ho paura di star impazzendo, e… in più ho delle visioni.”
Mason rimase in silenzio per un attimo, ma lo sentii irrigidirsi accanto a me.
“Visioni?”
chiese, la sua voce più tesa. Annuì senza dire altro, incapace di spiegare meglio quel caos nella mia mente.
“Come quella volta da bambini?”
continuò lui, il tono serio. Sollevai lo sguardo per guardarlo negli occhi.
“Quale volta?” Non riuscivo a ricordare di cosa parlasse.
“Quando vivevamo alla base militare, ricordi?”
annuì mentre i frammenti di ricordi cominciavano a tornare. I nostri genitori erano scienziati e per anni avevamo vissuto nella base, circondati da segreti e rigide regole.
“Avevi sette anni, io ne avevo quasi dieci. Quel pomeriggio eravamo con Alexander, Ethan e Daniel.”
Sentire quei nomi mi fece tornare alla mente tre bambini che conoscevamo, figli di altri impiegati della base.
“Volevamo giocare a nascondino nell’hangar 2, anche se era vietato. Ma tu non volevi venire. Ti prendevano in giro, ti chiamavano strano perché stavi sempre da solo.”
Sì, lo ricordavo. Da bambino preferivo la solitudine. L’idea di infrangere le regole mi spaventava, e non volevo entrare in quell’hangar. Ma alla fine li avevo seguiti. Mason continuò.
“Ci hai raggiunto, e ci hai salvato. Beh, non tutti… Daniel…”
Sentii il suo respiro interrompersi.
“Daniel è rimasto dentro.”
Le sue parole mi colpirono come un pugno allo stomaco, riportandomi indietro a quel giorno. Ricordai la paura, la tensione, e poi la visione. Avevo visto l’esplosione prima che accadesse, una fuga di gas che nessun altro aveva notato. Avevo avvertito Mason e gli altri, ma Daniel non mi aveva creduto. Pensava fossi pazzo. E quando l’esplosione colpì, Daniel non aveva avuto scampo.
Mason mi guardò negli occhi.
“Hai detto di averlo visto prima che succedesse. Ci hai salvati.”
Annuì, sentendo il peso di quei ricordi ricadermi addosso.
Per la mente di un bambino di sette anni, affrontare l’idea di perdere un fratello o anche solo di trovarsi di fronte alla morte di qualcuno era impensabile. Era stato troppo, troppo per me, e l’avevo sepolto in un angolo della mia mente, sperando di dimenticarlo. Ma ora che Mason me lo stava riportando alla luce, non potevo più ignorarlo. Non era la prima volta che avevo quelle visioni, ma perché stavano tornando adesso, dopo così tanti anni? Nessuno dei due sembrava avere una risposta.
"Non ha comunque senso, Mason,"
dissi, il tono della mia voce tradiva frustrazione e confusione.
"Perché avere queste visioni? Da cosa sono scaturite?"
Il mio respiro era pesante, un sospiro che sembrava emergere da anni di interrogativi irrisolti. Posai la mia mano su quella di Mason, che era ancora appoggiata alla mia spalla, cercando conforto nel contatto fisico. I miei occhi scuri incontrarono i suoi.
Speravo che, in qualche modo, avesse una spiegazione, una chiave che potesse sbloccare quel mistero. Ma sapevo che non poteva darmela.
Mason abbassò per un momento lo sguardo, interrompendo il contatto fisico, ma mantenendo quello visivo, come se stesse cercando le parole giuste.
"Sai, Liam..."
iniziò con una pausa, come se volesse prepararmi a qualcosa di importante.
"Ho fatto delle ricerche ultimamente. Senza fare il tuo nome, ovviamente."
Il mio cuore accelerò, sorpreso da quelle parole. Non mi aspettavo che Mason si fosse spinto così oltre per cercare di aiutarmi.
Le sue parole mi catturarono, e rimasi in silenzio, lasciandolo continuare senza interromperlo.
"Mi hanno parlato di una persona... esperta in fenomeni insoliti, diciamo."
Rimasi a fissarlo, incredulo. Non era da Mason cercare aiuto in cose che non poteva spiegare con la logica o con la fede. Lui, che aveva sempre posto la sua fiducia in qualcosa di concreto, stava cercando di aiutarmi in un campo che sapevo fosse lontano dal suo modo di vedere il mondo.
Schiusi le labbra in un’espressione stupita, incapace di trovare le parole.
“…Ho pensato che forse potrebbe aiutarti. Tieni, questo è il suo indirizzo.”
Estrasse dalla tasca un piccolo cartoncino bianco e me lo porse. Lo presi immediatamente, il cuore che batteva più forte al pensiero che, forse, qualcuno potesse aiutarmi a capire cosa mi stava succedendo. Non dissi nulla, ma l’idea che mio fratello si fosse preso la briga di fare queste ricerche per me mi colpì profondamente.
Senza pensare, mi sporsi verso di lui e lo abbracciai. Era un gesto istintivo, ma carico di gratitudine. Pensavo che Mason non comprendesse davvero quello che stavo passando, che avesse scelto di non affrontare la mia sofferenza. E invece era lì, al mio fianco, cercando di fare il possibile per aiutarmi. Anche se l'indirizzo non fosse stato altro che la porta di un truffatore o di un sedicente santone, il fatto che Mason avesse fatto questo per me contava più di tutto.
Appoggiai il mento sulla sua spalla, stringendolo a me con forza.
"Sai che non credo a queste cose, Liam, ma spero possa esserti d'aiuto in qualche modo,"
disse, la sua voce era gentile, ma con la solita razionalità che lo caratterizzava. Ricambiò il mio abbraccio con calore, e dopo qualche secondo ci staccammo.
"Lo spero anch'io,"
risposi, sentendomi per la prima volta un po’ più confortato. Anche solo la possibilità che qualcuno potesse spiegarmi quelle visioni era sufficiente per darmi un po’ di speranza. Guardai meglio il biglietto che mi aveva dato. Non era un vero e proprio biglietto da visita, solo un semplice cartoncino con un indirizzo scarabocchiato a mano.
L’indirizzo non mi diceva nulla, non era legato a nessun nome, nessun ufficio o organizzazione. Solo una casa, probabilmente. Ma in quel momento non mi importava. Non sapevo chi avrei trovato dietro quella porta: forse un esperto, forse un ciarlatano. Ma ero disposto a scoprirlo, perché qualcosa in me, qualcosa di profondo e nascosto, mi diceva che questa volta avrei potuto trovare le risposte che cercavo.
Mi girai di nuovo verso Mason, stringendo il cartoncino tra le dita.
"Grazie,"
dissi con sincerità. Lui mi guardò, sorridendo debolmente. Non servivano altre parole. Entrambi sapevamo che il cammino verso la verità era appena iniziato.