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Autore: Sapphire_    30/09/2024    0 recensioni
Quando Iris arriva alla festa in maschera di Giovedì Grasso, è convinta di star finalmente vivendo il suo momento da fiaba. Ha un vestito favoloso ed è sicura che, quella sera, riuscirà finalmente ad ammaliare Giacomo per cui ha una cotta da ormai mesi.
Peccato che niente vada come sperava.
Ed è in quel momento, quando ormai si arrende all'idea che nulla di quella serata ha le sembianze di una fiaba, che l'aiuto sopraggiunge inaspettato.
Di certo, non era in quel modo che si immaginava una fata madrina.
Genere: Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
Capitoli:
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Chimes at Midnight








«Hai delle occhiaie spaventose.»
La voce allegra di Giulia mi fece sollevare il capo e la guardai in silenzio mentre con scarsa delicatezza poggiava lo zaino su una delle sedie vuote del bar. Il tonfo che fece fu preoccupante e inarcai le sopracciglia.
«Hai dei sassi lì dentro?»
La mia amica si levò gli occhiali da sole e li poggiò con malagrazia sul tavolino, per poi sbuffare.
«Solo il manuale di micro. Ma l’utilità è la stessa.» mi rispose con una smorfia «Ma non cambiare argomento. A cosa sono dovute quelle occhiaie?» continuò, questa volta meno allegra e più inquisitoria.
Io, di contro, spostai platealmente lo sguardo su una coppia di turisti armati di zainetti e macchine fotografiche, sfuggendo così alla sua occhiata minacciosa.
«Hai chiesto a Elena se ti passa gli appunti?» cambiai argomento.
Quella mattina, dopo essermi trascinata fuori dal letto, vestita e truccata – inutilmente, considerato il risultato raggiunto – ero giunta alla conclusione che, anche se fossi andata alla lezione di microeconomia, molto probabilmente avrei passato quell’ora e mezzo a scrollare ripetutamente un profilo in particolare su Instagram e che, di conseguenza, tanto valeva andare al bar e distrarre la mente con qualcosa di più piacevole.
Come una colazione al bar, ad esempio.
Non avevo nemmeno dovuto proporre a Giulia di unirsi: era bastato un messaggio in cui le comunicavo la mia decisione che lei, ancora in treno da brava pendolare, aveva risposto con un breve ed esplicativo messaggio.
Ci vediamo al bar in campo.
Una cosa che avevo imparato ben presto appena dopo essermi trasferita a Venezia era che, quando gli studenti universitari veneziani nominavano “il campo”, era assolutamente dato per scontato che si facesse riferimento al Campo Santa Margherita, sede di diversi bar a prezzi accessibili per studenti e crocevia a causa di sedi universitarie e biblioteche nelle vicinanze – come la BAUM, a cui mi intrufolavo spesso e volentieri dato che era parecchio vicino a casa mia, anche se non apparteneva al mio dipartimento.
In quel momento esatto mi trovavo proprio lì, in campo Santa Margherita, appollaiata su una sedia a godermi il raro e freddo sole di febbraio e sperando di acquisire un po’ di vitamina D.
«Sì e mi ha già detto di non preoccuparmi.» mi rispose Giulia, ma poi diede un colpo al tavolo con la mano e continuò «Tu però continui a sviare il discorso e sappi che non fai altro che aumentare la mia curiosità.»
Sospirai mentre mi abbandonavo sulla sedia, cosciente che non aveva senso continuare ad evitare di rispondere.
La verità nuda e cruda era molto semplice: evitavo la domanda perché non ero affatto fiera della risposta.
«Ho fatto le quattro del mattino al telefono.» mi limitai a dire, ancora inutilmente speranzosa che lasciasse perdere.
«Perché…?»
Chiaramente non lo fece.
Le lanciai un’occhiata e la trovai che mi osservava con quegli occhi tremendamente celesti che mostravano tutta la sua curiosità – le possibilità che lasciasse perdere rasentavano lo zero, ne ero certa.
«Perché stavo stalkerando Dominik su Instagram.»
La sua reazione non fu affatto inaspettata, ma non per questo riuscii ad evitare di arrossire quando scoppiò a ridere senza ritegno.
Giulia rideva in un modo che, a primo impatto, poteva sembrare finto. Era inutilmente esagerata e per questo attirava diversi sguardi ogni qual volta ridesse – come in quel momento, che fece voltare addirittura la cameriera – ma allo stesso tempo, una volta che la conoscevi, era impossibile evitare di sorridere di riflesso.
Riuscii a mascherare il sorriso che mi sfuggì e sbuffai pesantemente.
«Non c’è niente da ridere.» puntualizzai, ma anche quella volta mugugnai.
«Oh, sì invece.» rispose tra le risate «Com’è che avevi detto?» si interruppe, poggiando il mento sul palmo, lo sguardo sospeso nell’aria «Ah, vero: ‘No, non mi interessa affatto’. Sì, certo.» mi prese in giro imitandomi e mi trattenni da lanciarle il telefono – o il posacenere, o qualsiasi altro oggetto che avessi a portata di mano.
«Ragazze, cosa vi porto?»
A interromperci fu la cameriera, probabilmente attirata dalla risata di Giulia, che ci lasciò di nuovo sole dopo aver preso i nostri ordini.
Giulia continuava a fissarmi, un’espressione gongolante sulla faccia arrossata dall’aria pungente.
«Prima di tutto, il fatto che abbia guardato il suo profilo Instagram non significa niente. Passo ore a guardare anche quelli dedicati a Taylor Swift, per esempio.» puntualizzai.
«E infatti sei fissata.»
«Mi piacciono le sue canzoni!» mi difesi.
«Anche a me, ma non le conosco tutte a memoria.»
«Nemmeno io, solo quelle che mi piacciono.»
«Ovvero-»
«Smettila.» la interruppi, già esausta.
«Di fare che?» mi chiese, il viso una maschera di innocenza.
«Di polemizzare.» replicai «E di sorridere in quel modo.» borbottai.
«In che modo starei sorridendo?»
«Lo sai.» tagliai corto.
Giulia mi osservò ancora un po’ prima di cambiare espressione, rilassandosi in un sorriso meno ironico e scrollando le spalle.
«Va bene, come vuoi.» acconsentì «Ma comunque non c’è nulla di male se anche fossi interessata a lui. Almeno smetteresti di pensare a quel cretino di Giacomo.»
«Punto primo, Giacomo non è un cretino. Punto secondo, non sono interessata a Dominik.» 
«Allora, prima di tutto, ci sarebbero un sacco di cose da contraddire in quello che hai appena detto, ma facciamo finta di no.» rispose inarcando le sopracciglia «Non c’è nulla di male a essere interessata. Soprattutto considerando come vi siete conosciuti.»
La mia mente corse alla ricerca di una risposta arguta, ma non la trovai.
Sbuffai per l’ennesima volta.
«Non sono interessata in quel senso.»
«E in che modo sei interessata?»
La domanda mi colse alla sprovvista, anche se avrei dovuto aspettarmela dopo una risposta del genere. A darmi il tempo di pensare meglio a una risposta fu la cameriera, che arrivò al nostro tavolo con i nostri cappuccini e i cornetti alla marmellata. Il profumo fragrante mi fece brontolare lo stomaco e distrasse anche Giulia, che non perse tempo e diede un morso al proprio cornetto mentre io porgevo i soldi alla cameriera.
Il cornetto fu solo una distrazione momentanea, purtroppo.
«Allora?»2
«Mi incuriosisce.» ammisi, dopo altri secondi di silenzio. Non continuai subito, indecisa su come rispondere – perché la verità era che io stessa non ero sicura di che parole usare per descrivere quell’interesse.
 «Il suo modo di fare è strano. Non capisco se gli sto simpatica o mi aiuta solo perché gli faccio pena.» tacqui, cercando di trovare il filo logico di quel discorso, così sottile che dovevo sforzarmi per seguirlo nella mia mente «Beh, in realtà mi ha detto esplicitamente che mi stava aiutando per pietà la prima volta.» considerai.
«Però l’ha fatto una seconda. Di certo non lo fa perché gli stai sul cazzo.»
«Non è detto. Magari ha uno strano fetish.»
«Magari. O magari ha la sindrome della crocerossina.»
Le parole uscirono in uno sbuffo mentre prendeva un altro morso.
«O crocerossino. Esiste?»
Lei ci pensò un attimo prima di rispondermi.
«Non penso. Ci sono ragazzi che improntano le proprie relazioni sull’assurda convinzione che “io la posso cambiare”?»
«Intendi nella vita reale o nei libri?» inarcai le sopracciglia.
«Comunque, stiamo deviando il discorso.»
La mano sbattuta sul tavolino in metallo diede ulteriore enfasi alle sue parole e il tintinnio dei bracciali risuonò alle mie orecchie.
«Avevamo un discorso?»
«Iris…»
«Va bene, va bene.» alzai le mani in segno di resa «Cosa vuoi sapere?»
«Mi hai detto che fa la triennale di Moda allo IUAV.»
«La magistrale.» la corressi, mentre prendevo un sorso del mio cappuccino.
«Quindi è più grande di noi.» commentò.
«Penso di sì, ma non ho trovato da nessuna parte la sua data di nascita.»
Avevo passato ore a spulciare i suoi profili online, e fino a quel momento le uniche cose che avevo scoperto erano due: che aveva studiato allo IUAV anche in triennale e che era originario di Trieste. Il resto era protetto dal profilo privato e nemmeno le foto nei profili dei suoi amici che avevo minuziosamente analizzato – cosa di cui, a posteriori, mi ero vergognata profondamente – avevano rivelato di più, in quanto si limitavano a sporadiche cene o artistiche foto sui canali, più alcuni servizi fotografici in cui aveva collaborato come stilista.
Queste ultime, in compenso, mi avevano catturata in maniera sorprendente.
Avevo già intuito la sua bravura il giorno della festa, ma oggettivamente la mia conoscenza della moda si riduceva praticamente al nulla, ne ero consapevole, quindi non sapevo se quello che aveva fatto si potesse considerare o meno straordinario.
Ciò però non influenzava il fatto che trovavo incredibilmente belli i suoi vestiti. 
In realtà, avevo sempre avuto un’idea tendenzialmente negativa degli studenti di moda. Nel mio immaginario indossavano vestiti di dubbio gusto, alla continua ricerca di una certa concettualità che mi sfuggiva o che facevo difficoltà a comprendere – come anche l’arte.
Anche su questo mi sono sempre sentita ignorante: per me tutto si poteva distinguere in ‘mi piace’ o ‘non mi piace’. La mia conoscenza di storia dell’arte era alquanto limitata, si riduceva piuttosto banalmente agli autori più famosi, e non era una cosa di cui andavo molto fiera.
In maniera piuttosto sempliciotta, a una giornata al museo durante la quale avrei finito per trascinarmi tra i quadri dalle didascalie che mi confondevano e basta, avevo sempre preferito una libreria.
Eppure, gli abiti di Dominik non sembravano inseguire una moda che si riduceva a vestiti eccentrici che inseguivano un qualcosa di così concettuale da essere del tutto indefinibile.
Se dovevo proprio descriverli in qualche modo, da persona ignorante in materia quale mi sono sempre definita, forse avrei detto che i suoi vestiti sembravano inseguire il concetto di bellezza. Che genere di bellezza fosse era difficile da definire considerando il lato soggettivo, ma mi veniva da definirla sia elegante che graffiante – sempre se quelle parole avessero la stessa accezione che davo loro io anche nell’ambito della moda.
«Se è al primo anno di magistrale, allora ha almeno ventidue anni.»
La voce di Giulia mi trascinò via dalle considerazioni su cui mi ero persa a ricamare mentalmente.
«Penso almeno uno in più.»
O almeno questa era l’idea che mi ero fatta nella mia testa.
«Conosco solo Eleonora che va allo IUAV. Fa arti visive, però potrei provare a chiederle se lo conosce.»
«No!»
Quella singola sillaba mi sfuggì in un modo che stupì anche me stessa.
Giulia inarcò le sopracciglia appena prima di lasciarsi andare in un sogghigno.
«Tranquilla, non dirò che è per te. Sono una buona amica, non come Veronica.»
Il mio sguardo fu sufficiente a far alzare le mani a Giulia, che comunque roteò gli occhi.
«Ok, non dico più nulla.» scrollò le spalle e prese un sorso dal caffè. Per alcuni secondi nessuna delle due parlò e mi persi ad origliare involontariamente il discorso di due signori di fianco al nostro tavolo, impegnati a sorseggiarsi quella che sperai fosse la prima ombra del giorno – commentavano il nuovo negozietto di chincagliera appena aperto e se ne lamentavano.
 «A proposito, ci sono sviluppi?»
La domanda mi colse alla sprovvista.
«A proposito di cosa?»
«Di Veronica e Giacomo.»
Sentire quei due nomi pronunciati insieme mi causarono una smorfia involontaria – eppure, il fastidio che provai dentro di me era meno intenso rispetto all’ultima volta.
«Non ne ho idea.» ammisi «Io e Veronica non parliamo di queste cose. E sinceramente non ho voglia di chiederle niente, mi sentirei a disagio a farlo.»
Giulia sbuffò.
«Non le hai chiesto proprio nulla?»
Lo stupore trapelava dalla sua voce in maniera buffa e resistetti solo alcuni istanti prima di lasciarmi sfuggire un sorriso trattenuto. Chiaramente, capitolai anche quella volta.
«Ci ho provato.»
«E…?»
«E niente. Non sono riuscita a scucirle nulla.» spiegai «Ho cercato di farle una battuta a proposito – le ho chiesto se fossero previste altre “invitanti” cene da Giacomo o qualcosa del genere. Insomma, speravo che lei iniziasse a parlare della situazione da quello spunto.» spiegai agitando le dita per enfatizzare le virgolette mentali.
«Ma non ha funzionato.» mi anticipò Giulia.
«Esatto.» confermai «Mi ha guardato come fa sempre in questo genere di situazioni, ovvero senza grande partecipazione, e mi ha detto che non lo sapeva.»
Mi lasciai andare in un altro sbuffo, questa volta più rumoroso, mentre ripensavo allo scambio avvenuto appena due giorni prima, quando Veronica aveva fatto una delle sue sporadiche improvvisate a casa mia – eravamo vicine di casa, quindi non era così poco frequente che si palesasse direttamente alla porta e ne approfittasse per un caffè.
In quel momento ero sola a casa, Rebecca era a lavoro e Agnese probabilmente in biblioteca a studiare – cosa che avrei dovuto fare anche io, ma avevo deciso di ignorare i miei doveri ed ero immersa nella lettura di uno dei soliti romantasycon i quali sfuggivo spesso e volentieri dalla realtà. Aveva suonato alla porta proprio quando la tensione tra il fae e l’umana di turno iniziava a farsi sentire, e avevo trattenuto a malapena una parolaccia mentre mi dirigevo verso la porta, dicendomi che se fosse stata per l’ennesima volta la vicina del piano di sotto a chiedere dell’altro zucchero le avrei urlato in faccia di andarselo a comprare, dato che la sua era una tappa ormai fissa al nostro pianerottolo. Invece di fronte a me c’era Veronica, che come spesso capitava aveva trovato la porta di sotto aperta – qualcosa mi diceva che molto probabilmente fosse colpa della stessa vicina sempre in carenza di zucchero – e aveva commentato la mia espressione definendola omicida.
Non ci vedevamo da quella sera e non ci sentivamo da altrettanto tempo, ma ero riuscita a mascherare la sorpresa grazie al suo commento e l’avevo fatta entrare. Mentre preparavo il caffè e la sentivo lamentarsi della sua docente di thailandese pensavo ai mille modi per chiederle su come fosse finita la serata senza essere troppo esplicita – temevo che se glielo avessi chiesto chiaramente avrei solo ottenuto un “fatti i cazzi tuoi, Iris”.
Alla fine, mentre le porgevo la tazzina e mi ricordavo solo dopo averle allungato il cucchiaino che lei beveva il caffè senza zucchero, ero riuscita a balbettare “beh, sono previste altre invitanti cene a casa di Giacomo?”.
Mi ero pentita di quella frase appena dopo: aveva puntato i suoi occhi tremendamente verdi su di me e non ero riuscita a capire se quello sguardo fosse perplesso o meno. Di contro, io avevo abbassato i miei dopo poco, fingendo di essere impegnata con lo zucchero, e dopo qualche secondo si era limitata a dire “non ne ho idea”.
Dopo quella frase era calato un silenzio carico di qualcosa che non avrei esattamente definito disagio, ma allo stesso tempo non era confortevole, o perlomeno non per me. Ero rimasta alla disperata ricerca di un argomento di conversazione che potesse seguire a quella domanda piombata dal nulla fino al rumoroso arrivo di Agnese, carica di buste della spesa.
Era una sensazione orribile sentirsi così tanto sulle spine con una cara amica.
Mi rendevo conto che a occhi estranei il rapporto tra me e Veronica poteva sembrare superficiale, ma non lo era affatto. Il suo carattere molto riservato però l’aveva sempre spinta a parlare poco di situazioni sentimentali – inoltre, da quello che avevo capito, era una persona che difficilmente si interessava a qualcuno.
«Secondo me sei ancora in tempo a dirle la verità.»
La voce di Giulia mi tirò via nuovamente dai pensieri in cui ero piombata, e mi accorsi in ritardo di avere avuto per tutto il tempo lo sguardo fisso su una coppietta di adolescenti – la ragazza mi occhieggiava infastidita e mi affrettai a spostare lo sguardo.
«Assolutamente no. Te l’ho già detto.»
Questa volta il mio tono non suonò energico come prima, ma era comunque categorico.
Giulia alzò gli occhi al cielo mentre distrattamente lasciava cadere a terra le briciole del suo cornetto ormai finito, richiamando così diversi piccioni, e iniziava a prepararsi una sigaretta.
«Lo so, e capisco il tuo punto di vista. Ma se fossi Veronica, io vorrei saperlo.»
Quelle parole mi presero alla sprovvista e non riuscii subito a replicare. Il mio sguardo si perse sui suoi movimenti abitudinari e la osservai accendere la sigaretta in uno schiocco del suo clipper arancione.
«Non ci ho mai pensato.»
«A cosa?»
«A cosa vorrebbe lei.» ammisi.
Giulia sembrò allarmata a quelle parole.
«Aspetta, non fraintendere!» allungò le mani verso di me e la guardai perplessa «È giusto che tu metta i tuoi sentimenti in primo piano, insomma, non devi mica pensare solo agli altri in questo genere di situazioni.»
Si morse un labbro e fece un altro tiro di sigaretta.
«Era solo una mia considerazione detta a voce alta. Penso che se lo scoprisse più avanti sarebbe peggio.»
Rimasi in silenzio, intuendo che non avesse finito.
«Non mi sta molto simpatica – o almeno, non a pelle, però tu tieni a lei e mi dispiacerebbe se finiste per litigare per questo.»
Il sorriso mi uscì spontaneo.
«Grazie.»
Giulia sembrò improvvisamente imbarazzata.
«Beh, mi sembra il minimo.» borbottò, mentre scostava lo sguardo dal mio.
Sì, è decisamente imbarazzata, pensai divertita. Ero già pronta a prenderla in giro, ma poi la vidi spalancare gli occhi puntati su un punto impreciso dietro di me.
«Oddio!»
Mi venne spontaneo voltarmi di scatto verso il punto in cui si era immobilizzato il suo sguardo.
«Cosa? Dove guardi?»
I miei occhi però non riuscivano a capire il motivo di quello stupore, o perlomeno non immediatamente: furono necessari diversi secondi in cui il mio sguardo indugiava da studenti in ritardo per le lezioni, a turisti dallo sguardo perso, a signore ferme a chiacchierare, ma poi li vidi.
Camminavano senza apparente fretta ma con il solito passo veneziano. Erano proprio coloro di cui io e Giulia stavamo parlando fino a pochi istanti prima.
Giacomo e Veronica.
Lei aveva l’assurda capacità di sembrare sempre nel bel mezzo di una passerella, non importava cosa avesse addosso. In ogni caso, qualsiasi cosa le calzava a pennello, come quei jeans a zampa di elefante, il maglioncino a collo alto bordeaux e la giacca in pelle oversize.
Giacomo, invece – beh, non che potessi davvero dire qualcosa contro di lui, in realtà. Anche a quella distanza potevo notare la testa colma di ricci scuri e la sua solita giacca pesante in pelle, e la sua figura si amalgamava così bene a quella di Veronica che vederli insieme sembrava terribilmente ma anche meravigliosamente scontato.
«Direi che questo si può considerare uno sviluppo, in un certo senso.»
Non volevo risultare così asciutta con le mie parole, ma non potei farne a meno. Mi costrinsi a spostare lo sguardo tra i due, che seguivano la direzione per Campo San Barnaba, e guardai Giulia con un sorriso che sperò non sembrasse troppo mesto.
I suoi occhi, di contro, si erano invece improvvisamente illuminati.
«Seguiamoli.»
Si alzò di scatto.
«Cosa?»
La mia domanda uscì accompagnata da una risata isterica.
«Seguiamoli! Vediamo dove vanno, se è un appuntamento romantico o si sono solo incrociati mentre andavano a lezione.» continuò convinta Giulia, affrettandosi a prendere il proprio zaino, improvvisamente dimentica di quanto pesasse.
«Tu sei fuori!» alzai le mani «Non mi metterò a seguire una mia amica per sapere se sta uscendo con il ragazzo che mi piace o no! E poi, se ci beccassero?» continuai, e forse dovetti alzare troppo la voce perché i signori di fianchi si voltarono a guardarmi.
Riuscii appena a fare un sorriso di scuse prima che Giulia mi si parasse davanti.
«Non se ne accorgeranno mai! E, anche se fosse, potremmo sempre dire che stavamo andando nella stessa direzione.»
Tacqui mentre mi tirava la manica del giaccone e mi voltai verso Giacomo e Veronica che si stavano per confondere tra la folla.
Il sospiro arreso arrivò scontato alle mie orecchie – una parte di me sapeva già che si sarebbe fatta convincere, probabilmente la stessa che moriva dalla curiosità di sapere se ci fosse qualche novità tra i due.
«Va bene.» borbottai mentre mi affrettavo a prendere la borsa dalla sedia ed alzarmi.
Non commentai il sorriso vittorioso di Giulia, che però non perse tempo e si lanciò all’inseguimento continuando a tirarmi per la manica. Improvvisamente la mia mente era così focalizzata su Veronica e Giacomo che non pensai nemmeno di dirle qualcosa a proposito.
La giornata di sole aveva spinto diverse persone a godersi una passeggiata per le calli veneziane e, se di solito odiavo fare slalom tra la gente troppo lenta mentre correvo a lezione, quella volta apprezzai come fosse un utile ostacolo tra me e Veronica, perfetto per far confondere meglio me e Giulia.
Li seguimmo su per il Ponte dei Pugni, lo stesso che avevo oltrepassato con Dominik qualche sera prima – il pensiero mi attraversò rapido la mente, ma poi ritornai al presente. Ci bloccammo ai bordi del Campo San Barnaba, cercando di capire in che direzione i due sarebbero andati, rischiando di venire investite da un tipico corriere veneziano che girava con il suo ingombrante carrello.
«Stanno girando per Calle San Barnaba.» commentò Giulia sporgendosi in avanti «Forse vanno a San Basilio?»
Non risposi e riprendemmo a camminare, i miei piedi che si muovevano in automatico per quella strada che avevo fatto mille volte per andare a lezione, e ci infilammo per la calle stretta in cui si potevano scorgere sia studenti che turisti che si guardavano intorno più o meno spaesati.
Più avanti, Giacomo e Veronica camminavano e si scambiavano frasi che non potevo udire e mi chiesi di cosa stessero parlando – quando ci pensavo, facevo difficoltà a immaginarmi una reale conversazione tra i due.
Avevo sempre pensato a loro come due mondi separati, ma in quel momento, vedendoli insieme e osservando la collisione di questi due universi che avevo sempre considerato distanti, mi resi conto di quanto fossi ingenua a pensarlo. Venezia, dopotutto, è sempre stata fin troppo piccola.
Proseguivamo dritte, Giulia di fronte a me che continuava a trascinarmi, ma se da una parte morivo dalla curiosità di sapere dove quei due stessero andando, un’altra parte inizia a chiedersi che diavolo stessi facendo.
Aprii la bocca per dire qualcosa – una protesta, un dubbio? Non saprei, perché l’improvvisa venuta di una comitiva di almeno una dozzina di persone invase la calle, costringendo me e Giulia a bloccarci improvvisamente.
«Merda! Odio i turisti.» esclamò Giulia «Andiamo, se no li perdiamo!»
«Altrimenti? Li abbiamo già persi.» commentai, e non ero sicura del perché suonassi così sollevata.
Nessuna delle due era particolarmente alta e tra i turisti probabilmente del nord Europa che invadevano la strada di fronte a noi, la maggior parte oltre il metro e ottanta, era praticamente impossibile vedere cosa ci fosse oltre.
«Non è detto.» disse solo Giulia prima di afferrarmi questa volta la mano e infilarsi tra i turisti, spintonando senza farsi alcun problema mentre borbottava un paio di sorry che non suonavano affatto dispiaciuti. Ci beccammo il borbottio infastidito di buona parte di essi e mi trattenni dal commentare come le calli veneziane non fossero affatto adatte alle comitive, indi per cui erano loro in difetto.
Finalmente superammo la folla e mi sembrò finalmente di poter respirare.
A pochi metri da noi, la calle terminava aprendosi sulle fondamenta e sul canale e Giulia quasi si precipitò alla fine di essa, dove il panorama si apriva ampio, non più ristretto dagli alti muri degli edifici tra cui mi aveva trascinata fino a pochi istanti prima. Pochi passi ed ecco che, di fronte noi, bianca e facilmente riconoscibile, si stagliava la chiesa di San Sebastiano, esattamente di fianco alla sede universitaria di Ca’ Foscari che portava il suo stesso nome – c’ero stata solo un paio di volte, per delle certificazioni linguistiche obbligatorie, ma sapevo fosse una sede abituale degli studenti di lingua.
Mentre Giulia era ancora presa dal guardarsi intorno, la tirai per farla spostare dallo sbocco della calle da cui eravamo appena uscite, per permettere alle persone di circolare liberamente – odiavo chi impediva il passaggio, più di una volta avevo dovuto spintonare persone che a quanto pare non si rendevano conto di essere in mezzo ai piedi. Mi accostai ai tavolini di un bar e il mio sguardo si perse sul via vai di persone che in quel punto era meno denso.
Nonostante questo, Giacomo e Veronica erano ormai del tutto scomparsi alla vista.
«Abbiamo corso per nulla, direi.» abbozzai una battuta.
Ancora non riuscivo a capire se fossi contenta o meno di averli persi di vista. Sentivo il sollievo ma allo stesso tempo la curiosità picchiettava ritmica in un angolo della mia mente in cui cercavo di relegarla e ignorarla.
Giulia sbuffò e incrociò le braccia.
«Non è detto. Non saranno andati lontani da qui! Probabilmente sono andati per San Basilio.»
Tirai via il braccio appena prima che potesse riafferrarmi.
«Giulia, lasciamo perdere.»
La mia amica si voltò stupita verso di me, i suoi occhi azzurri riflettevano lo sconcerto che provava e per quanto avessi voglia di spostare lo sguardo, la fissai.
«Ma come! Non vuoi sapere dove sono finiti?»
Ignorai il tono retorico della sua domanda.
«No.» replicai secca – ma me ne pentii subito come vidi le sopracciglia di Giulia aggrottarsi.
«Cioè, grazie per quello che vuoi fare, ma penso sia meglio così.» continuai «Finirei solo per sentirmi ridicola e pentirmene.»
Abbozzai un sorriso mentre osservavo Giulia inclinare la testa, come a riflettere su ciò che avevo appena detto.
«Sei sicura?»
«Ma certo!» esclamai con una risata – non suonava completamente spontanea, lo sapevo, ma speravo che Giulia glissasse sulla cosa «E poi è meglio così, fidati. Devo imparare a mettermi il cuore in pace.» dissi mentre mi voltavo per riprendere a camminare – dovevo spostarmi da lì, volevo distrarre la mente con qualcos’altro, qualcosa di bello, magari il panorama delle Zattere poco distante.
Non notai la sedia che sporgeva da uno dei tavolini del bar, lo stesso al quale mi ero avvicinata con l’intento di spostarmi dalla strada. Un secondo dopo avevo appena colpito il fianco sinistro con forza lungo il bordo della sedia.
Un ‘ahi’ mi sfuggì più alto del dovuto mentre Giulia esclamava di stare attenta – piuttosto inutile a quel punto.
La mano corse al punto colpito mentre mi maledicevo per la mia disattenzione.
«Devi imparare anche a guardare dove metti i piedi.»
Alzai lo sguardo di scatto, guardando per la prima volta con reale attenzione il bar di fronte alla quale mi ero fermata.
Dominik, abbandonato mollemente sulla sedia, mi osservava con un’espressione che lasciava intuire un sorriso nonostante le sue labbra fossero distese in una linea retta. Forse erano le sopracciglia a suggerire quell’idea, anche se gli occhi scuri brillavano solo di vago divertimento.
Non riuscivo a spiccicare parola e finii per guardare ipnotizzata Dominik che portava alle labbra la sigaretta, la luce del sole che gli arrivava trasversale a illuminargli parzialmente il viso e i capelli che con quella luce non sembravano più solo biondi, ma quasi candidi.
«Ciao Iris!»
Notai in ritardo che non era da solo – com’era possibile che fossi così concentrata su di lui da non notare altri?
Mi affrettai a spingere anche quel pensiero in un angolo remoto della mia mente mentre mi voltavo verso Federica, e guardandola mi chiesi come avessi fatto a non notarla – i suoi lunghi capelli biondo scuro erano legati in una vaporosa coda alta tenuta stretta da una fascia di un vivido verde bottiglia.
A differenza di Dominik che era già rivolto verso di me, Federica si era dovuta voltare per guardarmi.
«Federica! Non vi avevo visti.» esclamai sorpresa. Improvvisamente, concentrai tutta la mia attenzione sulla ragazza che mi fissava con un sorriso vivace.
Non riuscivo a guardare Dominik – mi sentivo in imbarazzo, anche se mi era difficile capire il perché.
«Ero distratta.» aggiunsi, nel tentativo di giustificarmi nonostante non ce ne fosse la necessità.
«Tranquilla, non mi ero accorta nemmeno io.» rispose Federica con un sorriso sbarazzino e io ricambiai di riflesso.
«E su cosa eri distratta?»
La domanda sopraggiunse pungente, appena sarcastica, eppure quando mi voltai a guardare Dominik il suo viso appariva ancora imperturbabile. Non come il mio – avevo finito per assottigliare lo sguardo, ma poi lo vidi abbassare gli occhi scuri sulle mie mani e solo dopo aver chinato anche i miei mi accorsi di come stavo tormentando la manica del cappotto.
Incrocia le braccia al petto e lo vidi aprirsi in un sorrisino.
«Iris?»
Mi voltai verso di Giulia, a pochi passi da me, che mi guardava interrogativa. Mi affrettai a fare le presentazioni.
«Giulia, loro sono Federica e Dominik.»
La voce mi uscì lievemente strozzata mentre pronunciavo l’ultimo nome e pregai che nessuno se ne fosse accorto, ma non riuscii a evitare di lanciare uno sguardo a Dominik – mi guardava di sottecchi, la sigaretta che si avvicinava alle sue labbra in un gesto abitudinario, però questa volta fu lui a spostare per primo lo sguardo.
«Piacere.» si alzò e allungò una mano verso la mia amica, che pareva essersi incantata sui capelli chiari dell’altro.
Giulia reagì con un secondo di ritardo e la osservai mentre si protraeva a stringere la mano dell’altro e poi fare la stessa cosa con Federica, la quale invece aveva iniziato a fissare insistentemente Giorgia.
«Sembravate di corsa.»
Dominik attirò l’attenzione di tutte mentre pronunciava quelle parole verso Giulia, che si era accorta dell’occhiata di Federica e appariva dubbiosa.
«Dovete andare da qualche parte?» continuò, questa volta riprendendo a osservarmi.
Lo sa, pensai solamente.
Sapeva cosa stavamo facendo. Chi stavamo seguendo.
Era assurdo come lo conoscessi poco ma riuscissi comunque a notare il luccichio di bieco divertimento nei suoi occhi neri. Percepivo il tono canzonatorio in quelle parole che a primo impatto suonavano dolci e innocenti, così come notavo il modo in cui mi guardava da sotto le ciglia chiare – intenzionale – appena prima di rivolgere di nuovo l’attenzione verso Giulia e mascherare quei piccoli segnali in un’occhiata di ingenua curiosità.
Evidentemente i suoi occhi neri, messi in evidenza dai capelli resi ancora più chiari dalla luce del sole, non mettevano in soggezione solo me: Giulia lo guardò a malapena prima di voltarsi verso di me, le sopracciglia inclinate in un’espressione di vago panico.
Come ormai spesso mi succedeva di fronte a Dominik, sentii il fastidio montare prepotente dentro di me. Stavo per rispondergli che non erano affari suoi, ma mi bloccai con la bocca aperta – non volevo che Giulia o Federica pensassero fossi una maleducata.
La richiusi con stizza e il fastidio si fece più insistente mentre Dominik mostrava l’ennesimo sorrisino all’osservare la scena.
«Stavamo solo facendo una passeggiata.» mentii.
«Fate bene, è una bellissima giornata!» intervenne Federica, accorrendo in mio aiuto inconsapevolmente.
«Vero, non sembra nemmeno febbraio.» continuò Giulia con una mezza risata che suonò forzata alle mie orecchie.
«E voi, invece?» chiesi, ma mi voltai verso la ragazza, ignorando chi fosse con lei. Lanciai un’occhiata al tavolino e notai i piattini vuoti colmi di briciole e delle tazzine vuote di caffè.
«A quanto pare anche voi avete avuto la nostra stessa idea.» commentai.
«Era impossibile non fare colazione al bar con una giornata del genere.» replicò Federica «E poi entrambi abbiano lezione qui vicino dopo.»
«Noi abbiamo deciso che è una giornata troppo bella per passarla chiuse a seguire la lezione di microeconomia.» replicò Giulia.
Federica fece una smorfia.
«Sarebbe bello. Ma perdermi il laboratorio a pochi mesi dalla laurea sarebbe alquanto stupido.»
«Oltre che suicida.» intervenne Dominik, spegnendo la sigaretta con cura.
«Esatto.» confermò Federica per poi voltarsi verso Giulia.
«A proposito!» esclamò attirando le occhiate di tutti e tre, quelle confuse da parte mia e di Giulia; Dominik, invece la guardava di sottecchi ­– mi resi conto di essere perfettamente consapevole di ogni suo movimento e mi sentii profondamente in imbarazzo con me stessa.
«Ti prego, non prendermi per pazza per quello che ti sto per dire, giuro che non lo sono.»
«Lo è.»
«Stai zitto, Domi.»
Osservai quello scambio di battute in silenzio, ma il sorriso che fece nei confronti di Federica mi stupì: non era uno dei suoi soliti sorrisini ironici o derisori, piuttosto di dolce divertimento.
Spostai lo sguardo da lui nel momento in cui notò che lo stavo fissando.
«Dicevo, non prendermi per pazza, ma sei esattamente il genere di viso che cercavo per la mia collezione di fine anno.» continuò Federica «Colori compresi, intendo.» e indicò i suoi capelli.
Giulia la guardò per qualche secondo – gli occhi celesti spalancati che nel viso sottile sembravano ancora più grandi.
«Non sono rossa naturale.»
Mi sfuggì uno scoppio di risata che tentai inutilmente di dissimulare.
«Lo speravo. Se avessi avuto davvero quella tonalità di rosso penso ti avrei odiato a vita.» replicò sarcastica Federica
«Non sei l’unica.» commentai.
Il rosso dei capelli di Giulia era assurdamente intenso e vivido, di una sfumatura abbastanza scura da ricordare il sangue senza sembrare inquietante. Era un rosso ricco e le stava divinamente, complici anche gli occhi celesti – non che il suo reale colore, un castano così scuro da sembrare nero, le stesse male, ma quella tonalità le enfatizzava i lineamenti da folletto, come le diceva più di una persona.
«Odio già abbastanza Dominik per i suoi capelli.» continuò Federica e si voltò verso di me «Ci pensi che sono naturali?» pronunciò l’ultima parola in un modo che non sapevo se definire estasiato e inorridito.
Lanciai un’occhiata al ragazzo. Non era la prima volta che pensavo a quanto fosse assurda la tonalità chiarissima dei suoi capelli, e a quanto pare non ero unica.
Dominik ricambiò il mio sguardo.
«Già.» dissi solo e per fortuna la conversazione precedente continuò come se nulla fosse, perché non ero sicura che quel singolo monosillabo avesse dovuto suonare così asciutto.
«Comunque, quello che ti sto chiedendo è se hai voglia di farmi da modella!» esclamò Federica con un enorme sorriso.
Non era quello che mi aspettavo di sentire, e di sicuro nemmeno quello che immaginava Giulia, perché dopo qualche secondo di silenzio in cui continuò a fissarla con la medesima espressione di prima, scoppiò a ridere istericamente.
«Io? Io? Farti da modella
Il sarcasmo trasudava da ciascuna parola pronunciata e mi venne da ridere – mi trattenni solo alla vista di Federica, che con quel broncio triste faceva quasi tenerezza.
Eppure, il divertimento alla vista di quelle reazioni non era l’unica cosa provavo. Nello sfondo di quella risata che premeva per uscire, un cupo risentimento ribolliva – risentimento perché mi sentivo nuovamente nelle vesti di spalla della protagonista.
Ero invidiosa, lo sapevo. Invidiosa perché quella proposta era quel genere di cose che avrei voluto succedesse a me, quando invece finivano sempre per capitare agli altri.
Non ero arrabbiata con Giulia, assolutamente – anzi, ero davvero felice per lei, il fatto che una persona pensasse a lei come volto ideale per una collezione di moda significava che qualcuno avesse riconosciuto le sue potenzialità.
Ma non riuscivo a fare a meno di sentirmi così.
«Non ti va?» mugugnò Federica.
Giulia si voltò a osservarmi, come a chiedermi aiuto. Le sorrisi.
«Ma dai, Giulia, è una cosa bellissima!»
«Ma è imbarazzante!»
Alzai gli occhi al cielo.
«Più imbarazzante di avere un gatto chiamato Artemis in onore di Sailor Moon?» la stuzzicai.
Giulia aggrottò le sopracciglia.
«Allora, quello ha completamente senso: è bianco e ha un segno a forma di luna.»
Scrollai le spalle.
«Sì, beh, anche questo ha senso: potrebbe essere divertente.»
«Sarà divertente! Te lo assicuro!» intervenne Federica, mentre mi lanciava sorrisi e annuiva a ciascuna delle mie parole.
Mentre Giulia tentennava ancora, io feci scivolare lo sguardo su Dominik, che sembrava non intenzionato a intervenire.
Una parte di me non si stupì affatto quando lo trovai a fissarmi. Non spostai lo sguardo, lasciai che i nostri occhi si incrociassero e continuai a osservarlo per vedere se avesse spostato per primo lo sguardo.
Eppure, lui non accennava a distoglierlo. Mi guardava con quei suoi occhi neri che in quell’istante non avevano un briciolo di divertimento, piuttosto parevano determinati a non perdersi nemmeno una sfumatura di qualsiasi cosa trasparisse dai miei occhi.
Un’ondata di panico mi avvolse – aveva notato come mi ero sentita? L’invidia era trasparita dai miei occhi, o dalla mia voce?
Spostai lo sguardo in preda a un senso di colpevolezza.
«Forse si potrebbe fare…» diceva Giulia, mentre Federica continuava a prospettarle quanto sarebbe stato divertente, descrivendo come sarebbe stato il pomeriggio. Io ascoltavo in silenzio, fingendo un’assoluta attenzione alle parole della ragazza mentre la mia mente era ingarbugliata nell’ansia che Dominik avesse potuto leggermi dentro.
Avrei voluto distrarmi da quel pensiero, intervenire nella conversazione, ma non sapevo cosa dire – mi ero anche persa il filo di ciò che stava venendo detto in quell’istante, troppo focalizzata com’ero su cosa si potesse percepire dal mio comportamento, e mi ritrovai ad alternare lo sguardo tra Federica e Giulia in quella che sperai non fosse palese confusione.
«Potreste venire insieme.»
Stava diventando una – fastidiosa? – abitudine, eppure quell’intervento di Dominik ebbe il potere di acchiappare il filo dei miei pensieri che vagava come un aquilone tirato via dal troppo vento. Lui però lo prese con facilità, riconnettendolo a quello di Federica e Giulia, che si voltarono verso di lui.
«È un’ottima idea!» Federica mi sorrise luminosa «Venite insieme, sarà divertente! Poi vi offro l’aperitivo, lo prometto.»
«Oh, beh, se è per lo spritz allora…» Giulia scrollò le spalle con sorrisino.
«A quello non si dice mai di no.» commentai.
«Spritz e cucito: è il pomeriggio perfetto!» tubò Federica.
«Prima cuci e poi bevi. Non voglio doverti incerottare le dita per l’ennesima volta.» commentò Dominik, alzandosi dalla sedia con lenta pigrizia e stiracchiandosi. Lo osservai di sottecchi, cercando di non concentrarmi sul lambo di pelle lasciato scoperto dalla maglietta che seguiva i suoi movimenti, e spostai lo sguardo appena in tempo prima che mi cogliesse a fissarlo per l’ennesima volta.
Che genere di cliché è questo?, pensai mentre mi chiedevo in quale libro romance non ci fosse effettivamente una scena del genere. Ne avevo letti così tanti, eppure ero sicura di aver trovato quella scena almeno una volta in ciascuno di essi.
«Non ascoltarlo, Giulia, mi è successo solo una volta.»
«Seh, certo.»
«Dominik, vuoi che ti ammazzi?»
Il ragazzo si limitò a sorridere divertito mentre prendeva lo zaino da terra. Federica lo imitò e si spostarono dal tavolino – improvvisamente, Dominik era di fianco a me e io non ero sicura di dover essere così tesa.
«Noi dobbiamo andare, il Cotonificio non è proprio dietro l’angolo da qui.» fece il ragazzo.
«Giulia, mi lasci il tuo numero? Così ci mettiamo d’accordo per quando va bene sia te che a Iris.»
Osservai le due che si scambiavano i telefoni a vicenda, determinata a non voltarmi verso colui che mi stava di fianco – determinata a ignorare il modo in cui fossi consapevole che non mi toglieva gli occhi di dosso.
Crollai miseramente nel momento in cui sentii la sua mano poggiarsi sulla mia spalla e la sua bocca accostarsi al mio orecchio.
Sapeva di caffè e sigaretta.
«Ti avevo detto che sono la tua fata madrina.»
Il brivido che mi percorse fu per la ciocca di capelli che mi sfiorava la guancia? O la sua voce? O, ancora, le sue parole che richiamarono alla mente quel Giovedì Grasso?
«Dominik, smettila di infastidirla.»
Dominik scoppiò a ridere mentre allontanava il viso – ma la sua mano rimase dov’era, pesante in tutta la sua incomprensibilità.
«Non penso proprio di darle fastidio.»
«Invece sì.» scattai, e con un passo laterale mi allontanai da lui.
Ma sapevo già che il mio tono incerto non sarebbe risultato affatto credibile, infatti Dominik mi guardò con un sorriso soddisfatto mentre si metteva le mani in tasca e mi guardava dritto negli occhi.
«Chiedo umilmente venia, Persefone
Le parole colme di punzecchiante ironia si persero nel vociare improvviso di un gruppo di studenti in gita che ci passò di fianco e io fui l’unica a sentirle – e me ne resi conto con un senso di sollievo che si illuminò dentro di me, una luce fioca su cui mi affrettai a soffiare sopra.
Eppure, quando mi sorrise in quel modo, non ero sicura che quel soffio avesse spento la fiamma o le avesse solo dato altro ossigeno.
  
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