Lasciai Dragonsreach per fare ritorno a Riverwood. Mi sentivo nervosa per il lavoro che avevo accettato di svolgere per Farengar Fuoco Segreto: dovevo entrare in una rovina sicuramente maleodorante e gremita di ragnatele e cadaveri marciti, senza sapere cosa mi sarebbe aspettato né quali eventuali pericoli avrei potuto affrontare. Non avevo mai messo piede in una tomba, ma a parte qualche bara non vedevo il motivo per cui preoccuparsi tanto; cosa avrebbe dovuto esserci là dentro di così tanto raccapricciante, all’infuori di qualche osso, qualche ragnetto o qualche topo?
Perfino gli abitanti di Riverwood ritenevano il tumulo un luogo da cui tenersi alla larga, ma dovevano essere solo delle sciocche superstizioni: e sapevo molto bene che i Nord erano un popolo incline alle superstizioni. Nulla là dentro avrebbe potuto farmi del male, i morti volevano solo riposare in pace, non esisteva da nessuna parte che si alzassero e si mettessero a camminare per giocare a nascondino, se era questo che temevo. Dannate favole per spaventare i bambini che spesso mi aveva raccontato mio padre!
In fondo alla scalinata che dal castello portava al Distretto del Vento si apriva la piazza più bella della città, malgrado non fosse granché spaziosa per potercisi soffermare a spettegolare con tutto il via vai che c’era, poiché era stata costruita attorno al Verdorato, un antico albero benedetto dalla Dea della Natura, Kynareth. Forse nessuno che vivesse a Whiterun faceva più molto caso a quanto fosse incantevole sedersi su una di quelle panche sotto le fronde rosa dell’albero in una soleggiata giornata. In quel momento stava anche tirando una piacevole brezza. Non avevo fretta di recarmi al tumulo, ma neanche mi sentivo stanca da dover fare una sosta.
Il Tempio di Kynareth era stato edificato proprio accanto all’albero ed era raggiungibile attraverso un breve pontile sopra al canale cittadino che dal castello scendeva fino al mercato. Dalla piazza circolare del Verdorato si aprivano altre tre arcate che conducevano a tre diversi quartieri: alla sala dei Compagni e la Forgia Celeste, in una zona sopraelevata ma che rimaneva comunque al di sotto del palazzo feudale; al rione nobiliare, dove risiedevano alcuni dei clan Nordici più antichi di Skyrim; e, infine, al Distretto delle Pianure con la piazza del mercato e la locanda, in fondo alla scalinata oltre il Distretto del Vento.
Al ridosso della cinta muraria, appena prima dei battenti della città, stava una forgia annessa a una bottega, dove una donna dalla chioma castana in tenuta da fabbro era impegnata ad affilare una spada alla mola. Aveva dei lineamenti duri e un colorito piuttosto abbronzato, con delle spruzzate di fuliggine un po’ ovunque, oltre a essere grondante di sudore dal lavoro e dal caldo sprigionato dai fuochi della forgia. Si chiamava Adrianne Avenicci, ed era la figlia del Sovrintendente dello Jarl Balgruuf. In città era nota per essere un fabbro abile per essere un’Imperiale, e non era un segreto che fosse anche la principale fonte di gran parte dei consigli che suo padre, il Sovrintendente Proventus, dava al sovrano. Lei però non pretendeva di essere il miglior fabbro di Whiterun (poiché “quel ruolo spettava a Eorlund Manto Grigio”, il fabbro personale dei Compagni), sperava solo che un giorno sarebbe riuscita a emergere e a far riconoscere il suo talento. Per questo la Vergine della Guerra, la bottega che la donna gestiva assieme al marito, era stata chiamata così in suo onore. Da quanto avevo sentito dire, era il soprannome che le aveva dato suo padre da piccola, vedendola dilettarsi con le armi già allora.
Quando mi presentai, le dissi che lo Jarl aveva richiesto un’arma forgiata appositamente per me: « Oh ma certo, mi è già stato comunicato », mi rispose. « Allora, quale arma ti piacerebbe avere? Mi sono anticipata nel cominciare a selezionarne qualcuna non appena uno degli uomini dello Jarl mi ha portato il messaggio. Puoi scegliere fra pugnali, spade lunghe, spade corte, spadoni a due mani, asce o archi, se ti piace viaggiare leggera. Tu dimmi quella che più desideri, e io te la farò »
« Mi piacerebbe avere un arco », risposi.
« Vetro va bene? Ne ho giusto uno da finire, altrimenti dovrai aspettare di più. Dipende da quanta fretta hai di fermarti in città, o se vuoi tornare a prenderlo non appena sarà pronto… »
« Oh, quello andrà più che bene », annuii. Un bell’arco di vetro, non avrei potuto chiedere di meglio.
« Allora va’ pure a farti un giro alla Giumenta Bardata. Tempo mezz’ora e avrò finito. »
Fu proprio Adrianne che mi iniziò all’arte della Forgiatura. Nel tempo che trascorsi a Skyrim, io e lei arrivammo a stringere una sincera amicizia e i suoi consigli vennero molto spesso in mio soccorso nel corso delle mie avventure. Forse non sarei mai diventata un vero fabbro, non nel pieno senso del termine, e non fu mai la mia professione, ma almeno acquisii le conoscenze sufficienti per poter riparare le mie armi e armature quando ne avevo bisogno, senza dover spendere troppi soldi affinché qualcun altro lo facesse sempre al posto mio. Al tempo non ero ancora così abile con l’uso delle armi, ma grazie alle tante battute di caccia insieme a mio padre potevo definirmi una tiratrice con una certa bravura; e tirare con l’arco era una cosa da saper fare, specialmente se si voleva mangiare ogni giorno.
Quei trenta minuti di attesa li trascorsi in parte in esplorazione in giro per la città e al mercato, per poi finire col sorseggiarmi un buon boccale di latte di capra insieme a una ciotola di zuppa di cervo alla locanda, cercando di non pensare all’incarico che ancora mi attendeva.
« Allora? Com’è andata? » la voce ansiosa di Gerdur mi raggiunse non appena mi vide entrare in casa. Avevo fatto ritorno a Riverwood che era ormai pomeriggio inoltrato e non avevo nessuna voglia di andare alle rovine, rischiando di trascorrere la notte laggiù quando invece avevo un letto caldo a pochi passi. Posai l’arco di vetro sul piano del tavolo e mi misi a sedere crollando quasi sulla sedia.
« Te la faccio breve. Lo Jarl ha accettato di inviare dei rinforzi a Riverwood, ma appena ha saputo che mi trovavo a Helgen durante l’attacco del drago mi ha affidato un incarico. E adesso devo entrare nel Tumulo delle Cascate Tristi... »
« Il Tumulo delle Cascate Tristi? A fare cosa? » esclamò Gerdur, sconvolta.
« A recuperare una… cosa che potrebbe essere d’aiuto per la faccenda dei draghi », spiegai brevemente.
« Mmm. Senti, io non so nulla di queste cose, quindi non metterò bocca su questa storia. Io mi fido delle decisioni dello Jarl: guerra o no, ha a cuore la sicurezza e il benessere del suo popolo. Ma andare al tumulo... è un suicidio! »
« Suvvia, Gerdur, cosa ci sarà di tanto male in una vecchia tomba? » cercai di rassicurarla.
Ma il volto della Nord si rabbuiò. « Morte e sventura, ecco cosa. I morti andrebbero lasciati riposare in pace; sono le profanazioni come queste che disturbano i draugr e li fanno uscire da laggiù di notte »
« I cosa? »
Lei parve evitare la mia domanda. « Ti dico solo che è una pazzia. Non so cosa ci possa essere di così importante là dentro, ma... ti prego, fai molta attenzione. »
Si avvicinò lentamente e mi posò una mano sulla spalla. La sua espressione era davvero preoccupata.
« Sono certa che non ci sia niente da temere. È una tomba, Gerdur, non un covo di troll », risposi, anche se ormai non ero più molto sicura delle mie parole. « Andrò domani presto, ormai oggi è tardi »
« Mh, sarà. Ma almeno hai fatto una scelta saggia, rimandando a domani. Non sai mai cosa puoi trovare… »
Perfino gli abitanti di Riverwood ritenevano il tumulo un luogo da cui tenersi alla larga, ma dovevano essere solo delle sciocche superstizioni: e sapevo molto bene che i Nord erano un popolo incline alle superstizioni. Nulla là dentro avrebbe potuto farmi del male, i morti volevano solo riposare in pace, non esisteva da nessuna parte che si alzassero e si mettessero a camminare per giocare a nascondino, se era questo che temevo. Dannate favole per spaventare i bambini che spesso mi aveva raccontato mio padre!
In fondo alla scalinata che dal castello portava al Distretto del Vento si apriva la piazza più bella della città, malgrado non fosse granché spaziosa per potercisi soffermare a spettegolare con tutto il via vai che c’era, poiché era stata costruita attorno al Verdorato, un antico albero benedetto dalla Dea della Natura, Kynareth. Forse nessuno che vivesse a Whiterun faceva più molto caso a quanto fosse incantevole sedersi su una di quelle panche sotto le fronde rosa dell’albero in una soleggiata giornata. In quel momento stava anche tirando una piacevole brezza. Non avevo fretta di recarmi al tumulo, ma neanche mi sentivo stanca da dover fare una sosta.
Il Tempio di Kynareth era stato edificato proprio accanto all’albero ed era raggiungibile attraverso un breve pontile sopra al canale cittadino che dal castello scendeva fino al mercato. Dalla piazza circolare del Verdorato si aprivano altre tre arcate che conducevano a tre diversi quartieri: alla sala dei Compagni e la Forgia Celeste, in una zona sopraelevata ma che rimaneva comunque al di sotto del palazzo feudale; al rione nobiliare, dove risiedevano alcuni dei clan Nordici più antichi di Skyrim; e, infine, al Distretto delle Pianure con la piazza del mercato e la locanda, in fondo alla scalinata oltre il Distretto del Vento.
Al ridosso della cinta muraria, appena prima dei battenti della città, stava una forgia annessa a una bottega, dove una donna dalla chioma castana in tenuta da fabbro era impegnata ad affilare una spada alla mola. Aveva dei lineamenti duri e un colorito piuttosto abbronzato, con delle spruzzate di fuliggine un po’ ovunque, oltre a essere grondante di sudore dal lavoro e dal caldo sprigionato dai fuochi della forgia. Si chiamava Adrianne Avenicci, ed era la figlia del Sovrintendente dello Jarl Balgruuf. In città era nota per essere un fabbro abile per essere un’Imperiale, e non era un segreto che fosse anche la principale fonte di gran parte dei consigli che suo padre, il Sovrintendente Proventus, dava al sovrano. Lei però non pretendeva di essere il miglior fabbro di Whiterun (poiché “quel ruolo spettava a Eorlund Manto Grigio”, il fabbro personale dei Compagni), sperava solo che un giorno sarebbe riuscita a emergere e a far riconoscere il suo talento. Per questo la Vergine della Guerra, la bottega che la donna gestiva assieme al marito, era stata chiamata così in suo onore. Da quanto avevo sentito dire, era il soprannome che le aveva dato suo padre da piccola, vedendola dilettarsi con le armi già allora.
Quando mi presentai, le dissi che lo Jarl aveva richiesto un’arma forgiata appositamente per me: « Oh ma certo, mi è già stato comunicato », mi rispose. « Allora, quale arma ti piacerebbe avere? Mi sono anticipata nel cominciare a selezionarne qualcuna non appena uno degli uomini dello Jarl mi ha portato il messaggio. Puoi scegliere fra pugnali, spade lunghe, spade corte, spadoni a due mani, asce o archi, se ti piace viaggiare leggera. Tu dimmi quella che più desideri, e io te la farò »
« Mi piacerebbe avere un arco », risposi.
« Vetro va bene? Ne ho giusto uno da finire, altrimenti dovrai aspettare di più. Dipende da quanta fretta hai di fermarti in città, o se vuoi tornare a prenderlo non appena sarà pronto… »
« Oh, quello andrà più che bene », annuii. Un bell’arco di vetro, non avrei potuto chiedere di meglio.
« Allora va’ pure a farti un giro alla Giumenta Bardata. Tempo mezz’ora e avrò finito. »
Fu proprio Adrianne che mi iniziò all’arte della Forgiatura. Nel tempo che trascorsi a Skyrim, io e lei arrivammo a stringere una sincera amicizia e i suoi consigli vennero molto spesso in mio soccorso nel corso delle mie avventure. Forse non sarei mai diventata un vero fabbro, non nel pieno senso del termine, e non fu mai la mia professione, ma almeno acquisii le conoscenze sufficienti per poter riparare le mie armi e armature quando ne avevo bisogno, senza dover spendere troppi soldi affinché qualcun altro lo facesse sempre al posto mio. Al tempo non ero ancora così abile con l’uso delle armi, ma grazie alle tante battute di caccia insieme a mio padre potevo definirmi una tiratrice con una certa bravura; e tirare con l’arco era una cosa da saper fare, specialmente se si voleva mangiare ogni giorno.
Quei trenta minuti di attesa li trascorsi in parte in esplorazione in giro per la città e al mercato, per poi finire col sorseggiarmi un buon boccale di latte di capra insieme a una ciotola di zuppa di cervo alla locanda, cercando di non pensare all’incarico che ancora mi attendeva.
« Allora? Com’è andata? » la voce ansiosa di Gerdur mi raggiunse non appena mi vide entrare in casa. Avevo fatto ritorno a Riverwood che era ormai pomeriggio inoltrato e non avevo nessuna voglia di andare alle rovine, rischiando di trascorrere la notte laggiù quando invece avevo un letto caldo a pochi passi. Posai l’arco di vetro sul piano del tavolo e mi misi a sedere crollando quasi sulla sedia.
« Te la faccio breve. Lo Jarl ha accettato di inviare dei rinforzi a Riverwood, ma appena ha saputo che mi trovavo a Helgen durante l’attacco del drago mi ha affidato un incarico. E adesso devo entrare nel Tumulo delle Cascate Tristi... »
« Il Tumulo delle Cascate Tristi? A fare cosa? » esclamò Gerdur, sconvolta.
« A recuperare una… cosa che potrebbe essere d’aiuto per la faccenda dei draghi », spiegai brevemente.
« Mmm. Senti, io non so nulla di queste cose, quindi non metterò bocca su questa storia. Io mi fido delle decisioni dello Jarl: guerra o no, ha a cuore la sicurezza e il benessere del suo popolo. Ma andare al tumulo... è un suicidio! »
« Suvvia, Gerdur, cosa ci sarà di tanto male in una vecchia tomba? » cercai di rassicurarla.
Ma il volto della Nord si rabbuiò. « Morte e sventura, ecco cosa. I morti andrebbero lasciati riposare in pace; sono le profanazioni come queste che disturbano i draugr e li fanno uscire da laggiù di notte »
« I cosa? »
Lei parve evitare la mia domanda. « Ti dico solo che è una pazzia. Non so cosa ci possa essere di così importante là dentro, ma... ti prego, fai molta attenzione. »
Si avvicinò lentamente e mi posò una mano sulla spalla. La sua espressione era davvero preoccupata.
« Sono certa che non ci sia niente da temere. È una tomba, Gerdur, non un covo di troll », risposi, anche se ormai non ero più molto sicura delle mie parole. « Andrò domani presto, ormai oggi è tardi »
« Mh, sarà. Ma almeno hai fatto una scelta saggia, rimandando a domani. Non sai mai cosa puoi trovare… »
Il gelido vento mattutino mi sferzava sul viso, scompigliandomi i capelli e facendo sventolare il mio mantello. Mi ero fermata un attimo sul limite del sentiero che si inoltrava su per il monte, a guardare i tetti di Riverwood farsi sempre più piccoli ad ogni passo verso l’alto che compivo.
Mi ero alzata a un orario abbastanza decente, né troppo presto né troppo tardi; non sapevo quanto tempo ci sarebbe voluto ad arrivare al tumolo, soprattutto a quanto ne avrei trascorso all’interno, così mi ero equipaggiata per bene con un’armatura di pelle che mi aveva fornito Alvor, la bisaccia a tracolla, arco e frecce in spalla e pronta a rincasare verso sera se la mia ricerca non avesse dato i suoi frutti. Mi ero decisa a dedicare a quella faccenda un paio di giorni al massimo: se non avessi trovato nulla dopo aver setacciato la montagna da cima a fondo, sarei tornata da Farengar dicendogli di mandarci qualcun altro a cercare la pietra, o che evidentemente non si trovava laggiù e che quindi avrebbe dovuto virare le sue ricerche altrove.
« Il sentiero sulla montagna verso nord-ovest conduce al Tumulo delle Cascate Tristi »
« Quanto devo camminare? »
Gerdur ci aveva ragionato per un attimo. « Be’, la strada che sale sulla montagna è piuttosto tortuosa. Capirai di essere nella giusta direzione quando vedrai la vecchia Torre di Osservazione. Una volta lì, dirigiti a nord. Il tumulo dovrebbe essere poco più avanti. Lo vedrai. »
Ma nessuno, a Riverwood, doveva essere al corrente che in quella torre ci stavano di guardia alcuni banditi. Erano in tre, e superarli di soppiatto senza essere vista non fu troppo difficile da quanto erano lontani, benché fosse giorno, muovendomi accucciata e parandomi dietro ai massi che sbucavano dalla neve. Erano dei bersagli decisamente più facili di cervi e conigli ma allora non avevo ancora mai ucciso nessuno, e anche se erano dei fuorilegge pronti ad assalire e derubare chiunque gli capitasse sotto tiro, non me la sentivo di eliminarli... e loro non mi avrebbero di sicuro dato il benservito se mi avessero vista. Appena sarei stata di ritorno al villaggio avrei avvertito le guardie di andare a prenderli; probabilmente quei banditi dovevano averci fatto il covo e, sfruttando la leggenda del tumulo, dovevano essersene approfittati per spaventare i locali e profanare indisturbati le tombe senza che la guardia cittadina li beccasse.
Dalla Torre di Osservazione il sentiero continuò a salire, serpeggiando lungo le pendici della montagna. La neve diventava sempre più abbondante, l’aria sempre più rarefatta. La struttura esterna della rovina era imponente, era un’autentica balconata che si affacciava sulla valle con il fiume sottostante, tanto che mi era quasi difficile credere che fosse davvero un’opera dell’uomo. Era una fila di scalinate ed archi acuti sormontati da sculture draconiche, talmente vasta che ci sarebbero voluti diversi minuti per esplorarla tutta: pareva quasi essere stata eretta dagli dèi, quando ancora camminavano sulla terra. Forse era stata costruita come luogo cerimoniale per adorare le antiche divinità, oppure per accogliere i grandi e maestosi draghi che veneravano, o forse entrambe le cose. L’ampio portone di metallo inciso si aprì con poche spinte, malgrado la sua pesantezza. La tomba era stata aperta, di sicuro dai banditi che avevo incontrato. Speravo solo di non trovarne anche all’interno.
Oltre i battenti si apriva una grande anticamera che era stata scavata nella roccia. La prima cosa che notai fu l’odore di vecchio, ma non era così forte come mi sarei aspettata; l’ambiente era invaso da correnti d’aria, soffiando attraverso alcune cavità presenti sugli alti soffitti ad arco e dai quali trapelavano anche dei raggi di luce. In fondo alla sala, verso la scalinata che portava nelle profondità della tomba, stava l’accampamento dei banditi, in quel momento deserto, costituito da un focolare e alcuni sacchi a pelo radunati attorno. In realtà, sembrava abbandonato da qualche tempo. Più avanti in basso, e a molti passi dal fondo della scalinata, il buio era opprimente, rotto solamente dalla flebile luce della torcia che avevo trovato tra le scorte dei banditi. Con stupore scoprii numerosi bracieri, candele e candelabri ancora intenti ad illuminare la struttura: probabilmente i predoni dovevano essersi spinti parecchio in profondità per poter depredare le tombe, ma non mi pareva di scorgere alcun tipo di passaggio umano da lì.
Man mano che scendevo l’odore di muffa e di chiuso si acuivano mischiandosi al fetido della morte e della decomposizione, spingendomi a volte a mettere una mano davanti per coprire naso e bocca. Ero avvolta da un silenzio sferzante, addirittura surreale… I corridoi diventavano sempre più claustrofobici e più tetri, mentre le sale, benché imponenti, mi facevano sentire come un uccello in gabbia. Ogni mio passo risuonava nel silenzio, creando un’atmosfera di tensione palpabile. L’ambiente si ripeteva, il tumulo era labirintico e più volte mi venne da chiedermi se fossi riuscita ad uscirne per rivedere la luce del sole. Ma non dovevo pensarci.
Dopo un’eternità, muovendomi con cautela e facendo il minimo rumore, finalmente giunsi a quelle che dovevano essere le porte per le catacombe. Stringevo l’arco contro ogni evenienza, nel caso fosse sbucato fuori qualche bandito, la freccia era già incoccata, ma sentivo anche un’inquietante sensazione all’intestino. Forse era solo superstizione unita a quello che aveva detto Gerdur.
La struttura in cui mi ritrovai era più grande rispetto ai corridoi nei quali ero stata immersa fino a quel momento, c’erano dei passaggi semicircolari e alcune salette con tavoli ancora apparecchiati, mensole, urne cinerarie e librerie, diverse rampe di scale e pozzi. Non era una tomba, era un palazzo. E perfino lì, nelle profondità gelide e silenziose del tumulo, c’erano dei fuochi accesi; possibile che i banditi si erano spinti così tanto per depredare i morti? Il posto stava anche incominciando a ricoprirsi di grosse ragnatele... Odiavo i ragni, e quelli che avevano tessuto quelle ragnatele non erano affatto piccoli.
Il mio cuore divenne freddo e la mia bocca si prosciugò quando all’improvviso udii un suono acuto: quello di una voce che gridava, roca e maschile.
« Sta... arrivando qualcuno? Sei tu Harknir? Björn? Soling? »
Entrai in una sala che era stata completamente imbottita da spaventose ragnatele e bozzoli di uova, cadaveri umani e animali essiccati che penzolavano o giacevano in ogni parte, e se c’era stata della mobilia ormai era del tutto impossibile riuscire a distinguerla. E lì, sul fondo della sala dove c’era l’uscita, un Dunmer era rimasto intrappolato nel groviglio appiccicoso. Lo riconobbi dalla corazza che indossava: era un bandito. Ed era appeso come un salame proprio in mezzo al varco, ostruendo il passaggio.
« Ti prego! Per amore di Arkay, liberami prima che quel mostro torni per mangiarmi! » esclamò non appena mi vide.
Anche se era in pericolo, non ero tanto ingenua da aspettarmi la sua gratitudine se lo avessi aiutato. E mi avvicinai, senza ancora fare nulla; ma stava anche proprio di fronte all’unica direzione che avevo per poter proseguire.
« Ti prego, non abbandonarmi! » esclamò il Dunmer, disperato. « Tirami fuori di qui, prima che arrivino quei ragnacci giganti! »
« E chi me lo dice che dopo ti limiterai a ringraziarmi? » risposi.
« Io... ho un oggetto con me. Un Artiglio d’Oro. E so come funziona. È importante per risolvere gli enigmi del tumulo, se vuoi arrivare al tesoro: l’Artiglio, i simboli, la porta della Sala dei Racconti... ha tutto senso! »
Di che cosa stava parlando? Forse era pazzo.
« Fammi scendere e ti mostro come. Non puoi credere a quanto potere gli antichi Nord abbiano nascosto lì »
« Prima dammi questo Artiglio di cui parli », dissi.
« Ti sembra forse che possa muovermi? Prima devi librarmi! »
A quanto pare, non avevo scelta. Non sapevo ancora se stesse solo bluffando, ma d’altronde era anche l’unica possibilità che avevo in quel momento. Lui non riusciva a muoversi e io non potevo assolutamente cercare di prenderglielo attraverso tutto quell’aggroviglio appiccicoso e polveroso, né provare a superarlo per proseguire. Speravo solo che non fosse una cattiva idea.
Presi il pugnale e cominciai a tagliare le estremità della ragnatela. Una volta che l’uomo tornò finalmente libero, si girò verso di me e mi mostrò un ghigno malefico: « Povera stolta, perché mai dovrei dividere il tesoro con qualcuno? Sarà soltanto mio! »
Corse via come il vento lungo il corridoio, verso il cuore della cripta, sparendo in pochi istanti e io mi affrettai a precipitarmi dietro. Ma l’inseguimento non durò a lungo.
Dopo poche altre stanze e passaggi ci addentrammo nelle sale principali delle catacombe, dove file di loculi che custodivano le salme degli antenati dei Nord presiedevano il nostro arrivo. Dozzine di corpi imbalsamati o decomposti dormivano indisturbati nelle loro nicchie, ma la sensazione di svegliarli da un momento all’altro al minimo rumore era opprimente. E fu proprio lì che il mio stupore si risvegliò dopo la venuta del drago, ma fu uno stupore misto all’orrore di ciò che vidi.
Alcuni dei cadaveri si mossero, emisero dei versi gutturali e si levarono dalle loro nicchie. Il cuore mi si tuffò in gola, per poco non gridai dallo spavento, lasciai cadere la torcia e subito corsi via su per la scalinata che avevo appena percorso pregando che quelle cose, qualunque cosa fossero, non mi avessero vista. L’odore che aleggiava nella sala era penetrante, causandomi una nuova ondata nauseata. Il cuore mi martellava nel petto e nelle orecchie come se volesse sfondare sterno e timpani. Le creature massacrarono il Dunmer e poi rimasero lì, in piedi, a sorvegliare la tomba.
Era assurdo, i morti stavano girovagando per le cripte di Skyrim! Era una cosa del tutto sbagliata, doveva esserci sicuramente un qualche tipo di magia molto oscura sotto, non poteva trattarsi di un semplice incantesimo da negromante. Ralof aveva avuto ragione: c’era di peggio dei lupi a Skyrim. Dovevano essere loro quelli che gli abitanti di Riverwood tanto temevano, i “draugr” che aveva nominato Gerdur.
Imparai a conoscerli col tempo. Durante le mie avventure, compresi che questi non-morti guerrieri non s’incontravano anche lungo le strade, ma si limitavano a rimanere entro i confini dei siti culturali o sepolcrali legati ai draghi o agli antenati dei Nord, essendo i custodi sia delle loro stesse tombe sia di quelle dei loro antichi signori, pattugliandole quasi con costanza. Proprio per questo motivo i tumuli Nord erano luoghi pericolosi da esplorare e spesso evitati perfino dagli esploratori e dai cacciatori di tesori, non solo per le bestie che potevano abitarli, ed ecco anche spiegato il motivo di tutti quei bracieri, focolai e altre fonti di luce che ancora ardevano all’interno delle strutture.
Non era chiaro perché i draugr vagassero per le cripte di Skyrim: alcuni sostenevano che in passato fossero stati dei servitori dei draghi condannati a diventare dei non-morti a causa del loro tradimento, sepolti vivi dai loro stessi confratelli. C’erano anche racconti di potenti re-stregoni che riuscirono in qualche modo a far risorgere i propri seguaci come draugr, o che loro stessi divennero dei lich. Solo i negromanti più potenti ed esperti potevano essere capaci di evocare armate di non-morti, ma era un potere che andava oltre i mortali comuni.
E non c’erano soltanto i draugr a vagare per le cripte di Skyrim, ma talvolta anche scheletri e spettri. Ricordo ancora la prima volta che mi imbattei in uno di quei mostri d’ossa… Ero a Whiterun. Il Sacerdote di Arkay che si occupava della Sala dei Morti della città, Andurs, mi aveva chiesto di fargli un favore, ovvero recuperare il suo amuleto di Arkay personale dall’ala delle vecchie catacombe, ma era stato troppo terrorizzato a metterci piede da quando avevano cominciato a manifestarsi degli strani eventi, oltre a degli insoliti rumori di passi provenire da laggiù.
La cosa non mi aveva entusiasmato dopo l’esperienza al Tumulo delle Cascate Tristi, ma avevo comunque accettato di indagare al suo posto per non dover allertare la guardia cittadina. Forse non era niente, quel sacerdote era molto vecchio e aveva vissuto in quell’edificio praticamente per tutta la vita, per cui non mi stupii se fossero state solo allucinazioni a furia di vivere perennemente a stretto contatto con i morti. Una volta dentro, subito le mie orecchie avevano catturato uno stranissimo suono simile a uno sfregamento. Gli scheletri emettevano rumori cupi e scricchiolanti da far rizzare i peli perfino a un troll, suoni misti a ringhi e sbuffi. Erano una vista terrificante, con orbite vuote illuminate da una sinistra luce bluastra, la non-vita che nasceva quando un’anima era intrappolata in un corpo morto. Erano degli avversari rari a Skyrim, solitamente trovati in compagnia di vampiri o negromanti, più di rado a guardia delle strutture funerarie assieme ai draugr o in solitario.
La cosa buona era che di solito non erano granché resistenti, quando si trattava di semplici resti rianimati da incantesimi negromantici base, per cui bastavano pochi colpi per ridurli a mucchi d’ossa sparpagliate. Ma esistevano anche delle tipologie di scheletri più potenti, specialmente quelli dediti alla magia, che erano più forti e impegnativi da abbattere, riportati alla vita da incantesimi ben più avanzati.
In un primo momento non avevo capito l’origine di quel suono, così forte e vicino: era un qualcosa che non avevo mai sentito prima, me ne stavo impalata cercando di individuarne la fonte. Quando infine avevo udito anche dei passi avvicinarsi e mi ero voltata, avevo visto uno di quei mostri corrermi contro con la spada sguainata, già in procinto di colpire. Dopo il primo sgomento avevo avuto la forza e i riflessi per evitare il fendente, finendolo poi con un semplice tocco della mia lama all’altezza della clavicola per buttarlo giù. Subito dopo, dalla penombra della cripta ne era sbucato un altro, poi un altro ancora.
Lo scontro era stato piuttosto breve e una volta constatato che la cripta era finalmente sgombra avevo fatto ritorno da Andurs con un’aria visibilmente scossa: « Grande Arkay! Sembra che le anime tormentate stiano cercando di comunicare; ora più che mai avrò bisogno del coraggio di Arkay per affrontare ciò che si cela nell’oscurità… Ti ringrazio infinitamente, hai reso un grande servigio a un povero vecchio, non lo dimenticherò », aveva risposto il sacerdote quando gli avevo detto cosa avevo trovato, donandomi poi un amuleto di Arkay come segno di riconoscenza. « Portalo sempre con te, ti proteggerà. Ora, se non ti dispiace, devo apprestarmi a rimettere quelle ossa al loro posto e purificarle… »
Forse quei draugr non sarebbero stati un problema per un combattente veterano, ma ancora non sapevo quanto potessero essere forti. Pattugliavano la sala emettendo talvolta dei grugniti o dei versi soffocati tipici di chi non usava la voce da tanto tempo o scambiandosi dei gesti, il tutto come se stessero comunicando tra di loro; e, probabilmente, era esattamente quello che stavano facendo. Quei suoni erano tra i più terribili che avessi udito in tutta la mia vita, raggelavano il sangue e contorcevano le viscere come quando si udiva l’eco dei ruggiti lontani di un drago.
Nascosta dietro un angolo in fondo alla scalinata che mi ero apprestata a risalire non appena li avevo visti alzarsi, raccolsi una freccia dalla faretra e la incoccai nel modo più silenzioso possibile. L’ambiente era immerso in gran parte nel buio, quindi dovetti attendere che uno di loro si avvicinasse a una fonte di luce prima di poter colpire. I loro occhi cadaverici brillavano di quell’insolito e inquietante color ghiaccio, come lumini nell’ombra. La loro camminata era rumorosa, goffa e irregolare, gomiti e ginocchia scricchiolavano come in procinto di staccarsi dal resto del corpo senza però impedirgli di brandire spade, asce o archi e ingaggiare battaglia.
Constatai fin da subito che la forza fisica non era un loro pregio tanto quanto la loro tenacia: vidi uno di loro avvicinarsi a una torcia appesa a una delle colonne, presi la mira e lasciai andare la corda. La punta della freccia si inabissò nel cranio a malapena rivestito da un rinsecchito strato di pelle di un grigio spento e alcune ciocche di capelli. Non fuoriuscì sangue; semplicemente, il draugr emise un suono secco e strozzato mentre il suo intero corpo si afflosciava sul pavimento, dove rimase immobile. La luce gelida degli occhi era svanita.
Gli altri due rimasti si agitarono quando lo videro a terra senza vita: ringhiando furiosi, sguainarono entrambi le loro armi e presero a muoversi con più frenesia, in cerca dell’intruso che aveva appena violato il loro santuario dell’eterno riposo. Ma la stessa sorte toccò anche a loro pochi minuti più tardi; una volta allertati, prendere la mira non fu affatto semplice e quando vedevo che si fermavano un attimo sotto la luce coglievo l’occasione per scoccare, stando poi molto attenta ad accostarmi alla parete per nascondermi dopo ogni colpo, pregando che non si spingessero nella mia direzione. Fortunatamente non sembravano molto intelligenti, quindi non capirono mai la direzione di provenienza dell’attacco; inoltre dubitavo che potessero riuscire a vedere attraverso il buio e la penombra, altrimenti mi avrebbero già vista da un pezzo.
Una volta che fu tornata la quiete mi avvicinai con cautela a quelle salme fetide, terrorizzata e disgustata, per accertarmi che non si sarebbero alzate un’altra volta. Brandelli d’armature Nord unite a una cotta di maglia ridotta in pezzi e residui d’imbottiture di pelliccia gli coprivano a malapena braccia, gambe e torace. In quel momento non riuscii a pensare ad altro se non al fatto che, in realtà, quei cadaveri avrebbero dovuto essere distesi in bare muffite o loculi, anziché riversi sul pavimento e in una posizione che faceva chiaramente capire che erano stati in piedi fino a pochi attimi prima. Uno di loro era una donna, la fluente chioma bionda intrecciata era ancora riconoscibile.
Sebbene i draugr mi ripugnassero (come del resto ripugnavano chiunque altro, salvo i negromanti di cui occasionalmente se ne servivano), allo stesso tempo mi affascinavano: interagire con loro, se mai fosse stato possibile, avrebbe significato parlare con persone vissute nell’antichità. Erano delle autentiche reliquie viventi, chissà quante cose avrebbero potuto raccontare di quei tempi così lontani, chissà quanti tomi si sarebbero potuti riempire grazie alle loro conoscenze e alle loro testimonianze; quanti misteri risolti, quanti enigmi svelati.
Appurato che erano davvero morti, mi avvicinai al corpo del Dunmer disteso poco più avanti. Nella foga di difendere il loro luogo di riposo, i draugr lo avevano inseguito e ci si erano accaniti, trucidandolo con ferocia tale da smembrarlo. L’odore pungente del sangue che imbrattava i resti e il pavimento di pietra m’invase le narici. Recuperai la sacca che giaceva accanto e che fortunatamente le creature avevano deciso di ignorare, e ne tirai fuori l’Artiglio Dorato di cui il bandito mi aveva parlato.
Era un oggetto senz’altro particolare, bellissimo e curioso allo stesso tempo. Non era molto grande, quindi non era neanche granché pesante malgrado il materiale con cui era stato forgiato: aveva la forma di una zampa di drago interamente rivestita d’oro, con tre artigli lunghi e affilati. Era un tesoro che sicuramente mi avrebbe fruttato molte monete, il che era stata un’autentica fortuna; forse i Divini mi stavano di nuovo sorridendo, mi avevano salvato anche da Helgen.
Lo rimisi nella sacca, la assicurai alla mia cintura e continuai a proseguire.
Le catacombe proseguivano. Dovetti attraversare diversi altri corridoi e camere sepolcrali prima di raggiungere la caverna sottostante, nel cuore della montagna, ma dopo quel primo incontro mi guardai bene dal fare il minimo rumore per non svegliare i draugr che ancora dormivano. Solo poche volte ne incontrai qualcuno di pattuglia, ma come con gli altri in precedenza mi tenni nascosta e a distanza così da eliminarli con il mio arco.
La tomba aveva una struttura piuttosto complessa, sorprendentemente curata nelle decorazioni e arredata con tavoli, scaffalature e panche, come se un tempo qualcuno avesse vissuto lì assieme ai morti. Forse gli antichi usavano far visita ai loro defunti; o forse erano semplicemente abitate dai sacerdoti, che si occupavano di preparare le salme che erano prossime alla sepoltura e custodivano quelle già presenti. Non a caso l’ambiente era cosparso di urne cinerarie, strumenti per l’imbalsamazione, rotoli di lino, fiori essiccati e offerte, comprendenti pietre preziose, argenteria, gioielli e antiche monete con sopra incisa la figura stilizzata di un drago. Il silenzio che aleggiava era l’unica cosa che mi infondeva un po’ di sicurezza; talvolta quel silenzio veniva rotto dalle urla e i lamenti gutturali emessi da qualche draugr in lontananza.
La discesa durò ancora, e più mi inoltravo nei meandri della montagna, più l’aria mi mancava da tanto era poca, e quella poca aria che c’era era pesante. Nelle cavità naturali più aperte, una volta superata la necropoli, scorreva un torrente che andava a riversarsi nelle profondità della caverna tramite sbocchi vertiginosi, l’aria stava cominciando a essere più respirabile e talvolta filtravano alcuni raggi di luce che facevano brillare l’acqua e la brina. Dopo un’eternità, capii di aver finalmente raggiunto la mia agognata meta quando la vegetazione della caverna lasciò il posto all’architettura antica Nord, giungendo di nuovo in una struttura in pietra: un corridoio chiuso sul fondo da una pesante porta che occupava l’intera parete. Sopra erano posizionate tre file di anelli mobili, mentre una serratura circolare con tre fori aperti a ventaglio era posizionata nella parte centrale della struttura, subito sotto agli anelli. Ognuno di questi era ornato dalla figura di un animale, uno diverso dall’altro. Intuii subito che facevano parte di una combinazione che avrebbe aperto la porta, affinché potessi proseguire. Non c’era modo di aggirarla, e ovviamente non potevo sperare di sfondarla.
Presi a guardarmi intorno. Sulle pareti del corridoio c’erano dei bassorilievi che raffiguravo svariate iconografie di animali, quelli facenti parte del culto degli animali-totem un tempo venerato dagli antenati dei Nord. Trascorsi qualche minuto ad osservarli cercando di capire il nesso con gli animali raffigurati sulla porta, quando all’improvviso mi ricordai dell’Artiglio che avevo trovato. Il Dunmer aveva detto che “l’Artiglio era la chiave, per risolvere gli enigmi del tumulo, se vuoi arrivare al tesoro: l’Artiglio, i simboli, la porta della Sala dei Racconti...”. Presi di nuovo il misterioso oggetto dalla sacca e mi misi ad esaminarlo. I tre lunghi artigli erano gli intagli da inserire nei fori; l’estremità era l’impugnatura per far scattare il meccanismo di apertura. Quando poi lo girai, scoprii tre cerchi in fila con all’interno l’effigie di un animale sacro. Era quella la combinazione: una falena, un orso e un gufo.
Tornai di fronte alla porta e sistemai gli anelli secondo l’ordine indicato. Una volta sistemati gli anelli, mancava solo da inserire l’Artiglio nella serratura. Dopo una lieve pressione il meccanismo scattò, gli anelli presero a girare in direzioni opposte fra loro per poi allinearsi di nuovo, mostrando figure diverse rispetto a quelle in precedenza, e tutte uguali. Tre draghi.
L’intera parete prese quindi a spostarsi fino a scomparire con fatica nel pavimento e lasciando solo una grossa nuvola di polvere dietro di sé. Oltre il varco si apriva un’imponente camera sepolcrale eretta nella caverna principale, illuminata da colonne di luce naturale attraverso alcune fessure nella roccia, addobbata da una rigogliosa vegetazione e cullata dalle correnti del torrente. Accanto al sepolcro dominava un imponente muro semicircolare in pietra scura, in una sorta di abbraccio al sarcofago.
Fu una vista in qualche modo rassicurante; la tomba era sigillata e la luce del giorno faceva sembrare il tutto meno terrificante. Eppure, avevo una brutta sensazione. Non c’era traccia della Pietra del Drago, ma di sicuro doveva essere custodita lì da qualche parte come mi aveva indicato Farengar.
Scorsi un bagliore etereo che sembrava sprigionarsi da alcune rune incise sulla superficie del muro e mi avvicinai ad osservare quella struttura antica permeata da un’atmosfera densa di fascino e mistero. La caverna era avvolta in una totale quiete e i miei passi riecheggiavano come un boato lontano sulla pavimentazione in pietra, in un luogo che era un autentico ponte verso un passato ormai dimenticato. Era una scrittura che non avevo ancora mai visto su Tamriel, e solo una parola di quelle era illuminata: le rune, caratterizzate da una forma fortemente simile a segni d’artigli, brillavano di un blu intenso e, man mano che mi avvicinavo, una strana vibrazione riempiva l’aria, come se l’energia stessa del tumulo risuonasse. Non sapevo spiegarlo, ma era come se quella luce mi stesse chiamando a sé e qualcosa, in qualche modo, mi parve familiare.
Sfiorai quell’insolito bagliore con la mano: era fresco e leggero come una brezza, non era tipico della magia convenzionale.
Poi, accadde. Fu come se la luce avesse preso vita propria. In un attimo l’energia mi avvolse, infondendomi una sensazione di calore mentre un brivido adrenalinico mi scorreva lungo la spina dorsale. Fu un misto di paura e meraviglia come se avessi appena toccato qualcosa di sacro e potente. Le rune presero a brillare sempre di più; man mano che l’energia svaniva, assorbita dal mio corpo, fugaci visioni di maestosi draghi e antiche battaglie si affacciarono confuse nella mia mente, e allora fui pervasa da una nuova e stranissima sensazione. Dentro di me, per qualche ragione, avvertivo una conoscenza sopita, un potere ancestrale che mi fluiva attraverso… era come se stessi scoprendo una parte di me stessa che non sapevo di avere.
Quando infine l’energia si ritirò, me ne sentii trasformata. Improvvisamente, sentivo di poter finalmente comprendere quella parola. “Fus”, pronunciai con un sussurro. Sentivo il bisogno di dirla ad alta voce, di gridarla: sentivo la necessità di sfogarmi e di liberare quel potere, ma sentivo anche che, se l’avessi fatto, non sarebbe bastato. Che cosa mi mancava? Cosa mi fermava? Quella parola, della quale però ignoravo l’effettivo significato, echeggiò insoddisfatta nella mia mente.
Un rumore secco e pesante si levò alle mie spalle. Mi volsi verso la fonte del suono e, con rinnovato orrore, vidi che il sarcofago si era spalancato per lasciar emergere un imponente Signore Draugr armato di un’ascia da guerra corrosa e temibile quanto lui. Si stagliava dinanzi a me, avanzando lentamente.
Sentii il cuore arrestarsi di colpo e il terrore paralizzarmi. Era il Guardiano e il custode della Pietra del Drago, il Signore del Tumulo delle Cascate Tristi: era un avversario temuto e rispettato, avvolto in una grandiosa armatura antica ma ben conservata, con occhi che brillavano di un azzurro glaciale. Emanava un’aura di morte e il suo respiro era un sibilo che sembrava provenire dalle profondità della terra stessa; la sua immagine mi colpì come un pugno allo stomaco.
L’istinto mi portò a indietreggiare, ma il draugr si era già accorto della mia presenza. Senza esitare, dischiuse la bocca, espirò alcune parole (« Fus… RO DAH! »), e un’ondata energica si sprigionò, accompagnata da un urlo assordante e disumano che rimbombò sulle pareti. Quando mi ripresi dalla folata, il draugr era già praticamente sopra di me: schivai per tempo il fendente mortale, avvertendo spaventosamente il vento dell’arma sfiorarmi il viso, rotolai di lato e mi rialzai prendendo poi ad allontanarmi più in fretta che potevo.
Tenevo l’arco stretto in mano, ma era una semplice arma che non avevo ancora mai usato in una reale battaglia. “Devo farcela”, pensai, cercando di trovare tutto il coraggio per potevo dentro di me. Con mani tremanti estrassi una freccia dalla faretra e la incoccai. La mia mente intanto scorreva; dovevo colpirlo prima che fosse troppo vicino.
Respirai profondamente cercando di calmare la frenesia del mio battito. Il draugr si avvicinava sempre di più e ogni suo passo sembrava far vibrare il terreno. Finalmente, lasciai andare la corda. La freccia fendette l’aria ma colpì il draugr solo di striscio, senza infliggergli un reale danno. La creatura, incurante del mio errore, continuò imperterrita ad avanzare. Ripresi quindi a correre per guadagnare ulteriore spazio, fino a trovare riparo dietro un pilastro.
Con determinazione rinnovata tornai a mirare con l’arco, e questa volta con più attenzione: i dardi andarono a conficcarsi in più punti e il draugr parve finalmente arrestarsi, mentre io lo guardavo con un brivido di soddisfazione.
Quelle creature non sembravano sentire il dolore, né avvertire la fatica; nonostante le frecce fossero piantate nella carne avvizzita, il draugr continuò a muoversi con sorprendente ferocia. Ed era anche un avversario più astuto rispetto agli altri che avevo incontrato durante il tragitto: comprese quasi fin da subito la mia strategia e allora prese a colpirmi a distanza con le sue tremende ondate che presto trasformarono la caverna in una cacofonia di tuoni e grida spettrali. Principalmente erano folate di vento, ma talvolta erano addirittura getti di ghiaccio o di fuoco. Temevo che, prima o poi, quel frastuono avrebbe svegliato i draugr che ancora riposavano o attirato quelli di pattuglia.
Come potevo abbattere quella mostruosità? “No, non posso arrendermi… non proprio adesso.” Compresi che, se volevo uscire da quella situazione, dovevo farmi più audace.
Non appena calava una pausa tra un urlo e l’altro prendevo a muovermi rapidamente, in cerca di un angolo migliore e sicuro dal quale poter colpire, con la creatura che non mi perdeva mai d’occhio. Era un ambiente che era stato eretto direttamente nelle cavità naturali della montagna, quindi, era anche un luogo per la gran parte selvaggio che offriva diverse coperture e ripari; dovevo semplicemente fare in modo che il draugr mi perdesse di vista tra la vegetazione e le rocce.
Dopo aver evitato l’ennesima folata, mi affrettai a ripararmi fra alcuni pilastri e spuntoni che sbucavano dal terreno, in uno spazio lontano dalle colonne di luce. Il respiro pesante e gutturale della creatura mi fece capire che stava valutando se prima o poi avesse scorto del movimento in quella direzione: nella furia di eliminarmi e con la poca illuminazione che c’era, non doveva essersi reso conto di dove fossi finita. Poi lo udii cominciare a muoversi verso la mia direzione.
Cercando di fare il minimo rumore e sfruttando quello prodotto dai passi del draugr, scricchiolanti e appesantiti dall’armatura, presi a sgattaiolare lungo la parete rocciosa che costeggiava il torrente, all’ombra e al riparo dalla vista della creatura. Quando infine raggiunsi un punto in cui avrei dovuto uscire allo scoperto per poter raggiungere la parte opposta del sepolcro, mi sporsi appena oltre il bordo sopraelevato del torrente per controllare cosa stesse facendo: il draugr aveva raggiunto il punto in cui mi ero trovata quando mi aveva persa di vista ed era intento a scrutare negli angoli e negli anfratti ombrosi, l’arma ancora serrata tra le mani e pronta a colpire.
Con un gesto rapido e silenzioso, presi un’altra freccia e mi preparai a scoccarla. Questa volta, mirai al suo punto debole: la testa.
Con un respiro profondo tesi l’arco, il cuore mi batteva all’impazzata nel petto; “Non posso fallire questa volta”. Sperando che non mi notasse lasciai passare alcuni attimi, in attesa di una traiettoria migliore, lo vidi girarsi per dirigersi a cercare altrove e scoccai. La freccia fischiò e lo colpì proprio in mezzo agli occhi. Il draugr emise un verso agghiacciante e crollò a terra, senza mai più muoversi. L’unico suono che rimase fu il mio respiro affannato.
Ancora non ci credevo, avevo appena affrontato e ucciso da sola un nemico forte e temuto, senza alcun aiuto. Il terrore che mi aveva paralizzata era svanito, sostituito da una sensazione di trionfo. Avevo dimostrato a me stessa di poter combattere, nonostante fossi ancora molto inesperta: non sapevo dire se fosse stata più fortuna che bravura ma ero abbastanza sicura che, dopo tutta quella serie di sfortunati eventi, potevo essere capace di grandi cose.
Feci ritorno davanti al muro e sbirciai dentro al sarcofago: come avevo supposto, la Pietra del Drago era lì, sepolta assieme al suo Guardiano. Non era molto grande, ma essendo in pietra era comunque piuttosto pesante; portarla fino a Whiterun non sarebbe stato piacevole, ma potevo farcela. Sopra c’era inciso un testo nella stessa lingua impressa sul muro; sull’altro lato sembrava di intravedere una mappa, sopra a un simbolo che non riuscivo a capire bene cosa rappresentasse, ma probabilmente doveva essere un muso di drago.
Contemplai il mio trofeo in tutto il suo splendore per qualche altro attimo. Quindi lo posi nella sacca insieme all’Artiglio d’Oro, sistemai il tutto in spalla e mi apprestai a tornare indietro, smaniosa di uscire da quel posto. Ne avevo abbastanza di tombe e cadaveri che camminavano, non vedevo l’ora di tornare a respirare un po’ d’aria fresca; con tutto quel puzzo di marcio e di putrido che respiravo ormai da ore, sentivo quasi l’odore ferroso del sangue nelle narici dalla disperazione…
Non è chiaro perché i draugr vaghino per le cripte di Skyrim. Alcuni sostengono che un tempo fossero servitori dei draghi, in seguito condannati a diventare non-morti per il loro tradimento.