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Autore: PrimPrime    16/10/2024    0 recensioni
Per qualche motivo, quando Jim e Oswald si organizzano per restare da soli, i loro piani finiscono per essere annullati!
I due sembravano aver trovato un buon equilibrio, ora che Oswald è diventato sindaco, ma scoprono che il suo nuovo ruolo rappresenta l'inizio di tante difficoltà e compromessi.
Le conseguenze della loro relazione, ora non più del tutto segreta, non tardano ad arrivare.
Le loro strade si incrociano infatti con quelle di tre persone che presentano loro il conto...
Riusciranno a superare la crisi che li attende?
FINALE DELLA SERIE che inizia con "Premure tra sospettati".
Genere: Drammatico, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harvey Bullock, Jim Gordon, Leslie Thompkins, Oswald Cobblepot, Sorpresa
Note: Lime | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Inseguendo un'idea di normalità'
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Capitolo 2

 
 
Oswald era sconvolto.
 
Seduto alla sua scrivania, con il viso appoggiato alle mani per nascondere lo sconforto, aveva appena sentito da Jim ciò che gli aveva fatto fare l'ipnotizzatore.
 
Il detective immaginava come si sentisse, perché ciò che era accaduto era un vero disastro... Ma era altro a preoccuparlo.
 
Oswald aveva anche detto di essere stanco di nascondere la loro relazione e di trattenersi con lui. Jim sapeva che stava reprimendo la sua rabbia da quando stavano insieme, ma non credeva che ci stesse così male.
 
Era come se stare con Jim lo stesse soffocando. Era come se avesse continuato a soffrire in segreto per molto tempo… e questo era straziante per Jim, che non lo aveva minimamente immaginato.
 
“Non ci posso credere,” esalò Oswald, con voce incerta.
 
Jim cedette all'istinto di avvicinarsi per abbracciarlo da dietro in un tentativo di dargli conforto, ma in realtà si sentiva malissimo anche lui.
 
“Sto iniziando a ricordare, anche se è tutto ancora confuso… Dannazione,” aggiunse, in un lamento furioso. “Non volevo, Jim, mi dispiace!”
 
“So che non volevi, non serve specificarlo. Però… non credevo che ti stessi trattenendo così tanto, con me.”
 
Oswald spostò le mani e girò il capo verso di lui, mostrandogli uno sguardo smarrito che si fece spiazzato nel momento esatto in cui comprese il senso di quelle parole.
 
“Ma io ti amo! Non c'era nessuna implicazione in quello che ho detto!” esclamò, come se stesse per andare nel panico.
 
“Anche io ti amo e questo non cambia i miei sentimenti,” gli assicurò Jim.
 
Si inginocchiò accanto a lui, che stava continuando a guardarlo con aria preoccupata dall'alto, e allungò una mano per accarezzargli la guancia sinistra, salendo fino ai capelli che aveva su quel lato della testa. Un gesto che sperava gli trasmettesse i suoi sentimenti e il fatto che lui c'era, che non voleva fosse diversamente.
 
“Sto male al pensiero che quando sei con me ti trattieni per tutto il tempo.”
 
“Ma non è affatto così, Jim,” riprovò Oswald, ancora chiaramente scosso.
 
“L'hai detto prima, quindi è inutile negarlo. Se vogliamo che la nostra relazione duri, dobbiamo capire come stare bene entrambi,” gli disse, prendendogli le mani e abbassando lo sguardo sulle sue gambe mentre ci rifletteva. “Io… non voglio saperlo se uccidi qualcuno, e soprattutto non voglio pensare che potresti fare del male a qualcuno che conosco... Ma se siamo soli e vuoi sfogarti, puoi parlare liberamente.”
 
Oswald continuò a guardarlo in silenzio, con uno sguardo smarrito e pieno di dolore.
 
“Come la volta in cui hai detto che avresti ucciso Grace. Alla fine non l'hai fatto, ma ne abbiamo parlato.”
 
“Allora sappi che voglio uccidere quell'ipnotizzatore!” tuonò Oswald, facendogli provare un brivido freddo. “Come si è permesso? Lo avevo persino avvertito!” e dopo averlo detto, scattò in piedi.
 
Jim si alzò un attimo dopo di lui, ma entrambi rimasero fermi sul posto.
 
Gli occhi del detective scrutarono i suoi nel tentativo di comprenderne le vere intenzioni. Vi lesse rabbia, insieme a dolore e vergogna.
 
Non riuscendo a sopportare il pensiero che stesse soffrendo, Jim si avvicinò e gli diede un bacio leggero.
 
“Mi darai il tempo di provare a salvarlo?” gli chiese, in un tono calmo che non implicava altro.
 
Non stava giudicando le sue intenzioni, né gliene faceva una colpa.
 
Oswald espirò rumorosamente mentre stirava le labbra in un sorriso forzato.
 
“Diciamo che potrei darti un po’ di vantaggio,” dichiarò, in un tono più pacato che nascondeva a malapena la sua rabbia. “Vorrei uccidere anche Barbara per il modo in cui si è comportata, ma temo che mi convenga di più sopportarla ancora per qualche giorno.”
 
Jim annuì, perché in effetti anche lui avrebbe voluto darle una lezione. Però, probabilmente, saperli insieme doveva essere già stata una bella batosta.
 
“Ormai tutti avranno capito che stiamo insieme,” sottolineò, e vide Oswald corrugare la fronte e la sua espressione diventare carica di dolore. “Forse non è davvero un male, adesso potremo essere noi stessi… anche se è stato il modo peggiore per rivelarlo.”
 
“Mi dispiace. So che non volevi che succedesse.”
 
Jim scrollò le spalle.
 
“Non è stata colpa tua. E poi Barnes già lo sapeva, tutti gli altri posso gestirli,” buttò lì, sperando che fosse vero.
 
“Non ti stupirà sapere che molti dei tuoi colleghi sono sul mio libro paga,” dichiarò Oswald e in effetti no, questa rivelazione non lo sorprese. “Aumenterò il loro compenso per assicurarmi che ti lascino in pace.”
 
Jim strabuzzò gli occhi.
 
“Non è necessario.”
 
“Voglio farlo,” insistette. “Mi sentirei più sicuro così.”
 
Jim annuì continuando a guardarlo negli occhi, un misto di emozioni contrastanti ad affollargli la mente a riguardo.
 
“Pensavo… che ti saresti arrabbiato, o che ti avrei deluso,” continuò Oswald. “Per questo stavo cercando di controllare la rabbia. Ma c'era ancora, dentro di me.”
 
“A questo punto preferisco che tu la butti fuori,” sottolineò il detective. “Ho imparato la lezione, non me la prenderò. Al massimo potremo litigare qualche volta, ma quale coppia non lo fa? L'importante è che dopo ci riappacifichiamo.”
 
Oswald annuì, la sua espressione però era ancora incerta, carica di dubbi e timore.
 
“Se non puoi essere te stesso quando siamo insieme… allora non ha senso,” insistette Jim.
 
Oswald finalmente sorrise e a lui sembrò che stesse meglio.
 
Qualcuno bussò alla porta interrompendo il loro discorso.
 
“Ehi capo,” disse Victor Zsasz, entrando senza aspettare che gli desse il permesso. “Mi sono permesso di impacchettarti il mago.”
 
Dopo averlo detto, rivolse lo sguardo a Jim. Era difficile intuire cosa pensasse l'assassino e quel momento non fu un'eccezione.
 
“Ciao Jimbo, immagino che ti si vedrà spesso qui in giro d'ora in poi.”
 
Jim si mise a braccia conserte, incerto sul modo in cui ribattere.
 
“Stai zitto, Victor,” gli ordinò Oswald, precedendolo. “Liberalo. Diamogli un po’ di vantaggio, sarà più divertente in seguito.”
 
Victor Zsasz rilassò le spalle.
 
“Quindi niente torture?” chiese, e a Jim non fu chiaro se non avesse capito o non volesse capire.
 
“No, ho detto. E adesso va’.”
 
“Vorrei parlarci. Con l'ipnotizzatore, intendo. Tu mi aspetti qui?” chiese a Oswald.
 
“Non vado da nessuna parte,” gli garantì mettendosi a sedere, e il sorriso scomparve dal suo viso per lasciare spazio a un'espressione spenta, riflessiva.
 
Jim avrebbe voluto tornare sui suoi passi e restare con lui, ma avrebbe fatto il più velocemente possibile.
 
Seguì Victor in un'altra zona accessibile solo al personale, fino a una specie di locale caldaia dove trovò l'ipnotizzatore legato a una sedia.
 
“Che volete da me?” chiese non appena li vide, sobbalzando per quanto gli fosse possibile da quella posizione.
 
L'atteggiamento spavaldo e tranquillo che aveva avuto sul palco, fino a poco prima, non c’era più. Adesso era chiaramente scosso.
 
“Niente, sei libero di andare,” rispose Jim, rimanendo vicino alla porta.
 
Fu Zsasz ad avvicinarsi all'ostaggio per slegarlo, e mentre lo faceva Jim vide che aveva stampato sul viso un sorriso privo di qualsiasi emozione.
 
“Goditi i tuoi ultimi momenti. Ci rivedremo molto presto,” gli promise, e l'uomo quasi cadde in avanti nel tentativo di alzarsi per allontanarsi subito da lui.
 
“Questo che cosa significa?” chiese, rivolgendo uno sguardo smarrito prima all'uno e poi all'altro.
 
“Che sei vivo, per il momento, ed è solo grazie a lui,” rispose Victor, in un tono giocoso.
 
“Sì…” confermò Jim, abbassando lo sguardo e serrando la mascella.
 
Era proprio finito in una situazione di merda.
 
Alla fine l'ipnotizzatore corse via, apparentemente spaventato dagli sguardi che Victor gli aveva rivolto.
 
“Ah, è un gran peccato. Avevo già pensato al modo perfetto per ucciderlo, e al capo sarebbe piaciuto tanto. Beh, il momento è stato solo rimandato,” dichiarò, e Jim decise di non commentare.
 
Quando tornò da Oswald, era a dir poco infastidito.
 
Trovò il suo ragazzo esattamente dove lo aveva lasciato, a consultare delle carte forse per tenersi impegnato.
 
“Jim, va tutto bene?” gli chiese, con aria preoccupata.
 
Il detective scosse la testa. Un attimo dopo, però, si rese conto che non poteva chiedere a Oswald di parlare liberamente, se lui in primis evitava di farlo. E allora, con un sospiro, decise di dire ciò che pensava davvero.
 
“Non sono d'accordo sul fatto che tu voglia ucciderlo. Non potresti, magari… dargli una lezione e basta?”
 
Dopo averlo detto, si accorse che Oswald era rimasto spiazzato dalle sue parole.
 
“Davvero lo difendi dopo quello che mi ha fatto fare? Io non posso tollerarlo!” esclamò, indurendo l'espressione.
 
“Lo so,” disse Jim, facendosi più vicino. “Però prova a valutare la cosa in base alle conseguenze. Pensaci con calma domani, e magari anche lunedì. Insomma, prima vediamo come cambieranno le cose d’ora in poi.”
 
Oswald sembrò valutare la sua proposta per un momento.
 
“Stai suggerendo di torturarlo e basta, nel caso in cui non fosse poi così male?” chiese conferma, questa volta in un tono calmo.
 
“Esatto. Anche se sorvolerei sulle torture, ma immagino che sia chiedere troppo.”
 
Oswald stirò le labbra in un sorriso forzato.
 
“Sentiamo, tu al posto mio cosa faresti?”
 
E quella domanda spiazzò Jim.
 
Cosa avrebbe fatto, trovandosi al vertice della malavita di Gotham e subendo una cosa del genere? In effetti, non avrebbe lasciato correre. Sia per una questione di vendetta, sia per salvare la faccia con le altre personalità del crimine locale.
 
Jim strinse i denti.
 
Non puoi fare finta di niente e basta...”
 
Oswald inspirò rumorosamente.
 
“Vedo che hai capito,” disse solo, e si alzò per prendere qualcosa da bere, dandogli le spalle.
 
Doveva averlo ferito molto, ciò che gli aveva fatto fare l'ipnotizzatore. Sapeva già che era insicuro, e quello che era appena successo doveva aver fatto andare in pezzi la base di sicurezza che Jim lo stava aiutando a costruire. Inoltre era facile che cedesse alla rabbia, e come riuscire a mantenersi calmi in una situazione del genere? Nessuno ci sarebbe riuscito.
 
Doveva essere anche molto preoccupato, e in questo Jim lo capiva.
 
Aveva fatto fatica ad ammettere con Harvey che gli piaceva un uomo, e sapeva che Oswald lo aveva tenuto segreto per molto più tempo, per il timore di non essere accettato.
 
E anche se le persone intorno a loro erano state comprensive, adesso la voce si sarebbe sparsa per tutta Gotham… arrivando a chi aveva un forte pregiudizio, ma anche a chi non li sopportava e cercava un pretesto per dar loro contro. Era il naturale corso degli eventi, Jim temeva che Oswald lo sapesse e che non fosse pronto.
 
Anche lui, probabilmente, non lo era.
 
Però una parte di lui continuava a sperare che le cose sarebbero andate per il meglio. Almeno per Oswald, che in quanto sindaco non aveva motivo di preoccuparsi di eventuali ripercussioni, per il fatto che usciva con un detective. L'unico potenziale problema era che Jim era un uomo.
 
Quanto al suo lavoro non ufficiale, un tempo gli aveva detto che, rivelando di loro due, avrebbe potuto dare l'impressione di avere il detective in suo potere. Sperava che fosse davvero così.
 
Oswald tornò vicino a Jim con due bicchieri di liquore e gliene porse uno. Lui lo accettò prontamente, sentendo che quella sera aveva davvero bisogno di bere.
 
“Che ne dici, torniamo a casa?” gli propose, dopo averne svuotato il contenuto.
 
Forse l'alcol era riuscito a dargli un po’ di coraggio.
 
“Non so se me la sento,” ammise Oswald, con un'espressione contrita.
 
Jim gli prese una mano.
 
“Andrà tutto bene. Ci metteremo un attimo ad attraversare il club, poi saremo solo noi due,” sottolineò, sperando che fosse d'aiuto.  
 
In realtà lo stava dicendo anche a sé stesso.
 
“Va bene, Jim,” si arrese, dando una debole stretta alla sua mano. “Però tu resta vicino a me,” gli chiese, e il detective annuì.
 
Nel locale, la festa stava continuando come se niente fosse. Jim non lasciò mai la mano a Oswald, e loro passarono quasi inosservati, ma i clienti più vicini li notarono comunque e rivolsero loro delle occhiate curiose.
 
Per fortuna nessuno provò a fermarli e anche Barbara non si vedeva da nessuna parte.
 
Una volta fuori, nella fredda aria di Gotham, Jim poté riprendere a respirare e capì che anche Oswald aveva provato le sue stesse sensazioni. Adesso si teneva la mano libera premuta sul petto e sembrava in imbarazzo, ma anche teso.
 
Senza mollare la presa sulla sua mano, Jim lo condusse fino all'auto accompagnandolo dal lato del passeggero e aprì la porta per lui. Sembrava il più scosso perciò non voleva farlo guidare, voleva solo che provasse a distrarsi e a rilassarsi. Così salì in macchina anche lui e mise in moto, diretto al suo appartamento.
 
Era tardi quando arrivarono. Jim non si era accorto di che ore fossero finché non era entrato in casa e aveva guardato distrattamente l'orologio sulla parete del soggiorno.
 
Con la preoccupazione per la vita dell'ipnotizzatore momentaneamente svanita nell'aria, il suo unico pensiero era rimasto Oswald, che non aveva più aperto bocca.
 
“Ehi,” richiamò la sua attenzione con tono gentile, facendosi vicino.
 
Lo strinse a sé e sentì Oswald abbracciarlo infilando le mani sotto alla sua giacca, forse alla ricerca di un contatto più ravvicinato.
 
“Ti fidi di me?”
 
“Certo che mi fido di te, James.”
 
“Allora sappi che andrà tutto bene. Ne sono sicuro,” gli sussurrò, per poi posare un bacio sulla sua tempia.
 
Avrebbe voluto distrarlo con il suo corpo, fargli perdere la testa fino a dimenticare le preoccupazioni di quella serata, anche se solo per una notte, però non era in vena. Anche Jim, per quanto cercasse di non darlo a vedere, si sentiva drenato e aveva dubbi su cosa sarebbe successo da lì in avanti.
 
Si lavarono insieme, riservandosi attenzioni e carezze che non andarono mai oltre il bacio. Poi, quando si misero a letto, il silenzio che era rimasto tra loro si fece opprimente.
 
Jim osservava Oswald di sottecchi, notando che era perso nei suoi pensieri e non sapendo più cosa dire per rassicurarlo.
 
Prima di sdraiarsi, lo vide accarezzarsi distrattamente la gamba malandata e in quell'istante capì che una cosa, per lui, poteva farla.
 
“Ti fa male?” gli chiese, spostandosi davanti a lui, sul materasso.
 
“Non più del solito... Ormai ci sono abituato,” rispose, con un tono di voce spento.
 
“Posso?” gli domandò, avvicinando le mani.
 
Oswald sembrava sorpreso, ma annuì.
 
Jim gli sollevò piano il pantalone morbido che la copriva, rivelando la sua cicatrice. E pensare che, all'inizio, Oswald aveva avuto paura di mostrargliela… ma lui non ne era affatto disgustato. Era una parte di lui, una parte che andava trattata con cura, a cui andava dato calore, e Jim quella sera aveva le mani calde.
 
Iniziò quindi a massaggiarla piano, rievocando nella sua mente il ricordo di come lo aveva visto toccarla per darsi conforto.
 
“Ti faccio male?” gli chiese, volendo accertarsi di quello che stava facendo.
 
“No…” rispose, continuando a guardarlo con gli occhi sgranati per la sorpresa.
 
Ma Jim non si fermò a questo. Ricordava che Oswald gli aveva raccontato di sua madre, una delle volte in cui erano andati insieme alla sua tomba. In particolare, di come cantava per aiutarlo a non pensare al dolore.
 
Jim non era tipo da cantare. Non l'avrebbe fatto davanti agli altri per nessun motivo, in nessuna occasione al mondo. Ma forse, per Oswald che stava male emotivamente e fisicamente, poteva fare un’eccezione.
 
Quindi riportò alla mente una vecchia melodia dai toni dolci che aveva sentito chissà dove e, seppur con un imbarazzo iniziale, si mise a canticchiarla a labbra chiuse, mentre massaggiava.
 
Si concentrò in quello che stava facendo, per fare attenzione a non premere troppo, e quel canto sommesso quasi gli venne naturale.
 
Quando poi alzò gli occhi su Oswald vide che gli stava rivolgendo uno sguardo carico di emozione, e Jim si sentì importante, si sentì prezioso... Si sentì amato.
 
E sperava che anche Oswald si sentisse così. Sperava sapesse che ciò che avevano era più forte degli sguardi malevoli degli altri, e che insieme avrebbero potuto affrontare molto di peggio. Perché Jim non sapeva cosa li aspettava, ma questo lo sapeva per certo.
 
 
L'indomani fu una domenica particolarmente pigra.
 
Jim fu il primo ad alzarsi, senza forzare Oswald a fare lo stesso pur sapendo che era sveglio. Preparò la colazione per entrambi, sperando che almeno volesse mangiare. Lo chiamò solo quando fu pronto e fu grato di vederlo collaborare. Si sedettero insieme, ma rimasero in silenzio. Oswald aveva l'aria abbattuta e forse non aveva dormito molto.
 
Rimasero a casa, a parlare di temi tranquilli come a fingere che non fosse successo niente. Come se si fossero messi d'accordo per non toccare l'argomento, anche se non era così.
 
Verso le undici il telefono di Oswald iniziò a vibrare. Ogni volta che lui lo guardava si faceva prima preoccupato e poi induriva la mascella, segno che aveva ricevuto un messaggio che lo aveva fatto arrabbiare.
 
Dopo la quinta o la sesta volta, Jim sospirò e decise che ne aveva avuto abbastanza.
 
Gli prese il telefono dalle mani, al che lui sgranò gli occhi e schiuse le labbra per la sorpresa.
 
“Stai aspettando un messaggio importante? C'è un motivo preciso per cui devi controllare sempre il telefono?” gli chiese cautamente, scrutando la sua reazione.
 
“No, ma… E se fosse mio padre che sta male?” provò a giustificarsi.
 
Jim scosse la testa.
 
“Elijah ha il mio numero e lo abbiamo dato anche al suo medico. Se non rispondessi tu, cercherebbe di contattare me. Io ti prometto che starò attento al mio telefono, ma ti chiedo di mettere via il tuo, per oggi. Si vede che controllarlo non ti fa bene.”
 
Oswald lo stava guardando con smarrimento, ma sentendo quelle parole annuì e rilassò le spalle.
 
“Immagino che tu abbia ragione. Ti ringrazio, James,” gli disse, rivolgendogli un accenno di sorriso che però svanì subito.
 
 
Il giorno dopo, Jim si svegliò aspettandosi il peggio. Dopotutto, era lunedì e la notizia di ciò che era successo al club ormai doveva essersi diffusa.
 
Questa volta però era stato Oswald ad alzarsi per primo.
 
Quando Jim si accorse che il posto a letto accanto a lui era vuoto, si preoccupò e poté tirare un sospiro di sollievo solo quando vide che lui era in cucina, già pronto per la giornata.
 
Stava preparando la colazione, il che gli riportò alla mente il periodo in cui lo aveva ospitato in segreto.
 
“Come ti senti?” gli chiese, abbracciandolo da dietro.
 
Oswald si appoggiò contro il suo petto e rimase in silenzio per un altro secondo, forse beandosi di quel contatto perché, come Jim, sentiva di averne bisogno.
 
“Ammetto di essere molto preoccupato, ma immagino che sopravvivrò.”
 
“Devi. Altrimenti io come farei?” ribatté Jim, d'istinto. “Comunque, sono sicuro che andrà meglio di come crediamo.”
 
“Spero che tu abbia ragione.”
 
Jim lo liberò dalla sua presa e lo aiutò a mettere in tavola la colazione, che ormai era pronta.
 
Dopo aver mangiato, il detective tornò in camera per cambiarsi e lo fece con la lentezza di chi stava andando al patibolo. Tanti pensieri gli affollavano la mente e gli sarebbe stato impossibile zittirli per ora.
 
Quando Oswald lo raggiunse, capì che ci stava mettendo davvero troppo tempo.
 
Il suo ragazzo sospirò mentre gli si avvicinava, e senza dire niente prese la cravatta che aveva scelto, appoggiata sul letto in attesa, e gliela mise. Jim osservò la cura con cui stava svolgendo quel gesto e non riuscì a sorridere, ma si sentì meglio.
 
“Troppo concentrato sulle mie preoccupazioni, non ti ho chiesto come stai tu,” ammise Oswald, finendo di fargli il nodo e alzando lo sguardo sul suo viso.
 
Jim gli si avvicinò di più per dargli un bacio leggero.
 
“Adesso va meglio,” dichiarò, al che Oswald stirò le labbra in un sorriso.
 
Fu Jim a guidare, perché non voleva dargli quell'incombenza mentre aveva tanto per la testa, più di lui probabilmente. Non erano ancora arrivati in municipio quando, fermandosi a un semaforo, gli cadde l'occhio sull'edicola all'angolo. E così vide il giornale che era esposto verso l'esterno, in almeno una decina di copie.
 
E, anche se da lontano, notò che la foto in prima pagina era stata scattata al club.
 
“Cazzo.”
 
“Cosa succede?” gli chiese Oswald, voltandosi nella sua direzione.
 
“Credo proprio che siamo finiti sul giornale,” lo informò.
 
In effetti non era strano, dato che lui era il sindaco, che una notizia del genere facesse scalpore, però ciò non faceva altro che ingigantire il problema.
 
Oswald sbiancò e non commentò subito la cosa.
 
“Andrà tutto bene…” disse Jim, in realtà anche per rassicurare sé stesso.
 
 
Tra la lentezza a prepararsi e la tappa in municipio, dove aveva affidato Oswald a Gabe, Jim era arrivato al lavoro dopo Harvey e aveva trovato il suo partner all'ingresso, ad attenderlo con una copia del giornale in mano e con uno sguardo tra il torvo e il preoccupato.
 
Anche altri sguardi accolsero Jim, sguardi che non gli fecero preannunciare niente di buono. Ma poté a malapena accorgersene, perché Harvey lo prese per un braccio per condurlo in fretta verso le loro scrivanie.
 
“Mettiti seduto, Jim,” lo invitò, prima di passargli la sua copia del Gotham Gazette.
 
Jim fece come diceva lui, poi la prese.
 
L'immagine in prima pagina, come aveva intuito, era una foto di loro due sul palco dell'Iceberg Lounge. Oswald lo teneva per il polso e aveva lo sguardo fisso su di lui, Jim invece stava guardando l'ipnotizzatore.
 
Il titolo dell'articolo era: “Il sindaco Cobblepot dichiara pubblicamente la sua relazione con il detective Jim Gordon della GCPD. 
 
Dopo aver emesso un sospiro di frustrazione, Jim iniziò a leggere velocemente.
 
L'articolo faceva riferimento anche a un'intervista tenuta tempo prima da Oswald, nella quale, oltre alle domande ufficiali, gli avevano chiesto quale fosse il loro rapporto e loro avevano detto di essere amici. Il che non aveva fatto notizia all'epoca.
 
Accanto al trafiletto che vi faceva riferimento, c'era in piccolo la foto scattata a tradimento a entrambi, nel momento in cui erano entrati nella stanza.
 
Poi venivano citati altri episodi, come il giorno delle votazioni, sottolineando che ad accompagnarlo anche quella volta era stato Jim.
 
Infine si sottolineava come a far uscire allo scoperto la relazione fosse stato Jervis Tetch, assunto come ipnotizzatore per la serata di riapertura dell'Iceberg Lounge. Quindi si diceva che quello non era stato un annuncio voluto, bensì qualcosa che Oswald era stato spinto a dichiarare, e che anche per questo non ci fossero dubbi sulla veridicità delle sue parole.
 
Jim ripiegò il giornale e lo consegnò ad Harvey, che lo stava ancora fissando con aria preoccupata.
 
“Cosa vuoi che ti dica?”
 
“Niente, ma volevo essere io a fartelo sapere,” disse il suo amico. “Questa situazione è una merda, tieni la guardia alta.”
 
“È arrivato Gordon?” tuonò imperiosa la voce di Barnes, dall'interno del suo ufficio.
 
Quasi dimenticavo, Barnes ti cerca,” disse Harvey, e Jim si alzò per andare in contro al peggio.
 
Bussò ed entrò nell'ufficio, mentre Harvey rimaneva all'esterno in attesa. La scena che si ritrovò davanti, però, era qualcosa che proprio non si era aspettato.
 
Insieme al capitano della GCPD, seduto sulla sedia dall'altra parte della scrivania, non c'era altri che l'ipnotizzatore di quella sera, solo con indosso un completo meno appariscente e senza il cappello a cilindro.
 
“Eccoti finalmente, Jim,” disse Barnes, e dal suo tono gli parve rassegnato. “Il signor Jervis Tetch, ma sono certo che lo conosci già.”
 
“Sì, infatti. Cosa ci fai qui?” chiese, rivolgendosi al diretto interessato.
 
Tetch scattò in piedi e gli si fece vicino.
 
“Non pensavo che fossi un detective, Jim. L’ho scoperto vedendo il giornale di stamattina. Devi proteggermi, lo sai anche tu che vogliono uccidermi!”
 
Jim indurì lo sguardo e poi lo rivolse a Barnes, per studiarne la reazione, ma non ne ebbe nessuna, quindi dedusse che dovevano averne già parlato.
 
“Quando lo hai ipnotizzato, non sapevi con chi avevi a che fare?” chiese a Tetch.
 
“Certo che no! Pensavo che fosse semplicemente il sindaco.”
 
Jim sbuffò, infastidito.
 
“Allora, Jim, lo ha minacciato. Vuoi forse fare finta di niente?” lo rimbeccò Barnes.
 
“No, ma le cose non stanno così. Oswald non l’ha minacciato, è Victor Zsasz che l'ha fatto di sua iniziativa. Poi Oswald gli ha detto di lasciarlo andare e lui ha obbedito,” puntualizzò.
 
“Ma quel tizio ha detto che mi resta poco da vivere!” esclamò l'ipnotizzatore, visibilmente preoccupato.
 
“Sentiamo Jim, Cobblepot ha detto o non ha detto di voler uccidere il signor Tetch?”
 
Jim rivolse lo sguardo a Barnes, improvvisamente combattuto sul da farsi.
 
“Chi non ha mai detto una cosa del genere in un momento di rabbia?”
 
L'espressione del capo della polizia si indurì.
 
“La differenza è che lui è un criminale e lo farebbe veramente!” sottolineò.
 
“Non succederà,” dichiarò, con convinzione.
 
“Spero per te che sia così. Lo spero davvero,” gli disse Barnes, e Jim comprese che c'era una minaccia velata in quelle parole. “Affiderò la protezione del signor Tetch a un altro agente. Adesso fuori di qui!”
 
“Jim, possiamo parlare un momento?” gli chiese Tetch, seguendolo all'esterno.
 
“Che vuoi ancora?” gli domandò, con un tono freddo.
 
Si trovavano in una posizione rialzata, fuori dall'ufficio del capitano, perciò tutti avrebbero potuto vederlo parlare con lui e riconoscerlo come l'ipnotizzatore che compariva sul giornale con loro. La consapevolezza di ciò gli provocava una spiacevole sensazione all'altezza dello stomaco.
 
“In realtà non sono venuto a Gotham per cercare lavoro, ma per ritrovare mia sorella Alice. Ero restio a rivolgermi alla polizia, ma forse tu…”
 
“Forse io, cosa?” chiese, sollevando un sopracciglio.
 
Che stesse insinuando che Jim non agisse secondo la legge, visto chi frequentava? Quella insinuazione mai pronunciata lo infastidì nel profondo.
 
“Forse potresti darmi una mano. Poi me ne andrei e tutto sarebbe risolto, non trovi?”
 
Jim ci pensò su. In effetti se lui se ne fosse andato Oswald non avrebbe potuto ucciderlo, e col tempo il suo rancore sarebbe scemato, o almeno così sperava.
 
“Vieni, parliamone alla mia scrivania.”
 
 
Jim avrebbe gradito delle scuse da parte dell'ipnotizzatore e si domandava se per Oswald non fosse lo stesso. Certo, delle scuse non sarebbero bastate a estinguere la sua rabbia, ma forse avrebbero aiutato…
 
Ci stava ancora riflettendo perché era intenzionato a fargli cambiare idea a riguardo, ma ne avrebbero parlato con calma quella sera, dopo il lavoro.
 
Per il momento, sperava che le cose gli stessero andando bene.
 
Aveva accettato il caso di Alice Tetch, anche se non si trattava di un'indagine ufficiale, perciò presto sarebbe uscito con Harvey a indagare. Era quasi l'ora di pranzo quando si avviò verso la porta seguito dal suo amico, e per arrivarci si avvicinò a un gruppo di colleghi che stavano perdendo tempo.
 
“Ma le cose non sembrano andare tanto bene per la nuova coppia,” disse uno degli agenti, che stava leggendo il giornale ad alta voce per il divertimento degli altri. “Il sindaco ha dichiarato infatti che si trattiene per non deludere il detective…”
 
“Finiscila, Marquez!” lo riprese Harvey, alzando la voce per sovrastare la sua.
 
“Bullock, non ti immischiare,” si lamentò uno degli altri colleghi, come se avessero tutto il diritto di continuare.
 
“Lascia stare, abbiamo altro a cui pensare,” gli disse Jim, afferrandolo per un braccio prima che potesse andare da loro.
 
Cercando di non lasciarsi distrarre, fece per avanzare verso la porta.
 
“Ehi Gordon,” lo chiamò uno del gruppo, e quando lui si voltò gli arrivò un pugno in faccia che lo lasciò stordito per un mezzo secondo.
 
La sua reazione istintiva fu quella di rispondere allo stesso modo, e in quel momento anche gli altri si avvicinarono in fretta.
 
“Uo uo uo!” esclamò Harvey, tirando Jim per una spalla e mettendosi tra di loro. “Ma dico, siete impazziti? Andiamo, Jim.”
 
A denti stretti, lui seguì il suo amico all’esterno.
 
“Quei bastardi sono usciti di testa,” commentò, mentre guidava. “Attaccarti così, alla centrale… Barnes avrebbe potuto vederli e sarebbero finiti nella merda.”
 
“Posso capire perché l’abbiano fatto,” ribatté Jim. “Sono un collega, eppure ho una relazione con il boss della malavita di Gotham. È normale che inizino a non sopportarmi.”
 
“No che non è normale, Jim! Quando tu l’hai detto a me, ti ho preso per pazzo ma è finita lì, non ho avuto bisogno di picchiarti. E va bene che loro sono solo colleghi mentre noi siamo amici, ma è stata comunque una reazione esagerata.”
 
Jim sospirò sommessamente. In realtà aveva immaginato che prima o poi sarebbe successo qualcosa di simile, e non pensava che la questione fosse chiusa con così poco.
 
Mentre ci rifletteva, controllò il suo aspetto nello specchietto.
 
Il pugno che aveva incassato gli aveva lasciato un segno rossastro sullo zigomo destro, e lui era diretto da Oswald per cercare indizi sulla posizione di Alice Tetch, ma anche per riprovare a convincerlo a lasciar stare l’ipnotizzatore.
 
Questo non deponeva affatto in suo favore.
 
“Non posso entrare in municipio e farmi vedere così,” dichiarò, lasciando sottintese le sue preoccupazioni.
 
“Non starai suggerendo che ci vada io al tuo posto...” disse Harvey, con una nota sospettosa nella voce.
 
“Sì. So che ti chiedo molto, ma mi farò perdonare.”
 
In quel modo avrebbero rimandato l’inevitabile alla sera, quando si sarebbero visti a casa.
 
“Dannazione, Jim! E va bene,” si arrese, con uno sbuffo.
 
 
—------
 
Dopo aver parcheggiato, Harvey uscì dall’auto e varcò la soglia del municipio ripetendo mentalmente a se stesso che quello era un lavoro ingrato. Ma se doveva farlo, allora sperava di riuscirci in fretta.
 
Un’impiegata all’ingresso gli indicò dove trovare il sindaco e così procedette a passo spedito fino al piano di sopra, verso una sala che sembrava adatta alle riunioni per via del grande tavolo che ne occupava il centro.
 
In quella stanza, però, c’erano solo tre persone: Edward Nygma, una ragazza bionda che aveva l’aria familiare e infine Cobblepot, che aveva lo sguardo basso su alcuni documenti.
 
Harvey bussò prima di entrare, ma dato che la porta era aperta la varcò subito dopo.
 
“Detective Bullock?” disse Cobblepot, corrugando la fronte.
 
Un istante dopo la sua espressione mutò e Harvey ci lesse della preoccupazione, anzi era proprio allarmato.
 
“È successo qualcosa a Jim?”
 
“No, lui sta bene.”
 
Si ripeté mentalmente le parole che il suo amico gli aveva detto, prima che uscisse dall’auto: “Non provocarlo, non è un buon momento.” 
 
“Ha bisogno di un favore, ma non è venuto di persona per paura di attirare degli sguardi e metterti a disagio.”
 
“Che sciocchezza. No, qui va tutto sorprendentemente bene, puoi anche dirgli di venire.”
 
“Ormai sono qui, perciò sarà per la prossima volta. Di quel favore possiamo parlare in privato?”
 
L’altro strabuzzò gli occhi.
 
“Certo,” disse poi, alzandosi e facendogli strada.
 
Entrarono nella stanza accanto che si rivelò essere un ufficio, e qui Cobblepot si sedette alla scrivania mentre gli faceva segno di accomodarsi davanti a lui.
 
“È insolito che James mi chieda un favore, come ai vecchi tempi,” sottolineò, con aria curiosa.
 
“Abbiamo bisogno di rintracciare una persona, per un caso,” disse, evitando di commentare, e intanto gli passò una sua foto. “È scomparsa da tempo e il fratello la cerca. Dovrebbe vivere nei bassifondi, per i tuoi uomini trovarla sarà una cazzata.”
 
“Li metto subito al lavoro. Come si chiama la ragazza?”
 
“Alice Tetch,” rivelò, e vide la sua espressione indurirsi.
 
“Tetch… Come Jervis Tetch…” commentò, della tensione chiaramente presente nella sua voce. “Sta lavorando a un caso che riguarda quel bastardo?” chiese, ma la sua sembrava più un’affermazione, e la pronunciò con un tono di voce più alto.
 
Almeno la porta dell’ufficio era chiusa, quindi potevano parlare liberamente.
 
“Senti Cobblepot, tu non mi vai a genio e questo non cambierà mai. Volevo bene a Fish! Mi trattengo solo per Jim, perciò sappi che se lo farai soffrire ti prenderò a pugni.”
 
“Per la cronaca, Fish Mooney è viva e vegeta perché io l’ho risparmiata! E il favore cosa avrebbe a che fare con la possibilità di far soffrire Jim?” chiese, alzando la voce e corrugando leggermente la fronte.
 
Harvey sbuffò. Pinguino poteva essere anche un calcolatore, ma spesso non vedeva più in là del suo becco.
 
“Barnes l’ha convocato questa mattina. Sa che vuoi uccidere Tetch, perciò se lo farai sparire verrai accusato e ci andrà di mezzo anche Jim.”
 
Cobblepot sgranò gli occhi e schiuse le labbra. Un’espressione spiazzata ed ebete che Harvey gli aveva già visto fare altre volte.
 
“Adesso lo sai. Non fare niente di stupido e riparlane con Jim più tardi, io sono solo un messaggero,” specificò, temendo di rimanere incagliato in quella conversazione ancora per molto.
 
Il sindaco annuì con aria incerta, senza guardarlo negli occhi. Forse stava riflettendo, ma ad Harvey non importava un granché.
 
“Bullock, prima di andare… Come sta Jim?” gli chiese, senza alzare lo sguardo su di lui.
 
Harvey tolse i gomiti dalla scrivania e si alzò in piedi, incerto su come rispondere.
 
“Bene, sai com'è fatto,” buttò lì, ma dallo sguardo di Cobblepot capì che non era una risposta rassicurante. “Adesso devo andare, mi sta aspettando di sotto.”
 
Il sindaco scattò in piedi, nello sguardo un'urgenza che un attimo dopo si spense. Poi gli fece un cenno come per dire di lasciar perdere, e così Harvey poté finalmente uscire.
 
 
—------
 
Jim stava ancora aspettando in macchina quando ricevette una telefonata e scoprì, per sua sorpresa, che si trattava di Oswald.
 
“Ciao, che succede?” gli chiese, sperando fortemente che andasse tutto bene.
 
“Lo chiedo io a te. Ho appena parlato con Bullock,” ribatté, la voce tinta da una nota di preoccupazione.
 
“Sì… Pensavo non fosse il caso di entrare, non sapendo come fosse la situazione. Temevo che avrei peggiorato le cose.”
 
“Ma no James, avresti potuto chiamare e ti avrei detto di salire,” disse e sospirò. “C'è qualcosa che non mi stai dicendo? Bullock non è stato chiaro quando gli ho chiesto come stessi. Com'è la situazione alla GCPD?”
 
Fu Jim a sospirare questa volta, incerto su cosa dirgli. Ma parlargli del pugno avrebbe solo peggiorato le cose.
 
“Un po’ tesa, sia con i colleghi sia con Barnes, ma mi aspettavo di peggio,” ammise, perché in effetti era vero.
 
“Bene. Io sono stato paranoico per tutta la mattina e adesso ho un gran mal di testa… Ma, a parte qualche giornalista che abbiamo mandato via, nessuno ha detto niente.”
 
Jim si sentì sollevato.
 
In quel momento Harvey rientrò in auto.
 
“Meno male. Invece, per quel favore che mi dici?” chiese, anche se avrebbe potuto aspettare e parlarne con il suo partner.
 
Ma voleva subito togliersi il pensiero e accertarsi, dal suo tono di voce, di come si sentisse a riguardo.
 
“Quello che riguarda Tetch o la ragazza?” domandò Oswald, e dal tono Jim capì che era infastidito. “Bullock mi ha detto che finiresti nei guai anche tu, quindi per il momento non farò nulla.”
 
“Grazie. Ne riparliamo stasera,” disse, spostando lo sguardo su Harvey che si era messo a guidare e che ogni tanto gli rivolgeva delle occhiate preoccupate.
 
“Sarà difficile. Le antiche famiglie hanno indetto una riunione e so già di cosa vorranno discutere.”
 
Jim restò spiazzato.
 
“Vuoi che… ti accompagni, o faccia qualcosa per te?”
 
“Oh no Jim, non è proprio possibile,” gli rispose, con una risatina nervosa. “Ma se andassi tu da mio padre mi faresti un grosso favore.”
 
“Certo, non c'è bisogno di chiederlo. Ci vediamo da me, dopo?”
 
Sperava tanto che accettasse. In caso contrario, non sarebbe stato tranquillo.
 
“Sì. Ti lascio, immagino che avrai da fare.”
 
Dopo i saluti, Jim mise in tasca il cellulare con un sospiro.
 
“Guai in vista?” chiese Harvey.
 
“Forse. Come l'hai trovato?”
 
Il suo amico scrollò le spalle.
 
“Per me era il solito Cobblepot. Ma quando gli ho detto di lasciare in pace Tetch, pensavo che si sarebbe arrabbiato di più.”
 
 
Quel pomeriggio, Oswald gli fece avere una soffiata sulla posizione di Alice Tetch, così Jim e Harvey trovarono il bar dove lavorava. Peccato che lei fosse appena stata licenziata.
 
Tramite il proprietario riuscirono a risalire all'appartamento della ragazza, ma lei si oppose all'idea di tornare dal fratello e scappò, lasciandoli col cadavere del padrone di casa. La situazione si era fatta complicata, e la quantità di scartoffie che i due detective dovettero compilare prima di tornare a casa ne fu la diretta conseguenza.
 
Jim passò a trovare Elijah e poi tornò al suo appartamento dove cenò tardi, da solo e in pensiero per Oswald.
 
Alla fine si fece così tardi che decise di mettersi a letto, dove era certo che non avrebbe preso sonno, perché troppo preoccupato.
 
Oswald sapeva cosa stava facendo, le antiche famiglie però controllavano la criminalità a Gotham, trovandosi solo un gradino al di sotto di lui, e in questo caso la sua era una posizione di svantaggio.
 
Il ritorno di Oswald, chissà a quale orario, lo fece uscire dallo stato di dormiveglia in cui era caduto. Jim accese la luce della lampada per guardarlo e assicurarsi che stesse bene. Era visibilmente stanco ma non aveva un graffio, così sospirò per il sollievo.
 
“Va tutto bene, James,” gli disse lui, accennando un sorriso.
 
“Cosa volevano?” si decise a chiedergli, per capire davvero la situazione.
 
“Vedere se sono io che controllo te o viceversa. Ma non avevano messo in conto il fatto che io ho in pugno ognuno di loro,” rispose, con una sicurezza che lo fece sentire decisamente meglio.
 
“Ti sei fatto dei nuovi nemici stasera?” indagò ancora, volendo togliersi ogni dubbio.
 
“No. O meglio, li avevo già, ma i capi delle famiglie mi sono fedeli. Li ho convinti che non ti passo informazioni e non c'è niente che dobbiamo fare per tenerli buoni,” disse, al che Jim annuì.
 
Mentre Oswald si stendeva accanto a lui, Jim spense la lampada facendo ripiombare la stanza nell'oscurità. Solo la luce della luna e dei cartelloni pubblicitari della città filtrava fioca attraverso la finestra, rischiarando appena l'ambiente intorno a loro.
 
Oswald lo strinse a sé in un modo bisognoso che smosse qualcosa nel petto di Jim.
 
“È stata una lunga giornata… Mi sei mancato.”
 
“Anche tu,” gli rispose, accarezzandogli la nuca mentre lo abbracciava a sua volta.
 
L'indomani mattina, i toni tra loro furono molto diversi.
 
“Chi diavolo ti ha fatto quel livido?” chiese Oswald, la rabbia ben presente nella sua voce, quando alzandosi trovò Jim già in cucina che lo aspettava.
 
Il giorno prima, alla luce fioca della lampada, non doveva averlo notato, e francamente il detective se ne era persino dimenticato ormai, con tutto quello che era successo.
 
“Un sospettato particolarmente testardo,” rispose, e mise in tavola la colazione.
 
“Non ti credo. È stato un collega?” gli chiese accarezzando il suo zigomo con tocco delicato, per poi rivolgersi a lui con un tono più dolce: “Ti fa male?”
 
“No, non sento più niente ormai,” lo rassicurò, prendendo quella mano con la sua e avvicinandosi per dargli un bacio.
 
“Non riuscirai a distrarmi così,” puntualizzò Oswald, anche se la rabbia nel suo tono di voce era del tutto svanita. “Quindi i tuoi colleghi ti aggrediscono, ma io non posso uccidere Tetch…”
 
“Non è stato lui a darmi un pugno,” sottolineò Jim, avvolgendo le braccia intorno alla vita di Oswald. “È stato un solo episodio e a me non importa.”
 
Il suo ragazzo sospirò.
 
“Non mi piace questa storia,” dichiarò, prendendo posto a tavola.
 
“Neanche a me, ma una volta trovata sua sorella lascerà Gotham e potremo buttarci tutto questo alle spalle.”
 
“Ma sarà sempre l'uomo che mi ha costretto a farci uscire allo scoperto,” sottolineò, indurendo lo sguardo.
 
“Già… ma guardiamo il lato positivo. Dopo che le acque si saranno calmate, potremo essere meno circospetti quando usciremo insieme,” buttò lì, al che Oswald sembrò rilassarsi.
 
“Forse hai ragione,” gli concesse, e iniziò finalmente a mangiare.
 
 
Jim e Harvey avevano un altro caso di cui occuparsi, perciò riuscirono a rimettersi sulle tracce di Alice Tetch solo nel pomeriggio. La trovarono, e questa volta la ragazza si dimostrò disponibile a parlare, anche perché Jim le garantì che non le avrebbero fatto del male.
 
Lei raccontò di essere cresciuta sola col fratello, di ciò che aveva subito a causa sua, motivo per cui era scappata non appena aveva potuto e non voleva tornare da lui.
 
Raccontò loro anche di come il suo sangue avesse la capacità di trasformare le persone facendo emergere il loro lato peggiore, che tenevano nascosto. Una storia assurda, ma erano a Gotham, dove niente era troppo strano da essere impossibile.
 
“La faccenda si fa sempre più incasinata,” commentò Harvey, mentre entravano nella sua auto.
 
Alice Tetch si sedette sul sedile posteriore, perché le avevano promesso di portarla in un posto sicuro. Ma prima dovevano parlare con suo fratello, e Harvey sapeva dov'era.
 
Dei colleghi lo avevano scortato fino a un appartamento che usavano per i testimoni da proteggere, e avevano pensato bene di non informare Jim, che era troppo coinvolto. Harvey però non ebbe problemi a dargli l'indirizzo.
 
“Chiama una volante che venga a prelevarlo. Io intanto salgo, mi assicuro che sia dentro e lo ammanetto,” disse Jim, lasciando Alice nelle mani sicure del suo migliore amico.
 
Salì in fretta le scale per il secondo piano, dove si trovava l'appartamento, e quando bussò Jervis Tetch sembrò sorpreso di vederlo.
 
“Detective. Hai trovato mia sorella?”
 
“Sì, ma non vuole venire con te. Mi ha detto di tutte le cose che le hai fatto,” puntualizzò, rivolgendogli un'occhiata carica di disgusto.
 
Tetch sorrise e tentò con calma di giustificarsi, ma nessuna giustificazione sarebbe mai stata abbastanza.
 
Jim prese le manette.
 
“Niente che potrai dire mi farà cambiare idea. Adesso voltati e metti le mani dietro la schiena.”
 
“Immagino che allora dovrò chiedere aiuto a qualcun altro,” disse Tetch, e subito aprì il suo orologio.
 
Jim sentì il ticchettio e poi Tetch riprese a parlare. Da lì, tutto diventò buio.
 
 
“Jim!”
 
Qualcuno lo stava scuotendo e stava urlando il suo nome.
 
Quando il detective tornò lucido, vide che si trattava di Harvey. Per qualche motivo lui era sdraiato sulla schiena e il suo amico era chinato sopra di lui, a rivolgergli uno sguardo preoccupato, e aveva il fiatone.
 
“Cos'è successo?” gli chiese.
 
L'ultima cosa che ricordava era di aver parlato con Jervis Tetch, con l'intenzione di arrestarlo.
 
“Dov'è Tetch?”
 
“È scappato!”
 
“Aspetta, spiegami cos'è successo,” insistette, perché non capiva come fosse stato possibile.
 
Aveva un black out.
 
“Ero giù al telefono quando ti ho visto salire sulla ringhiera del balcone. Sono scattato verso le scale, ma Alice è stata più veloce di me. Sembra che Tetch ti avesse convinto con l'ipnosi a buttarti!”
 
Jim, che intanto si era alzato, corrugò la fronte. Quella storia era assurda!
 
“Alice l'ha fermato, ma lui è scappato portandola con sé. Non sono riuscito a impedirglielo.”
 
“Cazzo!” esclamò Jim.
 
Gli sembrava di aver rovinato tutto, anche se non era stato cosciente delle proprie azioni. Quel Tetch doveva essere molto più che un semplice ipnotizzatore, e considerando che anche sua sorella aveva una qualità sovrannaturale, ovvero quella specie di malattia del sangue di cui gli aveva parlato, la sua ipotesi aveva stranamente senso.
 
 
Passarono il resto della giornata lavorativa a tentare di rintracciare Jervis Tetch, dopo aver avvisato la centrale, ma fu tutto inutile.
 
Jim tornò a casa nervoso e frustrato. Avrebbe voluto continuare le ricerche per conto suo ma, dopo aver visto lo stato in cui era, Barnes gli aveva ordinato di non strafare e di tornare lì l'indomani. Aveva altri agenti fuori, a cercare i fratelli Tetch.
 
Ti va di parlarmi della tua giornata?” gli chiese Oswald, quando lo raggiunse dopo essere stato da suo padre.
 
Eppure Jim sentiva di avere troppo per la testa per riuscire a tradurlo a parole. Inoltre il fatto che Tetch avesse tentato di spingerlo al suicidio era qualcosa che non voleva fargli sapere, per non farlo arrabbiare di più e perché non si preoccupasse inutilmente.
 
Tanto il pericolo era passato.
 
“Tetch è sparito,” disse alla fine, perché di quello sapeva di potersi lamentare. “Ci ha fregati, ha rapito sua sorella ed è scappato.”
 
“Vuoi il mio aiuto per trovarlo?” gli offrì Oswald. “Sai che i miei uomini ci metterebbero molto meno dei tuoi colleghi. E poi potremo decidere cosa farne di lui…”
 
Lo aveva suggerito con una calma che di solito non era tipica di lui, non parlando di gente che voleva uccidere, quantomeno.
 
“No, voglio procedere per le vie della legge,” dichiarò, arrendendosi alla sua impotenza, almeno per quella sera. “E poi non voglio più avere a che fare con omicidi a sangue freddo. Con Galavan è stata la prima e ultima volta.”
 
Oswald lo scrutò con attenzione, poi gli offrì un sorriso tirato.
 
“Pensavo che non ti sentissi in colpa.”
 
“No, infatti. Ho creduto di agire in nome della giustizia… ma poi ho dovuto affrontarne le conseguenze. Mi sono sentito uno di quegli agenti corrotti che tanto odiavo,” ammise.
 
Oswald annuì.
 
“Posso immaginarlo. So come sei fatto Jim, e ho capito di non dover forzare la mano sulla questione Tetch. Il pensiero che lo stiate cercando per arrestarlo mi fa già sentire meglio.”
 
Jim schiuse le labbra, sorpreso.
 
“Davvero non sei arrabbiato? O frustrato, perché non puoi intervenire?” indagò.
 
Il sorriso di Oswald si fece più ampio, ma non per questo più genuino.
 
“Lo sono, ma ho capito di non poterci fare niente, anche se questa situazione non mi piace. Inoltre ero arrabbiato per le possibili ripercussioni, ma oltre a qualche domanda indiscreta, e ai tentativi dei giornalisti di strapparmi delle dichiarazioni sulla nostra storia, non ce ne sono state,” raccontò. “A parte, ovviamente, il pugno che hai ricevuto, che è ciò che mi fa arrabbiare di più. È successo altro che non so?”
 
Jim scosse la testa. Era quasi successo di peggio, con Tetch quel pomeriggio, ma aveva già deciso che non glielo avrebbe detto.
 
“Bene. Anche perché ho alzato la paga dei poliziotti corrotti.”
 
Jim corrugò la fronte.
 
“Questa cosa che paghi i miei colleghi non mi va a genio.”
 
“Lo so, ma non è che gli stia chiedendo di fare qualcosa di illegale. Diciamo che sarebbero disposti a chiudere un occhio su qualche caso, se glielo chiedessi. E soprattutto dovrebbero lasciare in pace te.”
 
Jim stirò le labbra in una linea sottile. Se davvero le cose stavano così, allora lo avrebbe accettato... per il momento.
 
 
L'indomani la giornata venne dedicata alla ricerca di Jervis Tetch. La speranza era che non fosse già scappato chissà dove con la sorella, nascondendo per sempre le sue tracce.
 
Se Jim pensava al fatto che era stato lui a trovarla, e che lei si era consegnata per salvargli la vita, ribolliva di rabbia.
 
Era ormai pomeriggio quando le indagini di Jim e Harvey li condussero in un cinema abbandonato. Entrarono con circospezione, e quando sentirono una voce in lontananza capirono che era il posto giusto.
 
“Harvey, chiama i rinforzi,” lo esortò Jim.
 
Lui non volle aspettare e avanzò per studiare la situazione, volendo assicurarsi che Alice fosse viva e che Jervis non stesse parlando da solo.
 
E così li vide seduti a un tavolo, quasi stessero ricreando una scena di Alice nel paese delle meraviglie… Solo che la protagonista era legata e aveva l'aria di voler essere da tutt’altra parte.
 
Vide Tetch avvicinarsi alla sorella tenendo in mano una siringa e decise che doveva intervenire subito, quindi impugnò la pistola.
 
“Jervis Tetch, gettala e metti le mani in alto!” gli ordinò, ma era lontano e arrivava dal basso, mentre loro si trovavano in una posizione sopraelevata.
 
Malgrado la pistola puntata addosso, l'ipnotizzatore scattò verso la sorella e la liberò per usarla come scudo.
 
Accadde tutto molto in fretta.
 
Alice si dimenò perché la liberasse e indietreggiando cadde di sotto, finendo impalata su una trave sporgente. Le uniche urla che si sentirono furono quelle di Jervis, che subito diede la colpa a Jim e tirò fuori il suo orologio.
 
Il ticchettio da solo bastò a incantare la mente del detective e a riportarlo alla sera prima, alle parole misteriose che Tetch gli aveva rivolto, a strane voci nella sua testa che gli dicevano che stava percorrendo una strada che lo avrebbe portato lontano dalla legalità, che la pressione che sentiva addosso era troppa, e che poteva stare meglio solo facendola finita.
 
Sentì a malapena la voce di Harvey, da qualche parte sul fondo della sua mente. Poi il criminale approfittò del caos per fuggire e il suo amico lo raggiunse in tempo, risvegliandolo da quella trance che, stavolta, era stata meno soverchiante.
 
Jim non poteva credere che fosse successo ancora. Venir condizionato da Tetch gli aveva lasciato una strana sensazione dentro, una specie di vuoto che sapeva di sconforto. Inoltre sapere che la persona che dovevano proteggere era morta era la peggiore delle notizie.
 
I rinforzi non arrivarono in tempo per inseguire Tetch, quindi si trovarono punto e a capo con la caccia all'uomo, solo senza più un ostaggio da salvare.
 
“Attenti al sangue, trasmette una qualche sorta di malattia infettiva quindi non va assolutamente toccato,” sottolineò Harvey, quando i colleghi arrivarono con Barnes al seguito.
 
Diversi minuti dopo, Jim si trovava seduto davanti a Lee nel suo ufficio. Erano soli, e il silenzio del piano inferiore sembrava permettere al suo sconforto di risuonare e ingigantirsi, facendolo sentire un fallito. Jim teneva lo sguardo basso mentre non faceva altro che ripensare a tutti i suoi errori.
 
“Jim, puoi parlarne con me,” disse Lee, in un secondo tentativo di farlo aprire.
 
“Sei la mia ex, non la mia terapista,” puntualizzò, alzando per un istante lo sguardo su di lei.
 
“Sono anche tua amica,” ribatté. “Ne sono successe tante in questi ultimi giorni e parlare ti farà bene. Harvey... mi ha detto che hai tentato il suicidio.”
 
“Mi ha costretto Tetch con l’ipnosi!” sbottò, perché non si trattava certo di un dettaglio irrilevante.
 
“Lo so, ma deve essere stato comunque traumatico. Senti Jim, è stato Barnes a chiedermi di parlarti e non lascerai il mio ufficio finché non sarò io a dirti che puoi farlo,” insistette, e lui sospirò.
 
“E va bene!” si arrese, ma tenne lo sguardo basso per non incontrare il suo. “Non lo definirei traumatico, ma adesso mi sento come svuotato. Ieri sera sarei morto, se non fosse stato per Alice e Harvey… E poco fa Tetch non ha dovuto dire niente, gli è bastato tirare fuori quel suo orologio per condannarmi.”
 
“E questo come ti fa sentire?”
 
“Distrutto. Ma non è solo questo, è tutto quanto. Alice Tetch è morta, lui è scappato e io stavo per morire. Oswald…” disse, ma si fermò appena in tempo prima di parlare troppo, e guardò in faccia Lee. “Quello che dico verrà riferito a Barnes, o posso parlare liberamente?”
 
“Non gli riferirò neanche una parola, solo le mie impressioni su di te. Se non vuoi vedermi come una dottoressa, pensami semplicemente come un’amica o una confidente. Resterà tutto tra noi, te lo prometto.”
 
Jim annuì. Fece intrecciare le dita delle proprie mani e le guardò, quasi fossero la cosa più interessante del mondo.
 
“Oswald vorrebbe farlo uccidere, per vendicarsi di ciò che lo ha costretto a fare. Sono riuscito a farlo desistere, ma se sentisse ciò che ha fatto a me…”
 
“Ma tu devi dirglielo, Jim!” sottolineò, con enfasi. “Se ti succede altro, come reagirà lui che non ne sapeva niente?”
 
Il detective strinse i denti.
 
“Non posso, Lee.”
 
“Vuoi sul serio affrontare questo periodo da solo?” gli chiese, corrugando la fronte.
 
“Affrontare cosa? È finita. Certo, Tetch è ancora là fuori, ma dubito che Barnes lascerà a me il caso,” disse e sospirò, un po’ per la frustrazione e un po’ per la stanchezza.
 
Non capiva come si sentisse a riguardo, ma non poteva vederlo come qualcosa di positivo. Era una faccenda ancora aperta che sarebbe stata affidata ad altri, mentre lui ne restava all’oscuro. No, non gli piaceva affatto.
 
 
I giorni successivi scoprì che le cose non stavano esattamente come credeva. Niente era finito, perché Tetch si ostinava a incolpare lui della morte di Alice. Ad attestarlo erano i messaggi che gli faceva recapitare al lavoro, lettere con scritto soltanto il suo nome, e scritto con il sangue.
 
Tetch aveva rapito e ucciso qualcun altro. Era ancora a Gotham e stava tormentando Jim in quel modo.
 
Come se non bastasse, un giorno era uscito a piedi dalla centrale e il ticchettio di un semaforo gli aveva spento il cervello.
 
Ancora una volta si era salvato grazie ad Harvey, uscito per andare con lui, che lo aveva tirato via dal centro della strada prima che un camion potesse investirlo.
 
Era grave. L'ipnosi di Tetch era ancora attiva e metteva sul serio a rischio la vita di Jim, in qualsiasi momento.
 
Quando poi l'ennesimo messaggio minatorio gli promise che avrebbe sofferto come stava soffrendo lui, allora capì che doveva dire tutto a Oswald prima che fosse troppo tardi.
 
Il buon momento fu la sera stessa, a casa di Jim. Erano stati entrambi a cena dai Van Dahl prima, e in loro compagnia il detective aveva quasi potuto dimenticare tutti i pensieri che lo opprimevano in quel periodo.
 
Era pazzesco, per lui, il modo in cui vivesse quella famiglia, come se fossero fuori dal mondo.
 
Non gli chiesero mai come stessero da quando la loro relazione era diventata pubblica, né come procedesse il caso Tetch, perché probabilmente non sapevano nulla a riguardo.
 
Ma adesso, nuovamente solo con Oswald, le cose erano diverse.
 
Jim aveva preparato una tisana per entrambi e il suo ragazzo lo aveva guardato con sospetto quando gliel'aveva proposta. Adesso, seduti l’uno accanto all'altro all'angolo del tavolo del soggiorno, con una tazza di tisana per uno, non c'era più modo di temporeggiare.
 
“In realtà non ti ho detto tutto su ciò che sta accadendo in questi giorni,” dichiarò, e vide Oswald corrugare la fronte. “Ma se ho agito così era solo per non farti preoccupare. E perché avevo… sottovalutato la situazione.”
 
“Cosa stai cercando di dirmi, James?” gli chiese Oswald, prendendogli la mano destra con la sua.
 
“Riguarda Tetch,” disse, e vide la sua espressione indurirsi. “Da quando sua sorella è morta, ha iniziato a incolparmi. Mi fa avere dei messaggi minatori scritti col sangue delle ragazze che uccide. Oggi… nel messaggio che ho ricevuto, c'era la promessa che avrei sofferto come lui.”
 
Oswald non commentò, ma Jim vide dal suo sguardo che aveva capito.
 
“Potrebbe tentare di farti del male. Non ci riuscirebbe, visto che sei sempre accompagnato da qualcuno che ti protegge, ma la sola eventualità mi terrorizza,” ammise il detective, stringendogli la mano.
 
“Che ci provi,” ribatté Oswald, sembrando pronto alla guerra. “Se tenta di avvicinarsi a me, è la fine per lui. Non ho dimenticato quello che ci ha fatto.”
 
“C'è dell'altro,” ammise Jim e, abbassando lo sguardo sulle loro mani, sospirò. “In questi giorni Harvey mi ha salvato la vita tre volte.”
 
Oswald sgranò gli occhi e boccheggiò.
 
“Mi stai dicendo… che saresti morto sul serio, se non fosse stato per Bullock?” chiese, tra l'incredulo e lo spaventato.
 
Jim annuì e Oswald serrò la mascella mentre il suo sguardo si faceva severo.
 
“Parliamo ancora di Tetch? Cosa ha fatto?”
 
Il detective deglutì avvertendo il nodo che gli si era formato alla gola, le parole improvvisamente difficili da trovare.
 
“Mi ha ipnotizzato per costringermi a… togliermi la vita.”
 
Oswald inspirò rumorosamente, la presa sulla sua mano per un attimo svanì ma poi si fece più forte. Portò l'altra mano al petto, i suoi occhi si erano fatti lucidi e la sua espressione disperata.
 
“Voleva che ti uccidessi…?” ripeté, con un filo di voce. “E non siete ancora riusciti a prenderlo?” aggiunse, in una nota più alta.
 
Jim scosse la testa, impossibilitato a dargli una rassicurazione a riguardo.
 
Vederlo così lo faceva sentire male. Qualcosa nel suo petto si stava stringendo e contorcendo dolorosamente.
 
“Tetch ha usato il suo orologio, ed è come se non avesse mai interrotto l'ipnosi. Così ogni volta che sento un ticchettio…”
 
“No, non dirlo!” gli chiese, e si sporse in avanti per farsi più vicino a lui.
 
Gli accarezzò il viso con una mano come per confermare che fossi lì e che stesse bene, mentre il suo sguardo rimaneva fisso nei suoi occhi.
 
Jim riconobbe l'istante in cui il suo dolore si trasformò in ira.
 
Oswald smise di toccarlo e scattò in piedi, la mano destra stretta sul bastone e la mascella contratta, lo sguardo non più puntato su di lui.
 
“Io non permetterò che ti faccia del male,” dichiarò, la voce resa un sussurro rabbioso.
 
“Non fare niente di avventato, ce l'ha anche con te!” sottolineò Jim, temendo il peggio, e si alzò in piedi a sua volta per avvicinarsi a lui.
 
“James, per quanta voglia io abbia di ucciderlo,” iniziò, pronunciando con enfasi e rabbia quella parola, “ci sono altri modi per fermarlo, e questa cosa deve finire stanotte.”
 
“Cosa hai in mente?” gli chiese, preoccupato.
 
“Oh, lo vedrai…” dichiarò, con una punta di sadico divertimento nella voce, poi tornò a rivolgergli lo sguardo. “Fidati di me. Puoi farlo?”
 
Jim lo osservò con attenzione, come a cercare di leggere le sue intenzioni nello sguardo intenso che gli stava rivolgendo. Poi annuì.
 
Sapeva che non sarebbe stato saggio ucciderlo né farlo sparire, perciò confidava che non lo avrebbe fatto. E se il suo intervento poteva davvero chiudere definitivamente la questione, allora decise che ce n’era bisogno.
 
Oswald stirò le labbra in un sorriso, ma aveva ancora gli occhi lucidi e l'aria disperata. La rabbia di prima invece sembrava essere stata messa da parte, per il momento.
 
“Faccio una telefonata, ma torno subito,” dichiarò, e si avviò verso la porta lasciando Jim da solo, a chiedersi cosa stesse architettando.
 
Nell'attesa tornò seduto e bevve un sorso della sua tisana, ormai diventata tiepida.
 
 
—------
 
Il cielo era grigio e il terreno erboso del cimitero veniva bagnato da una pioggia leggera. Gabe, alle sue spalle, teneva l'ombrello per lui, che disperato si trovava costretto ad assistere dalla prima fila a una scena che ancora rifiutava di credere reale.
 
Eppure piangeva, incapace di trattenersi davanti a quello spettacolo straziante. Piangeva mentre il prete recitava una preghiera, mentre i suoi colleghi in uniforme gli davano l'ultimo saluto, mentre la bara veniva calata.
 
Oswald si sentiva così male che avrebbe voluto essere seppellito con lui, per rimanere per sempre con il suo James e per non dover più provare tutto quel dolore.
 
Era colpa sua, se era successo, perché aveva dichiarato di voler uccidere Tetch e così lui si era rivolto alla GCPD. Così si era rivolto a Jim, condannandolo.
 
No. Non era colpa sua.
 
Era colpa di Tetch, ancora in libertà dopo ciò che aveva fatto.
 
E Oswald si sarebbe vendicato, oh sì che l'avrebbe fatto, ma non ci avrebbe provato nessun gusto. Perché ormai era ferito, devastato, spento. Ormai niente più aveva senso, senza Jim, e lui sapeva che così non sarebbe sopravvissuto per molto. Ma in effetti, di questo non gli importava. Niente gli importava più.
 
Oswald si svegliò di soprassalto, il viso bagnato di lacrime e il petto straziato da un dolore tanto reale da scuoterlo nel profondo. La vista di Jim che dormiva accanto a lui gli fece tirare un lungo sospirò di sollievo e versare qualche altra lacrima.
 
Era stato un incubo, soltanto un incubo.
 
Eppure il dolore nel suo petto non era sparito del tutto. Era come se il suo cuore fosse stato spaccato a metà, e adesso dolesse ancora per la divisione.
 
Non voleva che succedesse. Lo avrebbe impedito con tutte le sue forze.
 
Gli si avvicinò di più per sentire il calore del suo corpo e sincerarsi che fosse davvero lì, che fosse reale. E malgrado la sua vicinanza, non riuscì a scrollarsi di dosso l'inquietudine.
 
Jim era diventato troppo importante per lui, così tanto che non poteva immaginare di tornare alla vita di prima, e gli era impossibile pensare di ritrovarsi improvvisamente senza di lui.
 
Jim era la sua forza, ma anche la sua debolezza, eppure di questo non gli importava perché ne valeva la pena. Però doveva riuscire a proteggerlo.
 
Erano insieme da troppo poco tempo, ed erano sempre troppo impegnati. Non si erano ancora goduti un'uscita “alla luce del sole”, né una vacanza insieme in un posto sperduto dove nessuno li conosceva. Non avevano ancora parlato di convivenza, anche se la vita che avevano ci si avvicinava molto… ma non era lo stesso.
 
Oswald desiderava che Jim sapesse che lui voleva averlo vicino sempre. E voleva che fosse così, ogni qualvolta gli fosse possibile.
 
Ormai non tornava quasi più alla vecchia villa di Don Falcone, se non per prendere un cambio d’abiti o per le riunioni. Per il resto, se non era a casa di suo padre era da Jim… ma convivere davvero era qualcosa che Oswald immaginava come diverso, migliore.
 
Non poteva permettere che un bastardo come Jervis Tetch gli portasse via quella prospettiva, strappandogli il suo futuro con l'uomo che amava.
 
La sola idea… gli toglieva il fiato. E quel dolore al petto non era ancora svanito del tutto.
 
Così Oswald si alzò piano per non svegliare il suo amato e, malgrado fosse molto presto, si cambiò velocemente e uscì.
 
 
—------
 
Quando Jim si svegliò scoprì che Oswald si era già alzato, infatti lo trovò in soggiorno.
 
“Sei uscito?” gli chiese, notando che indossava la giacca.
 
Il suo ragazzo annuì.
 
“Ho voluto prenderti questi,” disse, porgendogli una confezione di tappi per le orecchie. “Forse è un pensiero stupido, ma ho immaginato che fosse meglio prendere tutte le precauzioni possibili. Nel frattempo ho anche chiamato Victor.”
 
“Novità?”
 
Lo vedeva più rilassato del solito, ma forse era solo stanco.
 
“Come previsto, lo ha trovato. È successo all'incirca all'alba,” gli rivelò, e la notizia sorprese molto Jim.
 
“E lui è…?”
 
“Vivo?” finì la frase per lui. “Sì, non gli verrà torto un capello.”
 
Stranito da quella rivelazione, Jim decise di non indagare subito sulle sue intenzioni. Intanto già sapere che Tetch non era più in circolazione era un sollievo.
 
Aprì il frigorifero con l'intenzione di preparare la colazione per entrambi.
 
“Puoi prenderti il giorno libero?” gli chiese Oswald, in un tono che nascondeva a malapena una supplica.
 
Jim gli rivolse lo sguardo, incuriosito dalla sua richiesta.
 
“Lo chiedi perché mi vuoi lontano dai pericoli?” indagò.
 
Esatto. Se ogni ticchettio può innescare il condizionamento dell'ipnosi… oggi potresti restare qui. Oppure venire in municipio con me, stare dove io possa vederti, ma qui sarebbe decisamente meglio,” gli suggerì.
 
Capiva perché si preoccupava. Anche lo stesso Jim non era sereno, per quanto cercasse di mostrarsi come al solito. Però non poteva. Non sarebbe rimasto a casa, con i tappi nelle orecchie, a fingere che andasse tutto bene.
 
Tetch era in mano loro quindi andava decisamente meglio, ma gli altri agenti non lo sapevano e lui non si sarebbe preso un giorno libero come se niente fosse.
 
“No, preferisco andare al lavoro. Cercherò di stare più attento del solito e resterò sempre vicino ad Harvey,” dichiarò.
 
Oswald gli rivolse uno sguardo preoccupato appena prima di avvicinarsi a lui.
 
“Jim, non insisterò su questo, se davvero non vuoi… ma non posso perderti,” disse, con un filo di voce. “Almeno… chiamami ogni tanto, per farmi sapere che stai bene. Anche un messaggio può andare, basta che ti fai sentire,” gli chiese, rivolgendogli un sorriso nervoso.
 
“Lo farò,” gli assicurò Jim, avvicinandosi per dargli un bacio.
 
Vederlo così… lo faceva sentire molto male. Era ancora peggio di sapere che sarebbe potuto morire da un momento all’altro.
 
Oswald lo strinse a sé con una stretta solida che lo portò a indugiare di più in quel bacio, a bearsi del suo calore e a desiderare di non farlo mai più soffrire in quel modo.
 
“Riguardo a Tetch… qual è il piano?” si decise a chiedergli.
 
“Victor lo sta rendendo docile,” rivelò Oswald, accarezzando i suoi capelli con un tocco leggero. “Lavaggio del cervello, come aveva fatto con Butch quando Don Maroni l'ha affidato a me. Vedrai, molto presto annullerà l'effetto dell'ipnosi e sarà ben contento di consegnarsi alla GCPD.”
 
“Dici sul serio?” gli chiese, sorpreso.
 
Un cambiamento del genere non riusciva nemmeno a immaginarlo.
 
“Sì, sono serissimo,” gli garantì.
 
 
Quel giorno fu Oswald ad accompagnarlo al lavoro, forse perché si sentiva meglio ora che aveva Tetch in pugno, o forse perché voleva assicurarsi che Jim entrasse alla centrale senza che gli succedesse niente.
 
“Ti vengo a prendere io stasera,” gli disse, prima di lasciarlo uscire dalla macchina. “E un'altra cosa, Jim. Ringrazia Bullock da parte mia… sai, per averti protetto. Non credo che voglia che io glielo dica di persona, ed entrare con te non mi sembra una buona idea in questo momento delicato.”
 
Dopo un istante di sorpresa, Jim annuì.
 
Si salutarono e il detective varcò la soglia della centrale, diretto alla sua postazione. Poco dopo arrivò anche Harvey e lui gli riferì il messaggio di Oswald.
 
Ovvio che ti ho protetto, sei il mio partner,” ribatté Harvey, stranito. “E comunque mi sarebbe piaciuto sentirmelo dire di persona, avrei voluto vedere che faccia avrebbe fatto,” scherzò.
 
“Una faccia triste, non è un buon momento,” puntualizzò Jim, ben consapevole del fatto che il suo amico non lo sopportasse. “Oggi era particolarmente… spento.”
 
“E ci credo, finalmente gli hai detto cosa ti ha fatto Tetch.”
 
Jim sospirò, quello strano sconforto ancora presente da qualche parte dentro di lui. Ricordava le voci che aveva sentito, che gli facevano pesare tutti i suoi sbagli e le difficoltà di quel periodo. Non avevano potere su di lui, ormai, non finché non sentiva un ticchettio almeno, ma sapere che da un momento all'altro sarebbe potuto succedere… era spiazzante.
 
“Oh, finalmente ne avete parlato,” intervenne Lee, che li aveva raggiunti nel mezzo del discorso. “Hai fatto la scelta giusta. Se Mario mi tenesse nascosta una cosa del genere, mi arrabbierei e starei molto male.”
 
“Non che Oswald stia bene, adesso che lo sa,” sottolineò, pur non essendosi pentito di averlo reso partecipe.
 
Che gli piacesse o no, le cose stavano così.
 
“Lo capisco, ma almeno lo sa.”
 
Lee aveva ragione, Jim la pensava allo stesso modo.
 
Un conto era sopravvivere quando un ipnotizzatore pazzo ti ordinava di ucciderti, un altro era scoprire che bastava un ticchettio qualsiasi a innescare la stessa reazione. Non era giusto tenergli nascosto di trovarsi in una situazione del genere.
 
Lee si trattenne a parlare un altro paio di minuti, poi tornò in laboratorio.
 
Harvey sospirò prima di rimettersi a sedere alla propria scrivania.
 
“Vuoi che vada a chiedere come procedono le indagini su Tetch?” gli chiese.
 
Jim era stato tagliato fuori da quando avevano capito in che condizioni si trovava. Era stato un ordine di Barnes e, per quanto lui avrebbe voluto dare un contributo all'indagine, non aveva potuto perché gli era stato assegnato subito un altro caso.
 
Non che adesso importasse più.
 
“Ce l'ha Victor,” disse piano, consapevole che solo Harvey avrebbe potuto sentirlo.
 
“Che cosa?” chiese il suo amico corrugando la fronte, chiaramente sorpreso dalla sua dichiarazione.
 
“Quando Oswald ha saputo quello che mi ha fatto, ha mandato Zsasz a cercarlo.”
 
Harvey rimase in silenzio per un paio di secondi, prima di riprendere parola.
 
“Sbaglio o ne avete parlato solo ieri sera? Com'è possibile che l'abbia già trovato, quando noi lo stiamo cercando da giorni?”
 
Jim fece un'alzata di spalle.
 
“La sua rete è migliore della nostra quando si tratta di certe cose, è chiaro. Comunque è suo prigioniero adesso, da qualche parte. Giura che quando avrà finito con lui verrà a costituirsi spontaneamente.”
 
“Tetch che si costituisce? Oh buon Dio, non oso immaginare cosa gli stiano facendo,” commentò, scuotendo la testa.
 
“Già.”
 
 
Quella sera, quando Oswald lo chiamò per avvisarlo che lo stava aspettando fuori, Jim sapeva che sarebbero andati a cena da Elijah. Ciò che non sapeva era che, prima di tornare a casa, avrebbero fatto un'altra tappa.
 
“Che ci facciamo in questa zona?” gli chiese, notando la strada buia e gli edifici abbandonati ai suoi lati.
 
“Penso che tu possa immaginarlo, Jim,” gli rispose, accennando un sorriso.
 
Oswald era anche teso, però.
 
Per Jim era chiaro, stavano andando dove era tenuto prigioniero Tetch, ma l’atteggiamento del suo ragazzo gli suggerì che non sapeva ancora come stessero le cose.
 
Parcheggiò e condusse Jim in uno degli edifici, poi nel suo piano interrato dove trovarono Victor Zsasz in compagnia di un Jervis Tetch legato a una sedia. Una situazione non del tutto nuova per il detective.
 
“Capo, Jim,” li salutò l’assassino, andando loro incontro.
 
“Come sta il nostro nuovo amico?” chiese Oswald, spostando lo sguardo sul fondo della stanza.
 
Jim fece lo stesso, notando che l’ipnotizzatore aveva il capo chino perciò era impossibile vederlo in volto.
 
Comunque, saperlo lì a poca distanza gli fece ribrezzo. Ma almeno era legato.
 
“Come nuovo. È pronto per qualsiasi cosa tu voglia fargli fare, anche se per scrupolo continuerei fino a domattina,” dichiarò Zsasz, con aria divertita.
 
“Ottimo. Sei il migliore Victor, non deludi mai,” disse, e lui gli rivolse un’espressione con cui voleva far intendere che lo sapeva già. “Facciamogli togliere subito l’effetto dell’ipnosi allora.”
 
Jim li seguì all’interno, anche se era ancora restio. Non aveva paura di Tetch, ma se avesse provato a fare del male a Oswald…
 
L’ipnotizzatore sollevò il capo e nel vederli sembrò spaventato.
 
“Signor Cobblepot! Detective Gordon! Chiedo perdono!” dichiarò, prima che potessero pronunciare anche solo una parola. “Sono grato di avere l’occasione di dirvi quanto sono pentito!
 
Jim lo osservò senza dire nulla, incredulo.
 
“Ho compreso tutto il male che ho fatto. Soprattutto a te, detective Gordon. Io sono stato la causa della morte di Alice… Solo io… E anche se sto così male che vorrei uccidermi per questo, vivrò portando dentro il mio dolore, perché glielo devo…”
 
“Molto bene,” disse Oswald e finalmente sorrise, ma non smise mai di tenerlo d'occhio. “Che ne dici di mettere fine al condizionamento in atto su Jim?”
 
“Certo, mi sembra il minimo! Anche se non vorrei più usare l’ipnosi su nessuno… ho causato fin troppo dolore. Ma almeno questo ve lo devo,” dichiarò, abbassando lo sguardo. “Mi servirà il mio orologio.”
 
“Eccolo,” disse Victor, ma non glielo porse né lo liberò, in attesa di un ordine preciso dal suo capo.
 
“Aspetta,” intervenne Jim, preoccupato, e rivolse lo sguardo a Oswald. “Hai dei tappi per le orecchie? Vorrei che li mettessi, per ogni evenienza.”
 
Il suo ragazzo gli rivolse uno sguardo sorpreso, ma poi sorrise.
 
“Sì, ne ho portati un paio con me,” lo rassicurò, e subito li prese dalla tasca della giacca.
 
Fece un cenno a Victor e anche lui prese dei tappi da una tasca dei pantaloni, per metterseli subito. Oswald fece lo stesso.
 
Tetch venne liberato solo da una mano, con la quale prese l’orologio. Il familiare ticchettio spense per un istante i pensieri di Jim, ma le parole che gli rivolse lo fecero tornare lucido. Improvvisamente l’effetto dell’ipnosi era davvero svanito.
 
Fu lo stesso Tetch a porgere l’orologio a Zsasz, perché lo riprendesse. A quel punto l’assassino glielo tolse di mano e poi si levò i tappi.
 
“Come ti senti, Jim?” gli chiese Oswald, togliendo i suoi.
 
“Non lo so di preciso, ma… è come se mi sentissi più leggero,” ammise, mentre ancora ci rifletteva.
 
Sentiva come se il peso che aveva avuto sul petto in quei giorni fosse sparito.
 
“Facciamo subito una prova,” dichiarò Victor, tornando vicino a loro con un diverso orologio in mano.
 
Il detective sentì il ticchettio delle lancette, ma non provò nulla di strano né ebbe una qualsiasi reazione. Scosse la testa, per poi rivolgere un sorriso sincero a Oswald. Sorriso che lui ricambiò, mentre la sua espressione preoccupata di faceva rilassata.
 
“Quando potrò costituirmi? Devo fare almeno questo!” si lamentò Tetch, attirando di nuovo la loro attenzione su di sé. “Vorrei togliermi il pensiero, così poi potrò scontare la mia pena.”
 
“Oh, molto presto,” gli rispose l’assassino. “Domattina, per la precisione.”
 
Dopo averlo detto, rivolse lo sguardo a Oswald.
 
“Giusto il tempo di assicurarmi che si dimentichi di questo incontro e di ciò che gli ho fatto,” precisò, e il sorriso che fece gli diede un’aria ancora più malata.
 
“Ottimo lavoro. Avrai una ricompensa per questo,” gli garantì Oswald, dandogli due colpetti su una spalla. “Jim, noi possiamo andare adesso.”
 
Il detective fu ben felice di seguirlo fuori dall’edificio, dentro il quale lasciò tutte le sue preoccupazioni.
 
Una volta salito in macchina, sentì un'urgenza alla quale sapeva di non poter più resistere. Quindi si sporse verso il sedile del guidatore e diede un bacio a Oswald, portando la mano destra sul lato del suo viso.
 
Finalmente era libero, finalmente non aveva più nulla di cui doversi preoccupare. Il suo pensiero era tornato quindi a Oswald, al dolore che aveva provato e al fatto che lo avesse appena salvato.
 
Insinuò la lingua tra le sue labbra e si beò dei gemiti che lo sentì trattenere, che gli fecero provare un'ondata di desiderio.
 
Avrebbe voluto continuare e prenderlo lì, nella sua auto dai vetri oscurati, parcheggiata in quella strada deserta, ma forse non era il caso. Forse Oswald non avrebbe voluto, o sarebbe stato scomodo.
 
“Ti voglio,” gli sussurrò comunque all'orecchio, prima di passarci la lingua e di portarla sul suo collo, dove si fermò a succhiare un lembo di pelle.
 
“Ah, Jim!” gemette. “Perché così all'improvviso?”
 
“Non è improvviso. Io ti voglio sempre, ma ultimamente ero distratto da molte preoccupazioni,” ammise, rivolgendogli uno sguardo che venne ricambiato con la stessa intensità.
 
Oswald si era aggrappato alla sua giacca durante il bacio, e sfruttò quella presa per tirarlo di nuovo contro di sé, in un bacio disperato che Jim ricambiò di buon grado.
 
“Reclina il sedile, James,” lo invitò Oswald, e il fatto che sembrava quasi un ordine gli fece provare un brivido di piacere.
 
Jim non se lo fece ripetere due volte. Si allontanò da lui, seppur controvoglia, e non appena ebbe abbassato del tutto lo schienale se lo ritrovò sopra di sé.
 
Oswald lo baciava spingendosi nella sua bocca, e Jim in quella posizione poteva solo subire - di buon grado - le sue attenzioni.
 
Trattenne un gemito quando Oswald si premette contro il suo inguine, facendogli sentire quanto lo volesse.
 
“Anche io ti desidero sempre, James,” rivelò smettendo di baciarlo per guardarlo negli occhi.
 
Poi il suo sguardo scese giù fino al cavallo dei suoi pantaloni. Oswald si inumidì le labbra mentre glieli slacciava.
 
“Amo tutto di te. Amo il tuo corpo, il modo in cui si muove contro il mio, dentro di me, sotto di me…” sussurrò.
 
“Da come lo dici sembra che ti interessi solo quello,” sottolineò Jim, per quanto iniziasse a sentirsi annebbiato dall'eccitazione.
 
“Sai che non è così, ma in questo momento non riesco a pensare ad altro,” ammise, e alzò su di lui uno sguardo vacuo. “Se penso che ho rischiato di perderti… mi sento morire. Non posso più vivere senza di te.”
 
Jim vide i suoi occhi farsi lucidi, forse non per l'eccitazione. Allungò le braccia per riportarlo contro il suo corpo, per stringerlo a sé.
 
“Io non vado da nessuna parte,” gli disse, con convinzione. “Prometto che non ti farò mai più soffrire così.”
 
“Non puoi prometterlo,” sottolineò Oswald, emettendo una risatina nervosa. “Non era colpa tua.”
 
“Lo so, ma ce la metterò tutta comunque.”
 
Oswald gli rivolse un sorriso compiaciuto.
 
“Se non manterrai la promessa, dovrò punirti,” scherzò, e si spinse contro il suo inguine.
 
La frizione generata bastò a far gemere entrambi.
 
L'urgenza che Jim avvertiva si fece più intensa, così allungò una mano per slacciare i pantaloni anche a lui.
 
“Facciamolo, non posso più aspettare. E poi a casa facciamolo di nuovo,” propose.
 
“Molto volentieri, James,” rispose Oswald, avvicinandosi di più per baciarlo ancora.
 
   
 
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