Attenzione: la storia che state per leggere è la parte finale di una serie che inizia con "Premure tra sospettati". Se non avete letto le parti che vengono prima di questa, non capirete tutto. Perciò vi lascio qui la pagina della serie e vi consiglio di leggere il resto e tornare su questa storia solo in seguito. Ma nel caso l'abbiate già fatto, buona lettura!
Conseguenze
Capitolo 1
Era iniziata una nuova era per Gotham.
Oswald Cobblepot aveva ufficialmente vinto le elezioni ed era diventato sindaco.
Suo padre non avrebbe potuto essere più fiero di lui. Alla prima cena a casa dei Van Dahl, infatti, non fece altro che complimentarsi e fargli domande su quali fossero le sue intenzioni adesso.
Era chiaro che non gli importasse tanto di Gotham, quanto piuttosto di suo figlio, che aveva conseguito un tale risultato. E Oswald, in effetti, non poteva essere più felice.
Dopo il giorno delle votazioni, in cui Jim lo aveva visto teso e persino spento, perché ormai non avrebbe potuto fare altro per conquistare nuovi elettori, adesso sembrava rinato. Era entusiasta e aveva una nuova luce negli occhi.
Jim era felice per lui e, a dirla tutta, era anche sollevato. Gli piaceva l’idea che si impegnasse in affari che potessero essere discussi alla luce del sole, anche se, lo sapeva, non avrebbe smesso di controllare la malavita della città.
La sera dopo la sua vittoria aveva organizzato una festa al suo club, invitando amici e personalità importanti della città. Era stata una serata piacevole, durante la quale Jim era rimasto poco, e in disparte quasi per tutto il tempo, per non dare troppo nell’occhio.
Inoltre in quell’occasione si era reso conto di quanta brutta gente frequentasse il suo ragazzo, anche se per l’evento si erano messi in tiro nel tentativo di mischiarsi alla gente comune.
Ma Jim aveva cercato di non pensarci, anche perché era impaziente di passare del tempo da solo con lui e quella notte venne accontentato.
Anche se la loro relazione non poteva essere portata sotto la luce del sole, perché avrebbe probabilmente causato scalpore, Jim era contento di poter stare al suo fianco come se fosse un semplice amico, un conoscente, qualcuno che gli voleva bene.
Non erano più un detective e un gangster, non solo almeno, non quando la città chiudeva un occhio e accettava il secondo come sindaco. Non quando il secondo convinceva, almeno la maggioranza degli elettori, di essere cambiato.
Ma per Jim lo era davvero. Per quanto continuasse a lavorare a stretto contatto con i criminali di Gotham, vederlo alle redini della città con un tale entusiasmo e un tale impegno, dimostrando quanto ci tenesse, era un segno di questo.
Peccato che adesso avesse meno tempo libero.
Un raro sabato mattina in cui entrambi non avevano niente da fare, erano rimasti a indugiare a letto, nell’appartamento di Jim. Sapendo che sarebbero stati liberi per metà della giornata, il detective lo aveva invitato a passare la notte da lui e così era stato.
Adesso riposavano l’uno accanto all’altro, Oswald che dava le spalle a Jim e lui che lo teneva tra le sue braccia.
“Vogliamo alzarci? Potremmo andare da qualche parte,” propose Oswald dopo un po’.
Era tardi probabilmente, il che era un altro buon motivo per alzarsi, ma Jim non avrebbe voluto. No, perché in quella camera potevano essere davvero loro stessi, restare l’uno avvinghiato all’altro senza che nessuno avesse da ridire sulla natura del loro rapporto.
“Restiamo a letto ancora un po’. Usciremo per pranzo,” ribatté, avvicinando di più il viso alla sua nuca.
Sentire il profumo del suo shampoo su di lui era qualcosa che lo faceva sempre impazzire. E così tracciò delle linee con la punta del naso sul suo collo, per poi iniziare a posarci dei baci. Portò la mano sinistra sul suo petto per tenerlo più vicino a sé.
Se dovevano fare qualcosa, allora si sarebbero potuti divertire un po’ lì, anziché uscire e stare tra la gente, dove non si sarebbero nemmeno potuti dare un bacio.
“Mmh, James…” gemette Oswald, inarcandosi contro di lui. “Ho un’intervista nel pomeriggio, non avremo molto tempo.”
Jim sospirò contro il suo collo. Allentò la stretta sul suo corpo, ma non appena lo fece Oswald si girò per guardarlo negli occhi. Lo afferrò per il colletto della maglietta leggera con cui dormiva e gli diede un bacio bisognoso, che andava in contrasto con ciò che aveva appena detto.
“Allora… dobbiamo fare in fretta,” suggerì Jim, non appena il suo ragazzo ebbe lasciato libere le sue labbra.
L’attimo dopo Oswald era sdraiato sotto di lui, con le mani sul petto di Jim ancora coperto dai vestiti, mentre il detective gli baciava l’incavo del collo in un modo che sapeva lo avrebbe fatto eccitare.
E quando Oswald si aggrappò all'estremità inferiore della sua maglietta con l’intenzione di sfilargliela, quando Jim insinuò la mano destra oltre l’elastico dei suoi pantaloni, fu allora che vennero distratti dal familiare suono del campanello.
Anche se si era fermato d’istinto, allontanando il viso di qualche centimetro, Jim decise che poteva fingere di non essere in casa. Tornò concentrato sul suo ragazzo, questa volta per dargli un bacio sulle labbra che subito bastò a fargli dimenticare il campanello.
Il suono però si fece udire di nuovo, e poi un’altra volta ancora, e Jim fu costretto a smettere di ignorarlo quando Oswald portò le mani sulle sue spalle per allontanarlo da sé.
“Vai pure a vedere chi è, Jim. Non avevamo molto tempo comunque.”
Davanti al suo viso accaldato, e sapendo il suo corpo pronto per lui, Jim non poté fare a meno di emettere un suono di protesta. Ma visto che era lui a chiederglielo, sarebbe andato alla porta.
Si alzò in piedi con la speranza di poter tornare a letto il prima possibile, quindi si passò una mano tra i capelli mentre attraversava il soggiorno, e il campanello suonò ancora. Almeno era vestito, pensò, mentre apriva la porta domandandosi chi fosse.
E la persona che si ritrovò davanti gli fece sgranare gli occhi.
“Barbara?”
La sua ex gli sorrise. Aveva l’aria mesta, ma era proprio lei: Barbara Kean, evidentemente uscita da Arkham per chissà quale motivo.
L’ultima volta che Jim l’aveva vista, aveva tentato di uccidere lui e Lee per gelosia. Come faceva a essere tornata in libertà e che ci faceva alla sua porta?
“Ciao Jim. Posso entrare?”
“Non mi sembra il caso… Che ci fa qui?” si costrinse a chiederle.
La donna gli rivolse un altro sorriso tirato, ma i suoi occhi erano tristi.
“Sono venuta a chiederti scusa e a dirti che sono pentita. Davvero non posso entrare? Mi tratterrò solo cinque minuti…”
“No, davvero,” insistette.
La camera da letto si trovava in fondo al corridoio, ma Jim non voleva rischiare che Oswald uscisse e che lei lo vedesse. Poi come avrebbe reagito? Considerando come si era comportata quella fatidica sera, con lui e Lee, immaginava che avrebbe dato di matto.
Inoltre Oswald sarebbe potuto arrivare da loro proprio perché l’aveva sentita, uno scenario che Jim voleva evitare per lo stesso motivo.
Rischiava troppo, soprattutto perché era certo che lei non fosse cambiata affatto.
“Ti ho ascoltata, adesso puoi andare,” le intimò, facendo per chiudere la porta.
“No, aspetta!” provò a fermarlo lei, e mise un piede oltre lo stipite per impedirgli di chiudere. “Io ti amo ancora, Jim. Sono davvero dispiaciuta per ciò che ho fatto, non ero in me, ma adesso sono sana, ho un certificato che lo attesta. E così mi chiedevo se tu…”
“Non tornerò con te, Barbara!” esclamò, corrugando la fronte.
Non poteva davvero pensare di tornare da lui dopo ciò che aveva fatto, come se niente fosse, e pretendere che l’amasse ancora. Jim l’aveva ampiamente dimenticata, ricordandola solo come qualcuno che aveva rivelato un lato oscuro di sé e aveva provato a ucciderlo.
“Quindi stai ancora con Lee… Dovevo immaginarlo…” dichiarò lei, spostando il piede mentre abbassava lo sguardo.
Jim sospirò.
“No, io e Lee abbiamo rotto molto tempo fa,” le rivelò, perché non voleva che la sua collega ci andasse di mezzo.
Barbara gli rivolse uno sguardo sorpreso, speranzoso persino.
“Oh… e allora…”
“No, Barbara. Se davvero sei guarita, anche se fatico a crederlo, sono contento per te. Però io sono andato avanti e ti auguro di riuscire a fare lo stesso. Addio,” le disse, e dopo aver visto lo sguardo deluso sul suo viso chiuse finalmente la porta.
Il detective sospirò di nuovo prima di raggiungere la camera da letto, dove trovò Oswald già vestito per metà, che controllava il suo aspetto allo specchio. Vederlo lo rincuorò, dopo il brutto incontro di prima, anche se saperlo vestito implicava che il loro divertimento a letto era finito.
Senza dire niente si portò alle sue spalle, lo circondò con le braccia e finì di chiudere la camicia per lui.
“Chi era alla porta?” gli chiese, guardandolo attraverso lo specchio.
“Barbara…” ammise Jim, e lo vide sgranare gli occhi un attimo prima di voltarsi verso di lui.
“È uscita da Arkham? Cosa voleva?”
“Tornare con me, apparentemente. Sono felice che non ti abbia visto, altrimenti avrebbe dato di matto,” rispose, accarezzandogli una ciocca di capelli ancora scompigliati.
Oswald gli rivolse un sorriso tirato, lo sguardo che non prometteva niente di buono.
“Oh, io avrei voluto vederla invece. Le avrei fatto passare per sempre la voglia di avvicinarsi a te,” dichiarò, con voce ferma.
“Non mi sembra il caso, credo che abbia recepito il messaggio,” rispose Jim, e il suo ragazzo annuì con aria pensierosa.
Un attimo dopo era tornato a dargli le spalle per recuperare dall’armadio il resto dei vestiti, tra cui un panciotto che gli aveva regalato Jim. Di base era nero, come il resto del completo che stava indossando, ma aveva dei dettagli in viola cangianti. Quando lo aveva visto, Jim aveva pensato che gli sarebbe stato benissimo ed era felice che lo avesse apprezzato.
“Vuoi andare da qualche parte?” gli chiese, per scoprire cosa avesse in mente nello specifico.
“Vorrei pranzare con te. Se usciamo adesso, potremo avere un po’ più di tempo… Mi piacerebbe scegliere un posto sperduto in cui poter mangiare tranquilli, e poi andare in municipio insieme, se non ti dispiace.”
Jim annuì. Gli sembrava un’ottima idea, perciò si sbrigò a scegliere dei vestiti con cui sarebbe stato presentabile.
Poco dopo, quando raggiunsero un ristorante non troppo frequentato fuori dal centro, scoprirono che la fama del nuovo sindaco era arrivata anche lì.
Il proprietario chiese a Oswald se potessero fare una foto insieme, da incorniciare e appendere a una parete, e poi qualcuno degli avventori si avvicinò per complimentarsi delle sue ultime apparizioni pubbliche o per fare richieste.
Lui fu molto cordiale con tutti quanti, ma Jim vedeva che era nervoso e forse addirittura pronto a scattare alla prossima interruzione.
“Ehi, va tutto bene,” gli disse con calma, attirando finalmente il suo sguardo su di sé.
“No, James, io speravo che saremmo stati tranquilli in un posto del genere,” puntualizzò, tenendo basso il tono di voce.
“Lo so, ma tu sei il sindaco e queste persone sembrano contente di averti qui,” gli fece notare. “Con tutto il bene che stai cercando di fare, è bello vedere che la risposta che ottieni dai cittadini è così positiva.”
E Jim era sincero quando lo diceva. Oswald, da quando era stato eletto, aveva visitato scuole, orfanotrofi, mense dei poveri e altre realtà simili puntando i riflettori su di esse e sulle loro difficoltà, e questa era solo una piccola parte di ciò che aveva già fatto, dimostrandosi degno della fiducia riposta in lui dagli elettori.
Oswald gli rivolse un sorriso tirato e Jim avrebbe tanto voluto allungare la mano per prendere la sua, da sopra il tavolo, ma se lo avesse fatto si sarebbero trovati con diversi occhi curiosi puntati addosso.
“So che è stressante in questo momento e che vorresti un po’ di tranquillità, anche io la vorrei, ma potremo rifarci dopo. Adesso pensiamo a pranzare e lasciamoci scivolare addosso tutto il resto,” propose, e Oswald dopo un sospiro sembrò provarci davvero.
Fecero appena in tempo a finire di mangiare che nel locale entrò il cugino del proprietario, accorso per conoscere anche lui il sindaco, e dopo aver scambiato due parole anche con lui pagarono e si congedarono in tutta fretta.
“Non voglio rimettere mai più piede in quel posto,” dichiarò Oswald, procedendo con passo veloce verso l’auto di Jim.
“Ti capisco, sono stati molto invadenti,” concordò il detective.
“La prossima volta prenoterò in un ristorante che possa garantirci un po’ di privacy, e dove conoscano il significato della parola discrezione.”
Poco dopo il sindaco venne di nuovo riempito di attenzioni, varcando la soglia del municipio. Qui lo attendeva già Gabe, e Jim seguì il suo ragazzo tenendosi a distanza di qualche passo, per non essere d’intralcio.
Una reporter del Gotham Gazette si era presentata più volte chiedendo insistentemente un’intervista al sindaco, e così si erano organizzati per concedergliela quel giorno.
Lei lo attendeva già nella sala preparata appositamente, insieme a un fotografo e, purtroppo per Jim, anche a Edward Nygma.
Il detective si chiese se fosse il caso di aspettare sulla porta, ma Oswald gli rivolse uno sguardo che sembrava un invito a seguirlo, perciò lo fece. Certo, nessuno dei due si aspettava che, una volta entrati, gli avrebbero subito fatto una foto insieme.
Jim si fermò per la sorpresa, e dopo un istante di smarrimento si accorse che anche il suo ragazzo aveva arrestato il passo. Considerando com’era andata la mattinata, temette che stesse per avere uno scoppio d’ira, invece lui lo stupì rivolgendo un sorriso tirato ai due ospiti.
“Preferirei che faceste delle foto ufficiali dopo l’intervista,” sottolineò, in un tono fintamente calmo, e prese posto davanti a loro.
Jim rimase a debita distanza, a dargli il suo sostegno silenzioso mentre cercava di non fare caso al fatto che Nygma, invece, fosse seduto accanto a lui.
Nei minuti che seguirono, Oswald rispose alle domande della reporter riguardo alle sue ultime iniziative e alle prossime che aveva in programma. Ogni tanto anche Edward prese la parola, per aggiungere qualche dettaglio.
La segretaria del sindaco, discretamente, portò loro dei caffè, non dimenticando di offrirne uno anche a Jim, che sentiva di averne proprio bisogno, e poi uscì dalla stanza portando con sé il vassoio vuoto.
Il detective fu, per un istante, tentato di seguirla, di prendere una boccata d’aria in corridoio e lasciare Oswald a gestire l’intervista, dato che lo faceva già egregiamente. Ma poté solo pensarlo, perché la giornalista rivolse la sua attenzione a lui, impedendoglielo.
“I nostri lettori si sono fatti delle domande sul suo rapporto con il detective Gordon, che è spesso insieme a lei. Ha qualche dichiarazione per loro?” chiese, tornando a guardare il sindaco.
Oswald sorrise e gli rivolse uno sguardo carico di affetto prima di rispondere.
“Io e James siamo buoni amici,” rispose brevemente.
“Detective, lei ha qualcosa da aggiungere? Sappiamo che era con il signor Cobblepot il giorno delle votazioni, ed è qui anche oggi, il che fa pensare che vi frequentiate anche nel tempo libero,” insistette la giornalista, e Jim si accorse di come il sorriso di Nygma si fosse ampliato nel vederlo sotto torchio.
“Siamo diventati molto amici nel corso degli ultimi mesi,” rispose lui, senza davvero darle altri dettagli.
“Quindi la sua presenza accanto al nostro sindaco non implica che la GCPD lo appoggia?”
“Io rappresento solo me stesso, soprattutto nel mio tempo libero. Se vuole sapere come si pone la GCPD dovrebbe parlare con il capitano, Nathaniel Barnes,” sottolineò.
Per fortuna quella tortura durò ancora per poco. Alla fine dell’intervista, la giornalista chiese loro di posare per una foto e Jim si rifiutò di partecipare, trovandolo inopportuno, perciò rimase a guardare. Poi finalmente se ne andarono.
Oswald tirò un sospiro di sollievo solo quando poté sedersi nel suo ufficio, con Jim. La porta alle spalle del detective era chiusa, anche se non a chiave, il che dava comunque loro modo di rilassarsi e di stare tranquilli per un po’.
“Oggi sembrerebbe che tutti siano troppo invadenti,” commentò Oswald, aprendo l’agenda per controllare quali impegni lo attendevano.
“Hai ragione ma è normale, sei il nuovo sindaco e tutti vogliono sentir parlare di te,” disse Jim, provando a considerare il quadro completo.
In realtà la cosa non gli faceva particolarmente piacere, anzi, ma non voleva peggiorare la situazione. Avrebbe sopportato, perché il suo ruolo garantiva loro la possibilità di frequentarsi in pubblico e questo era già molto importante.
Oswald gli rivolse un sorriso tirato.
“Per quanto ciò mi lusinghi, sono felice che domani sia domenica,” rispose, lasciando sottinteso il fatto che sarebbe stato libero. “Andiamo a fare colazione nel nostro posto segreto? Magari almeno lì potremo stare un po’ tranquilli.”
Jim annuì, convinto che valesse la pena di provare.
Nelle ultime settimane Oswald era stato troppo stanco per alzarsi presto la domenica e uscire a fare colazione con lui. Delle volte aveva persino passato la notte al night club, a occuparsi di affari che Jim conosceva solo marginalmente, perciò era felice che l’indomani avrebbero avuto del tempo per loro.
Comunque, fintanto che erano da soli, si chinò in avanti per accarezzargli il viso e dargli un bacio.
Tempo di posare le labbra sulle sue che la porta si aprì, e Jim si voltò allarmato ma vide che era solo Nygma, quindi lo fulminò con lo sguardo.
Lui si schiarì la gola ma evidentemente decise di fare finta di niente, mentre Oswald era leggermente arrossito e aveva abbassato lo sguardo. Non erano abituati a certe effusioni in pubblico, nemmeno quando erano tra amici. Se non erano da soli, non si baciavano mai.
Edward li raggiunse alla scrivania per mostrare a Oswald dei documenti e Jim capì che era il momento di togliere il disturbo.
“Io adesso andrei, vi lascio lavorare,” dichiarò mentre si alzava.
“Puoi restare se vuoi, James,” lo invitò Oswald, rivolgendogli un’espressione smarrita, al che lui scosse la testa.
“Mi devo vedere con Harvey più tardi e qui sarei solo d’intralcio.”
“È un casino, Harvey,” ammise, davanti a un boccale di birra.
Dato che Oswald gli aveva scritto di doversi occupare di altre cose prima di tornare a casa, l'uscita con Harvey si era prolungata diventando una cena e adesso i due si trovavano in uno squallido bar poco frequentato, a bere.
Era da un po’ che non succedeva, perché ultimamente Jim cercava di tornare a casa presto, se sapeva che avrebbe trovato Oswald ad aspettarlo. In caso contrario, spesso era troppo stanco per pensare di trattenersi in giro, soprattutto se l’obiettivo era quello di bere.
Gli erano mancate, però, le serate in compagnia del suo migliore amico, a parlare di lavoro ma anche di tutto il resto, senza filtri. Quel giorno poi credeva di averne particolarmente bisogno.
“Io pensavo che te la stessi passando alla grande, Jimbo,” gli disse Harvey, sollevando il proprio boccale.
Jim abbassò lo sguardo sul tavolo.
“In un certo senso è così, ma non abbiamo mai un attimo di pace. Lui ha praticamente due lavori, tre se contiamo la gestione del club, e se usciamo attiriamo molta attenzione. Non immaginavo che sarebbe stato così,” si sfogò, perché in quel periodo aveva cercato di tenersi tutto dentro.
“Quindi che vuoi fare, lasciarlo?” suggerì Harvey, rivolgendogli uno sguardo indagatore.
Jim sgranò gli occhi.
“Assolutamente no!”
“Lo sapevo, mi stavi illudendo e basta,” commentò, al che Jim sospirò.
“So che non lo approvi, ma io lo amo davvero,” ammise, per la prima volta con il suo amico. “Dobbiamo solo capire come gestire meglio il nostro tempo. Anche lui, questa mattina, sembrava sul punto di arrabbiarsi. Il ritorno di Barbara non è stato d’aiuto…”
“Barbara la tua ex? Cos’è questa storia?” chiese, e Jim gli raccontò tutto quanto. “Il fatto che lei sia tornata non promette niente di buono,” concordò il suo amico, prima di finire la sua birra.
La giornata di domenica fu davvero tutta per loro.
Jim si svegliò con Oswald che dormiva al suo fianco, e più tardi andarono insieme a fare colazione. Nel quartiere che avevano scovato tempo prima, e soprattutto nel locale che avevano scelto e che era sempre lo stesso, nessuno sembrava dare particolari attenzioni a loro due, il che fu rassicurante. Così presero qualcosa da mangiare e andarono al parco, cosa che ormai era diventata una tradizione.
“Ho deciso di affidare la gestione del Lounge a qualcun altro,” dichiarò Oswald, sorprendendo Jim.
Ormai avevano finito di mangiare ed erano rimasti seduti sulla panchina, a chiacchierare. Il detective stava giusto pensando a come intavolare il discorso dell’organizzazione del loro tempo insieme, ma era evidente che anche Oswald ci avesse pensato, altrimenti non sarebbe giunto a quella conclusione.
Sapeva quanto il night club significasse per lui. Un tempo era stato di Fish Mooney, ed era come se rappresentasse il potere sulla malavita della città.
“Rinuncerai al club?” gli chiese, perché non si capacitava di come avesse preso una decisione simile.
“No, in realtà, ma ho scelto una persona fidata che se ne occuperà per conto mio. Sai, quando Don Maroni mi ha lasciato il club… quando finalmente è diventato mio… ci ho portato mia madre, e non l’avevo mai vista tanto fiera di me.”
Jim gli strinse la mano e accennò un sorriso. L’espressione di Oswald si era fatta malinconica, lo sguardo basso sul prato poco distante, mentre rievocava quel ricordo.
“Adesso che sei sindaco, sarebbe ancora più fiera.”
“Lo credo anche io,” disse, rivolgendogli lo sguardo e sembrando più sereno. “Comunque, mi serve che un altro lo gestisca per me, adesso. In questo modo avremo più tempo per noi.”
Jim diede una leggera stretta alla sua mano, compiaciuto all’idea.
“Volevo giusto parlarti del fatto che mi piacerebbe riuscire a trascorrere più tempo di qualità con te. Spesso hai da fare in municipio, o io devo trattenermi al lavoro fino a tardi, e ci sono delle sere in cui sei in giro per lavoro. Sono grato di poterti frequentare sotto la luce del sole, come se fossimo almeno amici, ma ultimamente si è fatto un po’ opprimente…”
“E di questo sono profondamente dispiaciuto, James. Pensavo che la mia vittoria alle elezioni avrebbe migliorato la situazione, invece sembra che l’abbia solo peggiorata,” commentò con un sorriso tirato, abbassando lo sguardo.
“Non è così. Va meglio, invece, ma non posso trattarti come vorrei, se tutti ci guardano,” precisò.
“E com’è che vorresti trattarmi?” gli chiese Oswald, rivolgendogli uno sguardo intenso.
Non c’era nessuno nel parco, Jim aveva già controllato, perciò gli si avvicinò, lo afferrò per le spalle e lo baciò. Il contatto durò solo un attimo, dopodiché il detective fece intrecciare di nuovo le loro dita.
“Ecco, magari non così, ma vorrei almeno parlarti senza che qualcuno ci interrompa. Magari potremo riprendere a cenare da me.”
“Mi sembra un buon compromesso,” concordò Oswald, al che Jim si sentì più sollevato.
Trascorsero il resto della giornata a casa del detective, a cucinare insieme per il pranzo e poi a rilassarsi guardando un film.
Per cena invece li attendevano alla villa dei Van Dahl, perciò rividero il padre di Oswald.
La sua malattia non stava regredendo, sapevano che non era così che funzionava, ma adesso si vedeva davvero. Elijah non stava propriamente male in quel momento, ma non era più in forze come quando aveva ricominciato a prendere le medicine.
Questo aveva reso le attenzioni di Grace e Sasha più opprimenti, quasi volessero dimostrargli a tutti i costi che gli volevano bene e che c’erano sempre, per lui. Charles invece era più tranquillo, come se non comprendesse la gravità della situazione. In compenso, aveva preso a trattenersi con loro dopo cena, rendendo le chiacchierate in salotto dei momenti condivisi tra tutti gli uomini della famiglia.
E le attenzioni di Charles sembravano disinteressate, il che era strano considerando l’influenza che la madre aveva avuto su di lui un tempo. Il ragazzo, però, pareva essersene liberato, e ogni tanto faceva domande a Oswald per capire come fosse essere sindaco, e si interessava persino al lavoro di Jim.
Aveva messo la testa a posto e iniziato a pensare al futuro? Jim non lo sapeva, ma il signor Van Dahl sembrava felice del suo atteggiamento.
Jim e Oswald non si trattennero a lungo e trascorsero la notte a casa del detective. L’indomani si separarono per andare ognuno a fare il proprio lavoro. Non sapevano che si sarebbero rivisti poche ore dopo, e non per un motivo piacevole…
“Gordon, Bullock!” li chiamò Barnes dal suo ufficio, e dopo averlo fatto scese le scale verso di loro. “Avete un caso, e questa volta vengo con voi.”
Sorpreso dalla dichiarazione del suo capo, Jim scambiò uno sguardo confuso con Harvey. Probabilmente era successo qualcosa di grosso, se intendeva accompagnarli.
“Dove siamo diretti?” chiese Harvey, seguendolo fino alla porta.
“Iceberg Lounge,” rispose Barnes, rivolgendo un’occhiata severa a Jim.
Lui si sentì percorrere da un brivido. D'istinto temette che fosse successo qualcosa a Oswald, ma subito dovette ricredersi: non era al night club, perché Jim lo aveva accompagnato in municipio quella mattina.
In ogni caso, non si sentiva tranquillo.
“Guido io,” disse il suo partner, in un tono che voleva chiaramente calmarlo, e Jim annuì.
Barnes prese la sua macchina mentre loro salirono su quella di Harvey. Durante il viaggio, Jim rimase in silenzio ed esplorò con la mente tutti gli scenari peggiori.
Quando arrivarono trovarono la scientifica già sul posto. I colleghi fecero loro strada verso l'ufficio e Jim li seguì stringendo i denti. Quando però vide Oswald, insieme a Gabe, che se ne stava in disparte nel corridoio fuori dalla stanza, tirò un sospiro di sollievo.
Barnes fulminò il proprietario con lo sguardo e lo superò senza degnarlo di una parola.
“Cos'è successo qui?” chiese ai colleghi, seguito da Harvey.
Buttando lo sguardo all'interno, Jim si accorse che un uomo era stato ucciso mentre stava seduto alla scrivania. Un proiettile in fronte, pareva. Dopo averlo appurato rivolse lo sguardo a Oswald.
“Mi meraviglio che tu abbia chiamato noi. A proposito, che ci fai qui?” gli chiese, confuso, consapevole che solo lui avrebbe potuto sentire dato che i suoi colleghi erano entrati.
“In realtà i miei uomini hanno chiamato me, che ho deciso fosse meglio contattare voi. Ho preferito gestirla in modo pulito, per dimostrare che sono degno di fiducia.”
“Con un morto nel tuo ufficio?” sottolineò Jim, ed entrò facendogli segno di seguirlo.
Gabe rimase sulla porta.
Era certo che, se avesse voluto far sparire un cadavere, ci sarebbe riuscito e avrebbe evitato problemi anche in seguito. Eppure aveva scelto di non procedere in quel modo.
“So che può sembrare sospetto, ma io non ne so nulla. Lui era Thomas, l'uomo che avevo scelto come direttore del club,” rivelò e Jim annuì, prendendo nota mentalmente dell'informazione. “Avrebbe iniziato oggi, la sua morte per me è un grave danno.”
“Signor Cobblepot,” lo chiamò Barnes, mentre li raggiungeva. “Si stima che l'uomo sia morto intorno alle due del mattino. Qual è il suo alibi per ieri notte?”
Oswald gli rivolse un sorriso tirato. Evidentemente si era aspettato quella domanda, e non era affatto turbato dalla situazione.
“Ho passato la notte con la persona che frequento, anche se non so se vorrà confermarlo,” rispose con tranquillità, mettendosi a braccia conserte.
“Lo confermo,” disse subito Jim, consapevole che gli altri colleghi avrebbero potuto sentirlo, ma non era una certezza, dato che non erano così vicini a loro.
Quanto a Barnes, doveva aver già immaginato che avevano una storia, perché li aveva visti insieme una volta.
Il suo capo lo fulminò di nuovo con con un’occhiata.
“Jim, devo dedurre che è una cosa seria? Stai sfidando la mia pazienza,” tuonò, esaminandolo con lo sguardo.
“Se permette, capitano Barnes, dubito che possa giudicare le scelte personali dei suoi sottoposti,” gli fece notare pacatamente Oswald, con un sorriso soddisfatto, prima che Jim potesse decidere come rispondere.
Il suo capo rivolse un'occhiataccia anche a lui.
“Qualcun altro può confermare il vostro alibi?” chiese allora, chiaramente intenzionato a non mollare l'osso.
“No,” rispose Jim.
Era anche lui sotto accusa, improvvisamente?
“Posso chiedervi di gestire la cosa con discrezione? Non vorrei che scoppiasse uno scandalo,” provò a dire Oswald, e in effetti aveva ragione a preoccuparsi.
“Questo lo vedremo,” dichiarò Barnes, con un tono severo. “Jim, vai a prendere le deposizioni dei dipendenti.”
Non potendo sottrarsi all’ordine, lui scambiò un ultimo sguardo con Oswald che era fermo davanti al capitano e lasciò la sala.
Era ovvio il motivo per cui Barnes non lo volesse intorno, pur avendo affidato a lui il caso. Voleva parlare da solo con Oswald, indagare più a fondo, e magari sospettava persino di Jim. In ogni caso, erano stati insieme tutta la notte e lui non avrebbe chiamato la GCPD, se fosse stato coinvolto, perciò Jim cercò di non pensarci e interrogò gli altri.
Era passata almeno mezz’ora quando sentì dei passi provenire dalle scale e, sollevando lo sguardo dai suoi appunti, vide che era Oswald. Aveva l’aria stanca.
“Come stai?” gli chiese avvicinandosi, perché aveva appena finito di interrogare il personale. “Barnes ti ha dato del filo da torcere?
Oswald scosse la testa.
“Va tutto bene, James, non c’è niente di cui tu debba preoccuparti.”
Jim lo studiò con lo sguardo.
“Sei insolitamente calmo, considerata la situazione.”
Oswald accennò un sorriso.
“Dici così perché non c’eri quando ho visto il cadavere. Spero che i miei dipendenti siano stati collaborativi, altrimenti significherebbe che non mi sono arrabbiato abbastanza…” disse, e fulminò con lo sguardo un cameriere che stava pulendo il bancone, e che subito lasciò la sala in tutta fretta.
“Lo sono stati,” confermò Jim, avvicinandosi con l’intenzione di ridurre la distanza tra loro.
Portò la mano sinistra sulla spalla del suo ragazzo e ci diede una stretta gentile.
“Hai idea di chi possa essere stato?”
“Sì, ho i miei sospetti. C’era un altro dipendente del club, Moore, che voleva il posto, ma era Thomas quello di cui mi fidavo di più e so che non l’ha presa bene. L’ho già riferito al tuo capo.”
Jim annuì. La presa delicata della sua mano divenne una carezza che lui fece salire fino al suo collo e poi alla sua guancia destra. Oswald la tenne in posizione posandoci sopra una mano, lo sguardo ancorato al suo.
Il momento venne interrotto dall'arrivo di Barnes e Harvey, quindi Jim spostò la mano prima che potessero vedere qualcosa. Stava già camminando sul filo del rasoio con il capitano, non voleva peggiorare la situazione.
“Jim, una parola,” gli ordinò Barnes, e lui lo raggiunse.
Il suo capo gli rivolse una lunga occhiata sospettosa.
“Spero che tu non lo stia coprendo. Se viene fuori che non era con te, finirai nei guai.”
“Posso giurare che eravamo davvero insieme," insistette, sperando che questa volta bastasse.
“E non può essersene andato senza che te ne accorgessi?”
“No, questo è da escludere,” rispose e sospirò. “Le posso garantire, capitano, che è rimasto a casa mia tutta la notte. Lui non c’entra.”
Barnes annuì, anche se sembrava avere ancora i suoi sospetti.
Le indagini proseguirono per qualche giorno, e alla fine riuscirono a trovare e a mettere sotto torchio Moore. Il suo alibi per quella notte non reggeva, e aveva un movente, perciò stabilirono che il colpevole doveva essere lui... Anche se c’era ancora qualcosa che non convinceva del tutto Jim.
Quando poi trovarono, in casa del sospettato, l’arma del delitto, allora non fu difficile sbatterlo dentro. Il caso era ufficialmente chiuso.
In quei giorni, Oswald era stato molto impegnato. Era dovuto tornare al club a fare dei colloqui per decidere a chi affidare il ruolo, e per il resto del tempo aveva avuto i suoi impegni da sindaco, il che lo aveva reso molto stanco.
Ciò implicava che era stato Jim a portare le medicine a suo padre, e che avevano avuto meno tempo insieme, ma diverse volte Oswald lo aveva raggiunto tardi a casa sua, o si erano svegliati nello stesso letto, segno che era tornato da lui almeno per dormire. Jim era felice di avergli dato la chiave del suo appartamento, altrimenti non si sarebbero visti nemmeno così.
In ogni caso, con l’arresto di Moore il peggio era passato.
Quella sera, erano riusciti a trovare un posto tranquillo dove cenare senza essere disturbati. Il ristorante in questione aveva delle salette private per chi ne faceva richiesta, perciò era perfetto per la loro situazione.
“Brindiamo alla chiusura del caso,” propose Oswald, sollevando il suo bicchiere di vino.
“E all’assunzione del nuovo direttore,” aggiunse Jim, facendo lo stesso. “A proposito, chi è?”
Dopo aver bevuto un sorso di vino, Oswald stirò le labbra in un sorriso.
“Questo temo che non ti piacerà.”
“È qualcuno che conosco?” chiese Jim, domandandosi se fosse il caso di preoccuparsi.
“Sì, in realtà. Con la morte della mia prima scelta e le vostre indagini, c'è stata penuria di candidati. Almeno finché Barbara Kean non si è presentata alla mia porta.”
“Barbara?” ripeté Jim, incredulo. “L'hai assunta senza dirmi niente?”
“Eri molto impegnato con il caso, non volevo darti ulteriori preoccupazioni…” rispose, abbassando lo sguardo.
Jim sospirò. Le aveva adesso, le preoccupazioni.
“Quindi sarò costretto a vederla ogni volta che verrò a trovarti al club?” domandò, più a sé stesso che a Oswald.
“No, perché non sarò quasi mai al club. Non avevo tempo di dedicarmici, lo sai anche tu, perciò non avrai motivo di venire,” precisò Oswald, rivolgendogli uno sguardo incerto. “Sei arrabbiato?”
“No, è solo che non ci posso credere. Non mi piace sapere che ha a che fare con te, soprattutto perché è chiaro che non sia cambiata. Il fatto che abbia cercato lavoro al Lounge ne è la conferma,” disse e sospirò.
Se davvero era tornata sana, non avrebbe cercato un impiego al night club di Oswald, bensì da qualsiasi altra parte. Così era come se dichiarasse di voler avere a che fare con dei criminali. Qual era il suo gioco?
“Fammi un favore, non fidarti di lei,” gli chiese.
“Le ho affidato il Lounge, ma questo non significa che mi fidi di lei,” puntualizzò Oswald. “Sai, mi aveva persino proposto di cambiargli il nome... Si è già presa troppe libertà. Ho deciso di darle un'opportunità solo perché al momento non ho nessun altro candidato in mente.”
Jim annuì, ma per qualche motivo non riuscì a sentirsi sollevato.
“Visto che i giorni scorsi il club è rimasto chiuso per le indagini, lei ha pensato di riaprire in grande stile, questo sabato. La sua idea mi sembrava buona, quindi l'ho lasciata fare. So che ha fatto dei provini per fornire un intrattenimento più vario… Tu, immagino, non vorrai venire...”
Jim gli rivolse uno sguardo dispiaciuto perché in effetti no, non voleva minimamente avere a che fare con Barbara, ma era ovvio che Oswald volesse essere presente quella sera.
“Preferirei di no,” disse semplicemente, perché se avesse insistito sapeva che avrebbe ceduto.
“Allora immagino che non andrò nemmeno io, per passare la serata con te. Barbara mi dimostrerà di essere in grado di gestire il club da sola.”
Jim schiuse le labbra, sorpreso.
“Pensavo che avresti insistito per farmi cambiare idea, “ dichiarò.
Oswald fece un cenno della mano come a indicare che non ci fosse problema.
“La mia presenza non è davvero richiesta, sarei andato per tenere d'occhio la situazione. Inoltre capisco che tu non voglia rivedere la tua ex, soprattutto perché ti ha detto di voler tornare con te,” rispose e strinse la presa sul suo bicchiere. “Non mi piacerebbe vederla provare.”
Jim sapeva che era un eufemismo.
“Nemmeno vederla provare e fallire?” buttò lì, con l'intenzione di provocarlo.
“Nemmeno questo. Non mi importa nulla di ciò che vuole Barbara, io la voglio lontana da te,” dichiarò, e nello sguardo Jim gli lesse qualcosa che sembrava possesso e che gli fece provare un brivido piacevole. “Meglio prenderci la serata per noi, piuttosto.”
“Concordo,” rispose, accennando un sorriso.
“Ti ricordo che mi avevi promesso una cena a quattro,” disse Lee, sfoggiando un sorrisetto soddisfatto.
Era venerdì, Jim si trovava al lavoro e stava maledicendo mentalmente il momento in cui aveva acconsentito a quella sua proposta, con la leggerezza di chi in realtà voleva solo chiudere il discorso e andarsene. Adesso quelle parole gli si stavano ritorcendo contro.
“Quindi stai frequentando qualcuno?” le chiese, intuendolo nella sua affermazione.
In effetti nell'ultimo periodo l'aveva vista più felice, anche se avevano avuto ben poche occasioni per parlare.
“Sì, da un paio di mesi ormai. Si chiama Mario, è un medico ed è un uomo fantastico. Sono sicura che andrete d'accordo.”
Jim non ne era tanto sicuro, invece. Una cena a quattro, con la sua ex e il suo nuovo ragazzo, gli sembrava una prospettiva a dir poco imbarazzante.
“Temo di non avere molto tempo in questo periodo,” dichiarò, sperando che bastasse a dissuaderla.
“Ma dovrai pur cenare. Potremmo fare domani sera, così saremo liberi tutti e quattro,” propose.
“In realtà Oswald è molto impegnato,” tentò ancora.
Lee spostò lo sguardo da lui alla porta d'ingresso e poi di nuovo a Jim, sembrando sorpresa.
“È appena entrato qui,” disse, al che Jim si voltò.
Era vero, Oswald era entrato alla centrale. Quel giorno indossava un completo nero a righe, uno dei più sobri che aveva, ma che riusciva a farlo apparire comunque sofisticato. Ogni altra persona alla centrale sfigurava con lui presente.
Aveva l'aria tranquilla ed era stranamente solo, constatò Jim, mentre il suo ragazzo procedeva nella sua direzione.
“Oswald, che ci fai qui?” gli chiese, quando l'ebbe raggiunto alla sua scrivania.
Era felice di vederlo, perché non sembrava essere lì per un'occasione ufficiale, ed era decisamente curioso di scoprire il motivo della sua visita.
“Sono venuto a trovare il mio detective preferito,” rispose, al che Jim si sentì in leggero imbarazzo perché, a pochi passi da loro, c'erano anche Lee e Harvey.
In ogni caso non poté fare a meno di accennare un sorriso. Oswald, dal canto suo, non sembrava intimidito dal fatto che non fossero soli, forse perché gli altri due sapevano già della loro relazione.
“In realtà, dato che ho finito di lavorare ed è quasi l'ora in cui stacchi di solito, sono venuto a prenderti. Ma se hai ancora da fare posso aspettarti.”
“Ho gli ultimi documenti da compilare, ma non ci metterò molto. Vado a prenderti una sedia,” dichiarò, consapevole che a quell'ora ne avrebbe trovate diverse libere.
Quando tornò alla scrivania per posizionare la sedia per Oswald accanto alla sua, lo trovò che parlava con Lee. Si era dimenticato, per un momento, che la sua ex si trovava ancora lì, e forse lasciandoli soli aveva fatto un grosso errore.
“Stavo pensando a domani sera, se siete liberi entrambi,” disse lei, e Jim capì subito quale fosse l'argomento del discorso.
Rivolse lo sguardo a Oswald, sperando che cogliesse la sua intenzione di rifiutare. Si trattava, per di più, della sera della riapertura del Lounge, per cui aveva una buona scusa per farlo.
Oswald però non sembrò cogliere la sua volontà, perché accennò un sorriso a lui e poi tornò a guardare la sua collega.
“Perché no. Ti ringrazio per l'invito, Leslie.”
“Figurati. E chiamami Lee.”
Il suo ragazzo e la sua ex stavano iniziando ad andare d'accordo? Jim non sapeva come prenderla, sinceramente, ma sul momento rimase spiazzato.
“Ma è la sera della riapertura del tuo club. Sicuro che ti vada bene?” gli chiese Jim.
Aveva già immaginato di trascorrere la serata da solo con lui, magari di cenare fuori e poi rilassarsi a casa sua. La sua fantasia però era improvvisamente evaporata.
“Se controllerò il telefono ogni tanto, non ci saranno problemi,” dichiarò.
“Ottimo. Allora vi aspetto da me per le sette.”
“Perché hai accettato?” gli chiese Jim, quando salì in auto con lui.
“Ho pensato che fosse una bella idea. È la prima volta che ci invitano a una cena di coppia e francamente non credevo che sarebbe mai successo,” rispose, mentre metteva in moto.
“Allora avremmo potuto organizzarne una noi, invitando qualcun altro,” buttò lì Jim, senza pensare.
“E chi, il detective Bullock? Oppure Ed e quella… Isabel, mi pare, la bibliotecaria che ha conosciuto qualche giorno fa e che l'ha fatto uscire di testa?”
Jim indurì l'espressione a quella prospettiva.
Harvey non avrebbe mai accettato, nemmeno se pagato. Quanto a Edward… probabilmente l'avrebbe fatto, dopotutto gli era già successo di fare una cena a quattro con lui ed era il migliore amico di Oswald, ma la sola possibilità adesso lo disgustava.
Inoltre sapere che aveva una relazione non lo faceva sentire tranquillo. Quella poveretta che era finita tra le sue grinfie sarebbe potuta morire, e Jim era certo che avrebbe trascorso un'occasione del genere a tentare di farglielo capire, perché potesse salvarsi finché era in tempo.
“Ti si legge in faccia che non ti piacerebbe,” commentò Oswald con un sospiro, poi tornò a guardare la strada.
“Già, ma con la mia ex non mi sembra tanto meglio,” sottolineò.
“Almeno con lei vai d'accordo. Potrebbe essere una serata normale, come se fossimo persone normali con amici normali.”
Il modo diretto in cui lo aveva detto lo sorprese, ma comprese il suo punto.
“Leslie è stata così gentile da invitarci, e sembrava felice quando l'ha fatto. Io ammetto che non me l'aspettavo… Non credevo che qualcuno ci avrebbe mai invitati per un’occasione del genere, a parte Ed forse. Per di più chiedendolo direttamente a me. Non me la sono sentita di rifiutare,” precisò, con aria mesta.
“Adesso ho capito perché hai accettato. Se non avessi voluto che succedesse, avrei dovuto dirtelo prima… Penso solo che sarà una serata imbarazzante. Anzi, non credevo che volessi partecipare a una cosa simile, intendo con la mia ex,” ammise.
Una cena del genere, lui la immaginava piena di tensioni.
“Non sarà un problema per me, Jim. So che non la ami più e anche lei è andata avanti, sembrerebbe.”
Jim sospirò.
“Se lo dici tu.”
Il resto del viaggio lo fecero in silenzio, e quando arrivarono alla villa dei Van Dahl, dove erano attesi per cena, tra loro l’aria era densa di pensieri e parole non dette.
Oswald parcheggiò e si slacciò la cintura, ma non aprì la portiera.
“James… per caso ce l’hai con me?” gli chiese, senza rivolgergli lo sguardo. “Parliamone. Non voglio che ti tieni tutto dentro, né vorrei litigare dopo…”
“Nemmeno io voglio litigare,” concordò Jim, emettendo un altro sospiro.
“Si tratta di Leslie?” gli chiese, forse perché lui non aveva aggiunto altro. “Credevo che andaste d’accordo ormai. Non voglio costringerti a fare qualcosa che non ti piace. Non è così importante per me, puoi anche chiamarla e rifiutare con una scusa.”
“No, non è questo. Anche io, come hai detto tu, vorrei uscire come se fossimo una coppia normale, e questa potrebbe essere una buona occasione. Solo… non lo so, dubito che andrà bene.”
“Ti vergogni di me?” gli chiese Oswald, tornando a guardarlo, e Jim si accorse dai suoi occhi che era ferito.
“No! Ma come ti viene in mente? Io direi a tutti che stiamo insieme, se non fosse che poi potrebbero esserci delle conseguenze.”
“E allora qual’è il problema?” chiese in un tono di voce più alto, iniziando a perdere la pazienza.
“Non lo so nemmeno io! Ma dubito che sarà una cena tranquilla come quando siamo stati a casa di Bruce. E poi speravo che saremmo stati soli quella sera,” aggiunse.
Dopo averlo detto, si rese conto che era la stessa situazione di quella volta, ma al contrario.
Allora aveva fatto saltare i piani che aveva con Oswald per vedere i suoi amici, ma lui non si era arrabbiato e alla fine, pur immaginando che si sarebbe sentito a disagio, si era unito a loro. Era andato tutto bene quella volta.
Adesso era Oswald a voler cambiare i piani per andare a cena da Lee, e la cosa lo aveva fatto arrabbiare. Jim si accorse che si stava comportando in un modo irragionevole.
“Scusa, mi sto lamentando per nulla,” ammise, sporgendosi verso di lui per prendergli la mano. “Magari andrà bene e sarà solo la prima di tante volte in cui usciremo con loro.”
Oswald gli permise di prendergli la mano e non smise mai di guardarlo, come a voler sondare i suoi pensieri.
“Sicuro che vada tutto bene, adesso?” volle verificare, e il detective annuì.
L’indomani, pur essendo sabato, non riuscirono a passare tutta la giornata insieme. No, perché Oswald volle andare al Lounge a controllare quale fosse il programma per la serata, per valutare il lavoro fatto da Barbara fino a quel momento, ma soprattutto per stare tranquillo.
Jim infatti lo aveva visto inquieto per tutto il giorno, nervoso forse, perciò non si era opposto quando, nel tardo pomeriggio, aveva dichiarato che sarebbe andato un attimo al club.
Il detective approfittò del tempo da solo per prepararsi mentalmente alla serata che lo aspettava.
Avrebbe rivisto Lee, questa volta non sul lavoro ma per un incontro tra amici, il che avrebbe confermato che lo erano diventati davvero. Avrebbe conosciuto il suo nuovo ragazzo, con cui sperava non ci sarebbero stati attriti. Infine, con lui ci sarebbe stato Oswald.
In effetti, per quanto a Jim non piacessero gli appuntamenti a quattro, l’idea di fare una cosa del genere con lui non gli dispiaceva. Faceva parte dell’idea di normalità che stava provando a inseguire, quando possibile. Inoltre lui sarebbe stato un alleato, qualsiasi cosa fosse successa.
Jim sapeva che Oswald non era la persona più paziente del mondo, anzi. In passato aveva assistito ai suoi scatti d’ira, ma da quando stavano insieme lo aveva visto trattenerne molti. Quindi sì, su di lui sapeva di poter contare anche in quell’occasione.
Mentre era via, Jim iniziò a pensare a quali vestiti avrebbe indossato. Alla fine scelse uno dei suoi completi più semplici, ma meno logori, per avere un aspetto più che accettabile. Avrebbe messo anche il fermacravatta che gli aveva regalato Oswald.
Lui tornò poco dopo, più nervoso di prima. Jim lo capì subito, da come lo vide entrare dalla porta e attraversare il soggiorno, dalla presa salda sul suo bastone e, infine, dal suo viso contratto.
Anche se tentava di nasconderlo, era palese che qualcosa non andava.
“Cos’è successo?”
“Ho solo avuto le mie prime vere divergenze con la signorina Kean,” dichiarò, pronunciando con disprezzo il suo nome.
“Vuoi parlarmene?”
“C’è poco da dire in realtà. Pare abbia un rapporto molto stretto con Tabitha Galavan, quindi quando andrò al club sarò costretto a vedere la donna che ha ucciso mia madre.”
Jim corrugò la fronte, preoccupato.
Prima di tutto, cosa ci faceva Barbara con Tabitha? Anche se, in effetti, poteva immaginarlo. Più che altro a preoccuparlo erano le intenzioni di Oswald, perché sembrava molto arrabbiato.
“Intendi fagliela pagare?” gli chiese, mantenendo calmo il tono della voce.
Oswald era cambiato molto in quel periodo, ma adesso che aveva rivisto Tabitha… chissà come avrebbe reagito.
“No,” rispose subito, nella voce ancora la durezza con cui stava affrontando l’argomento. “Per quanto mi riguarda, ho già avuto la mia vendetta su suo fratello, che le aveva ordinato di farlo, ma non mi fa comunque piacere saperla nel mio locale, a credere di poter fare i suoi comodi.”
Jim allungò una mano per accarezzargli una guancia e Oswald non si ritrasse, anzi spostò lo sguardo su di lui e la sua espressione si ammorbidì.
“Puoi sempre licenziare Barbara e liberarti di entrambe in un colpo solo, figurativamente,” gli disse.
Oswald lo studiò con lo sguardo ancora per un istante, come sorpreso dalla sua proposta, poi stirò le labbra in un sorriso.
“Infatti credo proprio che farò così. Aspetto giusto qualche giorno, il tempo di trovare un sostituto.”
Jim annuì, sollevato ora che lo vedeva più calmo.
Non spostò la mano dal suo viso, anzi si avvicinò e lo costrinse ad arretrare fino alla parete della cucina. Quando Oswald si ritrovò con la schiena al muro, il detective gli diede un bacio carico di tutto il suo affetto, che lui ricambiò.
Si aggrappò ai suoi fianchi mentre gemeva nella sua bocca, provocando un brivido di eccitazione in Jim.
Quando il detective mise fine al bacio, si scambiarono uno sguardo intenso.
“Io mi farei una doccia prima di uscire… ti unisci a me?” lo invitò, e dopo un istante Oswald annuì.
Uscirono dall’appartamento in leggero anticipo, consapevoli che a quell’ora avrebbero trovato traffico e che la casa di Lee non era poi vicinissima.
Oswald si era calmato ed era tornato quello di sempre, cosa per cui Jim era grato. Ora erano entrambi pronti per affrontare la serata che li attendeva.
“Ragazzi, benvenuti,” li accolse Lee, aprendo la porta.
“Ciao Lee,” rispose Jim.
“Grazie per l’invito,” disse Oswald.
Lei si fece da parte per farli entrare, e per Jim fu molto strano ritrovarsi in quell’appartamento che conosceva bene. La casa era bella e accogliente, come un tempo, anche se qualche dettaglio era cambiato nell’arredamento. Il profumo che si respirava lì dentro però era sempre lo stesso, ovvero quello di Lee.
Rimettere piede in quel posto, dove un tempo aveva vissuto, gli provocò una spiacevole sensazione… Ma immaginava che sarebbe sparita nel corso della serata.
“Vi presento il mio ragazzo, Mario Calvi,” disse, mentre lui si avvicinava all’ingresso.
Era un uomo alto e di bell'aspetto che li accolse con un sorriso cordiale.
“È un piacere conoscervi. Lee mi ha parlato tanto di voi.”
“Spero solo cose belle,” rispose Jim, intercettando lo sguardo sorpreso di Oswald.
Cercò di non far trapelare il suo imbarazzo, dato dal fatto che, essendo il suo ex, immaginava cosa avesse potuto dirgli sul suo conto. Davvero, sperava solo cose belle, ma ne dubitava fortemente.
“Venite in soggiorno, la cena è quasi pronta,” annunciò lei, e loro la seguirono.
La tavola da pranzo era stata apparecchiata elegantemente ma allo stesso tempo in modo essenziale. Al centro c’erano delle candele, la cui luce creava un’atmosfera piacevole, e nell’aria si sentiva un profumo gustoso. Era una brava cuoca, questo Jim lo ricordava bene.
“Allora, come vi siete conosciuti?” chiese Jim accomodandosi accanto a Oswald, mentre Mario prendeva posto di fronte a lui.
“In ospedale. Lee è venuta per un controllo di routine e io, quando l’ho vista, ne sono rimasto folgorato,” raccontò, mentre lei portava in tavola il vino.
Sorrideva, sembrava davvero felice con lui e quasi imbarazzata sentendo quella storia.
“Voi, invece?” chiese Mario, dopo aver stappato il vino. “Quando Lee mi ha detto che il suo ex era anche un suo collega, ammetto di essermi preoccupato, ma poi mi ha detto che sta uscendo con il nostro sindaco e sono rimasto sorpreso.”
Oswald sorrise e spostò lo sguardo su Jim per un momento.
“Ci siamo conosciuti quando Jim è venuto nel posto dove lavoravo,” disse, senza entrare nei dettagli. “In quel periodo lui mi ha salvato la vita e da allora ho cercato di farmelo amico. Ho dovuto pazientare, ma alla fine ho avuto molto più di un’amicizia, quindi posso dire che ne sia valsa la pena.”
Jim sorrise, divertito dal modo in cui aveva scelto di raccontarla.
“Non ne avevo idea, Jim,” intervenne Lee, a cui in effetti lui non aveva mai riferito tutti i dettagli.
“Nel periodo in cui stavamo insieme avevo altro per la testa,” ammise il detective. “Inoltre non c’è stata l’occasione per parlarne, ci siamo frequentati per poco.”
“Eppure convivevate. Qui, se non ho capito male,” sottolineò Mario.
Jim temette di aver pestato una mina.
“Già,” rispose, semplicemente.
“Iniziare a vivere a casa della persona che frequenta,” disse Oswald, “è un comportamento…”
“...tipico di Jim,” si unì Lee, e finirono per dirlo in contemporanea.
Si sorrisero, divertiti dalla situazione, poi lei si alzò per preparare i piatti.
“Quindi adesso stai vivendo da Oswald, Jim?” chiese, dando loro le spalle.
“Oh, no…” rispose, rivolgendo subito uno sguardo smarrito al suo ragazzo.
Non si era aspettato quella deriva del discorso.
“In realtà io vivo nella villa che un tempo era di Carmine Falcone,” dichiarò Oswald, in un tono neutro.
Forse si era aspettato che lo sapessero già, come aveva pensato anche Jim. E sapendolo, era ovvio che lui non vivesse lì. No, perché quella villa era ancora il centro dell’attività della malavita di Gotham, simbolo di chi deteneva il potere e punto di incontro per le riunioni tra i capi delle bande.
L’espressione sul viso di Mario si indurì, ma non disse nulla. Lee intanto tornò a tavola con i piatti, che avevano un aspetto molto invitante, perciò iniziarono a mangiare.
Jim capiva perché Oswald continuasse a vivere lì, e chiudeva un occhio a riguardo. E poi, spesso si fermava da suo padre. Erano tante anche le volte in cui, invece, stavano insieme nel suo appartamento, quindi non era sempre alla villa. La prospettiva di vivere insieme davvero, però gli aveva già sfiorato la mente.
Sarebbe stato un passo importante, ma avrebbe semplificato le cose.
Era anche vero che loro c’erano andati piano, all’inizio, e vivere la relazione senza che diventasse subito una convivenza era stata un’esperienza nuova per Jim. Gli aveva fatto apprezzare ancora di più il tempo che riuscivano a ritagliarsi per stare insieme.
“Sei un’ottima cuoca, Leslie,” disse Oswald, dopo un po’.
“Ti ringrazio.”
“Anche Oswald è bravo in cucina,” intervenne Jim, e lui sembrò sorpreso di sentirsi rivolgere improvvisamente quel complimento.
Ma la verità era che il detective voleva vantarsi un po’. Non avrebbe mai potuto farlo con Harvey, e lì si era creata un’atmosfera perfetta per parlare liberamente.
“Davvero? Non pensavo che cucinassi,” commentò la sua ex.
“Se l’occasione lo richiede, perché no? Diciamo che me la cavo,” rispose, non riuscendo però a trattenere un sorriso.
“Sei troppo modesto. In realtà è davvero bravo,” sottolineò, spostando lo sguardo su Lee e Mario. “Sta provando anche a insegnarmi, ma tutto ciò che tocco si trasforma in un disastro immangiabile.”
“Non dire così, sei migliorato molto,” venne in suo aiuto Oswald.
“Jim che cucina?” chiese Lee, rivolgendo a entrambi uno sguardo incredulo. “Questa vorrei proprio vederla. Complimenti per averlo convinto.”
Oswald sorrise prima a lei e poi a Jim, e nessuno dei due disse che in realtà aveva provato di sua iniziativa, almeno la prima volta, e che poi cucinare insieme era diventata un’attività inaspettatamente piacevole.
“Mario, tu cucini?” gli chiese il detective.
“Oh, no. Temo che sarei un disastro anche io.”
“Invece dovresti prendere esempio da loro, potrei insegnarti. Potresti scoprire una passione,” lo spronò Lee, che sembrava entusiasta all’idea.
“Può darsi, ma già faccio orari assurdi al lavoro, quando torno a casa spesso sono troppo stanco.”
“Ti capisco,” concordò Jim, che sapeva benissimo cosa significava.
Certo, lui facendo il medico doveva avere dei turni ancora più lunghi e sfiancanti dei suoi, e anche in quanto agli orari non doveva essere messo bene. Ma era una vocazione, qualcosa di nobile, e Jim era contento per Lee che aveva trovato una persona del genere, con cui sembrava stare bene. Inoltre erano entrambi medici, il che significava che dovevano capirsi su tante cose.
Mentre parlavano del più e del meno, Jim notò che Oswald aveva preso il cellulare per leggere un messaggio. Si fece teso per un momento, ma poi lo mise via e fece finta di niente. Questo accadde un altro paio di volte, nel corso della serata.
Stavano mangiando il dolce quando Mario spostò il discorso su alcuni pazienti visitati di recente e quindi sul tema della droga per le strade di Gotham. Parlò direttamente con Oswald in quanto sindaco, ma era chiaro che nelle sue parole ci fossero delle altre implicazioni, che non stava esternando in modo diretto.
Anche Oswald doveva averlo capito, perché girò attorno al discorso, come se non fosse anche la persona che, indirettamente, gestiva quei traffici. In ogni caso, si era fatto nervoso.
“Cosa stai suggerendo?” gli chiese, a un certo punto.
Mario sembrò preso alla sprovvista dalla domanda, ma dopo un istante riprese parola.
“Di organizzare delle campagne di sensibilizzazione, per iniziare.”
“Nelle scuole?” chiese Oswald, corrugando leggermente la fronte. “Sì, questo è qualcosa a cui posso lavorare… Tu, nel caso, collaboreresti? Sarebbe meglio se fosse un medico a parlare direttamente con i ragazzi.”
“Sì, penso si possa fare…” rispose, con aria riflessiva.
“Anche a me piacerebbe dare un contributo. Tempo permettendo, è chiaro,” intervenne Lee.
In quel momento il cellulare di Oswald vibrò di nuovo. Lui lo prese, controllò il messaggio ed emise un sospiro.
“Qualcosa non va? Si tratta del club?” si decise a chiedergli Jim.
“In effetti sì… Ho chiesto a Victor di tenere d’occhio la situazione e ciò che mi ha comunicato finora non mi piace affatto,” ammise. “Scusate, temo che dovrò andare via prima per controllare cosa succede in mia assenza.”
“Vengo con te,” dichiarò Jim.
Un paio di minuti dopo si trovavano tutti alla porta, per il momento dei saluti.
“Grazie ancora per la cena, era tutto squisito,” disse a Lee. “Ed è stato un piacere conoscerti, Mario.”
Doveva ammetterlo, la serata era andata molto meglio di come aveva immaginato.
Anche Oswald ringraziò ma poi, quando uscirono, Mario lo fece con loro.
“Jim, permetti una parola?” gli chiese.
“Ti aspetto in macchina,” dichiarò Oswald, avviandosi da solo lungo il vialetto.
“Dimmi pure,” rispose Jim.
“Sei molto diverso rispetto a come mi aspettavo che fossi, ascoltando i racconti di Lee. Questa sera temevo che avremmo litigato.”
“Anche io,” ammise il detective, curioso di scoprire quale fosse il punto.
“Davvero non ho motivo di essere geloso?” gli chiese, e Jim sgranò gli occhi per la sorpresa.
“No, io non sono più interessato a Lee, ed è chiaro che lei tenga molto a te,” sottolineò.
Almeno questo aveva creduto che fosse ovvio per tutti.
“Bene…” disse Mario, porgendogli la mano.
Jim gliela strinse.
“Allora immagino che ci vedremo alla prossima occasione.”
“Già,” concordò Jim, rivolgendogli un sorriso di cortesia.
Trovò Oswald che lo aspettava seduto al posto del passeggero. Nel frattempo stava controllando ancora il cellulare, più nervoso di prima.
“Vuoi dirmi cos’è successo?” gli chiese con calma Jim, mentre partiva diretto al Lounge.
“Barbara si sta comportando come se fosse la proprietaria, partecipando allo spettacolo e offrendo da bere. Non avrei dovuto assumerla, cercavo un direttore che gestisse l’attività con discrezione, non… questo!” sottolineò, chiaramente infastidito.
“Cosa intendi fare?”
“Prima di tutto, voglio vedere come stanno le cose con i miei occhi. Victor è bravo nel suo lavoro, ma ha una visione tutta sua della realtà,” rispose, sempre senza guardarlo negli occhi.
“E poi?”
“Questo dipende da lei. Non le farò del male, se è ciò che temi, ma è necessario che qualcuno la faccia scendere dal piedistallo.”
Jim annuì.
Anche se avrebbe preferito evitare il club al fine di evitare Barbara stessa, il detective scese dall’auto insieme a Oswald ed entrò quasi senza pensare, un po’ per vedere cosa stesse accadendo all’interno, un po’ per scoprire come il suo ragazzo avrebbe gestito la situazione.
La scena che si trovarono davanti gli fece provare un brivido freddo.
Barbara era sul palco, armata, e stava minacciando una persona. A quella vista, il detective cercò la sua pistola con una mano, per poi rendersi conto che non l’aveva portata con sé. Sia quella sia il distintivo erano rimasti a casa, perché lui era uscito per questioni di piacere quella sera, non per lavoro.
“Okay, può bastare!” esclamò una voce femminile dal pubblico, che Jim identificò come quella di Tabitha Galavan.
L’uomo sul palco con Barbara le disse qualcosa e lei sembrò riscuotersi da una trance, infatti abbassò subito l’arma con aria confusa.
“Grazie, signore e signori!” disse lo sconosciuto, al che Jim comprese meglio la situazione.
Era un trucco di qualche tipo, faceva parte dello spettacolo. Rendersene conto gli fece emettere un sospiro di sollievo. Solo un attimo dopo si accorse che anche Oswald si era irrigidito a quella vista, e adesso sembrava arrabbiato.
I suoi occhi erano puntati su Barbara, che indossava un abito scintillante e sembrava la regina della serata. Quando lui si fece avanti verso il palco, Jim non poté fare a meno di seguirlo in silenzio.
Lei intanto scese i gradini lasciando spazio ad altre due persone, che l’intrattenitore ipnotizzò con l’aiuto di un orologio.
“Barbara!” la chiamò Oswald, ormai a pochi passi da lei.
“Oswald,” disse, chiaramente sorpresa di vederlo. “Non credevo che saresti venuto. Jim?”
Nel vederlo, il suo ampio sorriso si incrinò.
“Ho saputo che ti stai comportando come se fossi la nuova proprietaria.”
“E che male c’è? Dopotutto, d’ora in poi sarò io il nuovo volto del club,” dichiarò, tornando a rivolgergli tutta la sua attenzione.
Il suo sorriso e i suoi occhi sgranati avevano qualcosa che turbava Jim. Era come se lei non fosse cambiata affatto, dalla notte in cui aveva tentato di ucciderlo.
Oswald strinse i denti, chiaramente contrariato, e Jim fu certo che si stesse trattenendo.
“Stavi persino minacciando di morte una persona davanti a tutti!” sottolineò, facendo riferimento a quello che era successo poco prima.
“Ah sì? Ho i ricordi un po’ confusi, ma me l’ha fatto fare il signor Tetch, l’ipnotizzatore che ho assunto per movimentare la serata,” rispose con nonchalance.
Proprio in quel momento l’uomo mise fine al suo ultimo numero e il pubblico applaudì, apparentemente soddisfatto.
“Trovo che sia un tipo di intrattenimento che non si addice al mio club. Che resti o meno dopo stasera, questo lo vedremo,” commentò Oswald, e Jim comprese che era già intenzionato a licenziarlo, come minimo.
“Alla gente sta piacendo molto. Jim, tu ti fermi ancora un po’?” chiese, spostando la sua attenzione su di lui mentre allungava una mano per toccargli la spalla destra.
Colto alla sprovvista, il detective si lasciò toccare solo per un attimo e poi si scostò, intenzionato a non permetterle di prendersi alcuna libertà con lui.
“Signore e signori, vedo che ci ha raggiunti il signor sindaco!” esclamò Tetch, portando su di lui l’attenzione di tutti. “Signor Cobblepot, vuole farci l’onore di salire sul palco per un numero?”
Trovandosi improvvisamente sotto i riflettori, Oswald serrò la mascella per la frustrazione ma, un istante dopo, stirò le labbra in un sorriso per salvare le apparenze.
“Forza, Ozzy!” lo incitò Barbara, beccandosi un’occhiataccia in risposta.
“Con te non è finita qui,” le disse.
L’ipnotizzatore nel frattempo si era avvicinato al bordo del palco per provare a convincerlo.
“Purché non mi renda ridicolo,” acconsentì Oswald, in un tono che solo le persone più vicine avrebbero potuto udire.
Il signor Tetch annuì con un sorriso stampato sul viso.
Oswald lo raggiunse sul palco, sotto lo sguardo preoccupato di Jim che riusciva a capire quanto fosse nervoso in quel momento, un po’ a causa di Barbara, ma un po’ anche per via di quella situazione.
L’ipnotizzatore aprì il suo orologio e sussurrò una qualche formula a Oswald. Un attimo dopo, il suo atteggiamento cambiò. Adesso era calmo, anzi il suo sguardo non mostrava alcuna emozione.
Jim temeva davvero quello che gli avrebbe fatto fare. Forse sarebbe dovuto salire sul palco a fermarlo subito. Sapeva che, se Oswald si sarebbe sentito offeso dopo la performance, le conseguenze le avrebbe pagate l’ipnotizzatore. In ogni caso, in quel momento sembrava essere davvero in trance.
D’istinto, Jim scattò in avanti. Fu quello il momento in cui Barbara riuscì ad afferrarlo con entrambe le mani, per poi rivolgergli uno sguardo confuso.
“Siete spesso insieme ultimamente. Cos’è, alla fine siete diventati amici? E io che credevo che fossi venuto qui per me!” si lamentò, con tutta l’aria di essere ferita.
Ma lo era davvero o stava fingendo? Come quella volta, fuori dall’appartamento di Jim, quando aveva dichiarato di essere cambiata, per poi andare a cercare un lavoro proprio dal boss della malavita in persona. No, Barbara stava recitando, ne era certo.
Mentre lei parlava, e la mente di Jim arrivava a quella conclusione, quasi non udì le parole dell’ipnotizzatore, che fecero da sottofondo ai suoi pensieri diventando comprensibili solo un attimo più tardi.
“Il signor Cobblepot è sicuramente un uomo dalle molte facce. Di giorno, amato sindaco di Gotham, di notte proprietario di un night club. Rivelaci, Oswald, quello che pensi veramente. Quali sono i pensieri che stai nascondendo in questo momento, che tieni celati dentro di te...”
Quando Jim comprese cosa gli aveva chiesto, e vide lo sguardo dei suo ragazzo posarsi su Barbara, capì che era troppo tardi.
“Giù le mani dal mio uomo, Barbara! Jim è mio!” esclamò, esternando improvvisamente tutta la sua furia.
Lei, che gli dava le spalle, sgranò gli occhi e fulminò Jim con lo sguardo prima di voltarsi verso il suo capo.
“E ringrazia che non ti ho ancora licenziata, dopo il modo in cui ti sei comportata finora.”
“Molto bene, la situazione si fa interessante,” commentò il signor Tetch, scatenando delle risate leggere da parte del pubblico.
“Jim!” lo chiamò Oswald, incontrando il suo sguardo.
Gli occhi del detective erano sgranati per la sorpresa e una profonda sensazione di disagio aveva avuto la meglio su di lui, bloccandolo sul posto.
Oswald aveva appena detto a tutti che loro avevano una relazione. Lo aveva detto con Barbara presente. Ma soprattutto, se ne sarebbe pentito sicuramente.
“Sono stanco di trattenermi per paura di deluderti. Di pesare le parole, di dovermi guardare intorno perché nessuno si accorga di noi. Perché tutto deve essere così difficile?” corrugò la fronte e gli sembrò davvero ferito.
Jim avvertì una stretta al petto che gli diede la spinta necessaria per scrollarsi di dosso Barbara e salire sul palco.
“Ora basta, fallo smettere,” ordinò all'ipnotizzatore, mentre Oswald afferrava il suo polso sinistro da sopra la giacca.
“Jim, deduco. E va bene,” disse il signor Tetch, e un attimo dopo ebbe messo fine alla trance.
L'espressione sul viso di Oswald si fece subito confusa. Guardava in basso, verso il pubblico, ma poi si accorse che anche Jim era lì e di essersi aggrappato al suo polso.
“Ma… cosa…?” chiese, senza articolare davvero una domanda, ma fu abbastanza.
“Vieni con me,” gli disse Jim, e gli afferrò la mano per portarlo giù dal palco e lontano da tutta quella gente, nel suo ufficio.
Spazio di quella che scrive
E rieccoci! Questa è davvero la parte finale della serie (3 capitoli in totale, già scritti), e avendola appena riletta nella sua interezza mi sento di dire che è un finale di cui sono soddisfatta. Spero che sarà così anche per voi, quando/se arriverete alla fine.
Come avrete capito, ci sono problemi in vista... e il ritorno di Barbara, in particolare, innesca una pericolosa reazione a catena. Immagino che nella lettura vi saranno suonati dei "campanelli di allarme" pensando agli avvenimenti successivi della serie, anche se li ho reinterpretati, e io ADORO far suonare i campanelli di allarme con ciò che scrivo!
Nell'attesa che pubblichi gli altri due capitoli vi consiglio di dare un'occhiata al mio profilo e scoprire quali altre fanfiction ho scritto sulla coppia Jim x Oswald.
Altro arriverà anche in seguito (ho 3 storie già pronte, *coff coff*), ma sinceramente adesso sento che il rubinetto dell'ispirazione si è chiuso. Non è stretto bene quindi fuoriesce qualche goccia, ma con quelle gocce non riesco a riempire un bicchiere. Quindi per il futuro chissà!
Ma basta dilungarmi. Se avete letto fin qui, vi ringrazio. A presto!