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Autore: Tetide    22/09/2009    2 recensioni
Un mistero secolare e spaventoso si nasconde tra i monti della Transilvania; dipanarlo sarà compito di un gruppo di temerari giunti da lontano; ma, forse, più che l'oscuro nemico, i nostri dovrebbero temere di più i propri fantasmi personali... Si troveranno così a combattere su due fronti!
Genere: Dark, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
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TERRA DESOLATA TERRA DESOLATA


Il pulmino procedeva speditamente sui lunghi viali deserti della città nuova.
“Questi edifici li ha fatti costruire il regime: tutta questa zona, intendo. Nelle loro intenzioni, avrebbero dovuto essere monumentali; ma, come potete vedere, il risultato è stato assai diverso!” diceva il dottore.
Stavano attraversando quello che, nelle intenzioni del feroce dittatore, avrebbe dovuto essere il “quartiere di rappresentanza” del regime: viali larghissimi di cui non si intravedeva la fine, percorsi al centro da aiole semivuote e fontane grigie e dall’acqua ferma; ai lati, enormi casermoni tutti tristemente uniformi, che ad occhio e croce dovevano contenere migliaia di appartamenti ciascuno, e che avevano un aspetto moderno, anche se anonimo; ma, avvicinandovisi, si vedeva chiaramente che essi mostravano i segni del tempo e dell’incuria: intonaco scrostato, crepe nei muri, balconi in rovina.
I viali si incrociavano tutti tra di loro, fino a confluire in quello che sembrava il viale principale, in fondo al quale si apriva una enorme piazza, più deserta delle altre perché dominata da un unico, immenso edificio.
“Quello è l’ex palazzo presidenziale” fece Jean-Jacques, indicandolo, “per costruirlo, e per costruire tutto questo quartiere, Ceausescu ha fatto letteralmente buttar giù molte delle vecchie e fatiscenti case del centro storico, e sfrattare la gente, che però, poi, ha trovato un nuovo alloggio in questi palazzi; ma la cosa peggiore è che molte di quelle case distrutte avevano un giardino, dove stavano i cani; cani che, al contrario dei loro padroni, non hanno trovato posto nelle nuove abitazioni, e sono rimasti randagi per le vie della città vecchia: se ne vedete qualcuno, stateci lontano, molti di essi hanno l’idrofobia!”.
“Ah, ecco! Ora mi spiego!” esclamò Leòn “Ieri sera ero uscito per una breve passeggiata, ed ho visto molti di questi cani; un paio li ho anche accarezzati. Ma non riuscivo a spiegarmi il perché della loro presenza, liberi, per le vie della città. Ho creduto ci fosse lo sciopero degli accalappiacani!”.
Tutti risero, tranne Jean-Jacques.
“Non deve uscir da solo qui, signor Aschenbach. Nessuno di voi deve farlo. E’ pericoloso: oltre ai cani, ci sono diversi borseggiatori in giro!”.
Jeudi sentiva e non sentiva la conversazione; era occupata a tenere il suo sguardo, perso, al di là del finestrino. Tra gli enormi palazzi si intravedeva qualche vicolo, più simile ad una favela Brasiliana che ad una città dell’Europa dell’Est, dove ragazzini sporchi e malvestiti giocavano sguazzando nel fango insieme ai cani, o chiedevano l’elemosina agli angoli di strada.
Il suo pensiero corse alla cena della sera precedente.
La camera singola che le avevano assegnata (che sarebbe dovuta toccare ad Edith) era squallida e sporca; l’unica finestra dava in un cavedio interno stretto e buio, tappezzato di nidi di uccelli; le tende e le coperte odoravano di polvere, non venivano sbattute da chissà quanto tempo; il bagno aveva una squallida tendina di plastica a fiori blu che celava alla vista la vasca, vasca che non era poi così pulita… C’era perfino un piccolo frigorifero, sgangherato e vecchissimo, che nelle loro intenzioni avrebbe dovuto fungere da frigobar…
Jeudi si era piegata e l’aveva aperto, vedendone il contenuto: alcune bottiglie d’acqua ed un paio di alcolici; aveva sorriso, pensando a quella gente ingenua e volenterosa che cercava di dare il meglio a quegli stranieri venuti dal ricco Ovest.
La cena non era stata da meno: un enorme stanzone, addobbato in modo un po’ kitsch per conferirgli un’aria meno squallida, con festoni dorati e specchi alle pareti.
Per tutta la durata della cena, lei e Lundi si erano ignorati; lei era seduta vicino a Leonhard, da un lato, e Liesel dall’altro, mentre Lundi chiudeva la fila ed aveva Patrice alla sua sinistra.
Avevano mangiato come due estranei, senza guardarsi, se non per brevi istanti; poi, mentre gli altri chiacchieravano nel dopocena o prendevano da bere al bar, Lundi le si era avvicinato.
“Abbiamo intenzione di continuare ancora per molto, a fingere di essere due estranei?”,
“Stà a te, non a me; e poi, guarda che non stiamo fingendo: noi VIVIAMO da estranei da un po’ di tempo, te l’ho detto!”,
“Jeudi, io… mi dispiace! Mi dispiace di aver nominato Matilda, di averti ferito dicendo quelle cose orribili! Non le pensavo, non le pensavo affatto, credimi! E’ stata la mia ira a parlare per me!”.
Lei aveva soffiato fuori una nuvola di fumo ed era rimasta a guardarlo; poi aveva detto: “Cosa dovrei fare adesso, dimmi? Abbracciarti e dirti “Ti perdono amor mio!”? E’ questo che vorresti che io facessi? Mi spiace per te, Lundi, ma io non sono quel genere di persona!”,
“Ma Jeudi! Non ci amavamo, ricordi? Stavamo insieme! Dovevamo sposarci! Che ti sta succedendo, tutto ad un tratto?”.
Altra nuvola di fumo “Il tuo comportamento: mi sembra di avertene già parlato. Se vuoi continuare un rapporto, non puoi darlo per scontato!”,
“Se è solo questo… ti prometto che al nostro ritorno le cose cambieranno, in meglio. Mi spiace di averti deluso, Jeudi!”.
Le mani di lei stavano tremando “E di avere avuto una storia con lei, ti dispiace anche?”.
Lui l’aveva guardata, senza sapere cosa rispondere. Sapeva bene che la storia con Matilda era stata più di una semplice avventura, che era durata troppo tempo e l’aveva coinvolto troppo, al punto da spingere Jeudi a lasciarlo.
“A chiunque capita di sbagliare, Jeudi” fu tutto ciò che era riuscito a rispondere.
“Certamente! Un piccolo errore di solo quattro settimane può capitare a chiunque!”,
“Guarda che neppure tu sei perfetta! Ho visto come guardi quell’Aschenbach, sai? Sei l’ultima persona che può farmi delle lezioni in merito!”.
Jeudi aveva sussultato; era rimasta a fissarlo con aria sbigottita, la sigaretta ancora fumante in mano.”Sei sorpresa? Credevi che non me ne fossi accorto? Credevi che fossi cieco?”.
Questa volta era stata lei a non rispondere; aveva tirato un’altra boccata, poi, senza guardarlo, aveva spento la sigaretta e raggiunto Edith al bar.

Il gruppo stava ora passeggiando tra le strette e sporche vie che Jeudi aveva osservato dal pulmino.
“Dove stiamo andando, dottor Piquet, se è lecito?” chiedeva Tavernier,
“Da una persona esperta di certi argomenti. Abita da queste parti”.
Si aggiravano tra le poche casette antiche rimaste in piedi, infilando spesso i piedi in pozzanghere di fango.
Entrarono ad un tratto in quello che sembrava essere un antico cortile nobiliare; a paragone dell’intera zona, quello era veramente ben tenuto, un piccolo gioiello di tempi andati e lontani: si trattava di un grande edificio medievale, costruito nel più puro stile dell’Est, con lunghi ballatoi disposti su più piani da cui si accedeva a delle porticine in legno ben curate, il tutto intorno ad un grande cortile. In un angolo del cortile campeggiava un antico carro di fieno, all’angolo opposto si trovava un grande pozzo, ormai chiuso e coperto da vasi di fiori.(1)
“Come può essere che in mezzo a tanto squallore ci sia un posto come questo?” si stava chiedendo Edith, mentre si guardava attorno.
Seguendo Piquet, presero a salire per le scale in legno che conducevano ai ballatoi; Jeudi notò che era tutto ben curato ed abbellito da fiori di mille colori diversi.
Salirono tre piani all’incirca, poi il dottore si incamminò lungo il ballatoio e raggiunse una porticina, alla quale bussò.
Poco dopo, la porticina si aprì, ed una figura comparve dietro di essa. Si trattava di una vecchia curvata dagli anni, piccola di statura, con il viso completamente coperto da rughe profonde, ed un fazzoletto colorato in testa; indossava uno scialle, degli stessi colori del fazzoletto.
Jeudi, che chiudeva la fila, restò interdetta. “Quella mi sembra una fattucchiera” mormorò.
La ragazza vide materializzarsi accanto a sé la familiare luce azzurrognola; dentro di essa, stavolta, stava un uomo biondo di bell’aspetto.
“Papà!” sussurrò Jeudi, voltandosi “Perché ora?”,
“Per dirti che ti puoi fidare di lei! Vi aiuterà!”.
La ragazza sorrise “Grazie, papà!”.
Lo spirito sorrise, svanendo.

Il gruppo entrò nella stanza; il dottore fece cenno di sedersi sulle sedie che stavano sparpagliate, poi si sedette anche lui.
“Farò da interprete” disse. La vecchia prese a parlare.
Jean-Jacques traduceva.
“Voi tutti siete emissari del Bene, posso sentirlo: la vostra presenza riempie questa stanza di energia positiva; ma state andando incontro ad un nemico insidioso: gli esseri che dovrete combattere vivono nella notte, vivono per uccidere, vivono per sempre. Tenete ben salda la vostra Fede, e non vi separate mai, per nessuna ragione: per loro, sarebbe troppo facile attaccarvi, uno alla volta. Portate sempre con voi uno specchio: loro non possono specchiarsi, e questo vi aiuterà a riconoscerli; fatevi dare delle croci benedette, e tenetele sempre con voi: la Santa Croce è l’unica arma che loro temono veramente; non invitate mai degli estranei che conoscerete lungo il cammino a seguirvi: loro possono introdursi tra di voi, solo se invitati. Prendete queste!”.
Dicendo queste parole, la vecchietta aveva estratto da sotto allo scialle un piccolo fagotto, che porse a Piquet; questi lo porse a Patrice Tavernier, che lo aprì.
Tutti gli si fecero intorno per vedere di cosa si trattasse: dentro al fagotto stavano dieci proiettili fatti d’argento purissimo.
“Altra arma efficace, ma solo se prima benedetta” aggiunse Piquet.
La vecchia impartì loro il Segno della Croce, dicendo: “Ora andate!”.
Tutti iniziarono ad alzarsi per uscire;la vecchia mormorò qualcosa al dottore, e lui raggiunse Patrice ed Edith “Sarete felici, non temete!”, disse loro.
I due si guardarono, interrogativi “Scusi, ma chi è quella? Una specie di maga, o che?” fece lei,
“E’ una veggente. Ed ha combattuto molte volte, in passato, contro questo terribile nemico che ci apprestiamo a combattere. Conosce troppo il male, per non sapere vedere anche il bene: e da voi, lo ha visto immediatamente!”.
Anche adesso, Jeudi era rimasta in fondo alla fila; si stava affrettando a raggiungere i compagni, quando sentì una mano che la tratteneva per un braccio; si voltò, e vide la vecchia.
“Signora…” le disse; quella mormorò alcune parole, ma lei non la capì.
Chiamò allora Jean-Jacques, perché traducesse, e lui lo fece. “Non aver paura del tuo cuore” fu ciò che le disse.


Il mattino successivo, partirono per raggiungere Sibiu, la prima tappa del loro percorso.
Le campagne, nel pieno dell’autunno e lontano dalle autostrade, mostravano in pieno l’abbandono di quella terra: una terra desolata.
Intorno alle due, si fermarono a mangiare in una cittadina di nome Tirgoviste.
Mentre si trovavano al ristorante, il dottor Piquet fornì loro alcune interessanti delucidazioni.
“Questa città è la vera sede di Dracula”, disse a sorpresa.
“Che?!? Il Conte Dracula?!?” fecero quasi tutti, in coro. Lui sorrise.
“Professor Tavernier” si rivolse a Patrice “vuole essere così gentile da spiegare ai suoi colleghi perché lei non ha espresso stupore?”,
“Con vero piacere, dottore. Innanzitutto, il Conte Dracula non era un conte, ma un principe, Vlad Dracul, vissuto nel XV secolo”.
Tacque per un istante; vedendo che tutti i volti erano fissi, muti, sul suo, continuò.
“Dracula era, in realtà, un uomo dei suoi tempi che aveva due sole caratteristiche, una buona e l’altra cattiva, espresse alla massima potenza: il senso di giustizia e la crudeltà. Aveva, infatti, liberato queste terre dagli invasori Saraceni, che avevano seminato morte e distruzione e si erano macchiati di efferati massacri, ma al contempo aveva usata nei loro riguardi pari crudeltà: era infatti suo uso offrire agli amici un banchetto con annesso spettacolo; e questo spettacolo consisteva nella lenta tortura a morte dei nemici catturati”.
Detto questo, Tavernier iniziò a spiegare i raccapriccianti sistemi di tortura usati dal famigerato personaggio “Dicono che questo fu una conseguenza della sua prigionia presso i Saraceni, quand’era ancora ragazzo, prigionia durante la quale fu più volte violentato ed assistette alla morte, tramite squartamento, della ragazza di cui si era innamorato, una delle ancelle del sultano”.(2)
Tavernier interruppe il racconto e fissò l’uditorio; le facce erano abbastanza sconvolte e disgustate, per prima quella di Edith.
“Ed è… per questo che gli è stato attribuito il vampirismo?” fu proprio questa a parlare;
“Sì, esattamente. La fama della sua crudeltà oltrepassò i confini del suo principato, in parte aumentata anche dal risentimento degli sconfitti Saraceni; poi, nel XIX secolo, Bram Stoker scrisse il suo famoso romanzo(3), mischiando la fama sinistra di Vlad alle leggende sui non-morti che popolavano il Paese da tempi immemorabili, ed è così che è nato il famoso vampiro”.
“Grazie molte, professore. Era qui che si trovava il palazzo del vero Dracula; dopo, vi porterò a vedere le rovine”, concluse Jean-Jacques.
“Una domanda… allora i vampiri non esistono?” Johann aveva abbassato la voce fino quasi ad un sibilo,
“Non è esatto. I vampiri fanno parte della cultura di queste terre, praticamente da sempre. Solo che, alla luce dei recenti fatti, è molto difficile continuare a credere che si tratti soltanto di una leggenda”, gli rispose il dottore.
Al termine del pranzo, si recarono alle rovine del palazzo: non vi era rimasto granché, se si eccettua, un colonnato che un tempo doveva aver fatto parte di una galleria; il resto, erano solo muri franati e resti di fondamenta.
Al ritorno sul pulmino, Jeudi si sentì mancare; fu Leòn a sostenerla.
“Jeudi! Ma che hai?”,
“Nulla, nulla di importante. Non preoccuparti Leòn”, gli rispose tenendosi la fronte. Lui continuava a sorreggerla per la schiena.
“Vieni, ti accompagno”,
“Non… non è necessario”.
In realtà, Jeudi conosceva quel senso di malessere: lo conosceva fin troppo bene.
Poco avanti a lei, infatti, iniziò a materializzarsi la solita luce azzurrognola; dentro di essa, comparvero due anziani e distinti signori: erano i nonni di Jeudi.
“Attenta! Stai attenta Jeudi!” fece la donna, mentre l’uomo la osservava gravemente “Sei in pericolo, in grave pericolo! Quando sarete a Brasov, non rimanere da sola, mai!”.
Anche l’uomo le si avvicinò “Qualcuno dal passato vuol farti molto male: noi intercederemo per te, affinché il buon Dio ti assista!”.
Jeudi aveva fissato la visione, muta e con gli occhi sgranati; ora la vide scomparire.
Leonhard la stava osservando, un’espressione incuriosita sul viso; Jeudi si voltò verso di lui.
“Stai bene, Jeudi?”,
“Sì”,
“Molto bene; allora raggiungiamo gli altri”.

Quella sera, in albergo in una località a metà strada verso Sibiu, stavano facendo il punto della situazione.
“La leggenda del vampiro è molto antica” Patrice stava tenendo banco, come al solito “ed è originaria dell’antico Medio Oriente: dell’Assiria, per la precisione; da lì, si è poi trasmessa a tutto il mondo, trovando un terreno particolarmente favorevole nell’Europa dell’Est. In realtà, l’idea che i morti ritornino per completare ciò che hanno lasciato in sospeso quando erano in vita è insita in tutte le culture: ecco allora comparire l’essere mostruoso che, per poter tornare, seppur per breve tempo in vita, deve succhiare la vita ai viventi; ed ecco le innumerevoli pratiche, a dir la verità sacrileghe, per scongiurare questa “piaga”, tipo disseppellimento dei morti ed esecuzioni postume, con paletti piantati nel cuore. Alcuni cadaveri venivano anche decapitati e bruciati”.
Patrice tacque. Tutte le facce della comitiva erano sconcertate; nessuno osava proferire parola.
Jean-Jacques prese la parola “Ma queste, come avrete avuto modo di capire, sono solo fandonie, assurdità di gente un po’ troppo superstiziosa, condannate persino dalla Chiesa. Il vampiro moderno, in realtà, ha ben altre caratteristiche: è, di solito, un raffinato gentiluomo (o gentildonna, a seconda dei casi), conduce una vita agiata senza bisogno di lavorare, e quando caccia le sue vittime, lo fa per piacere, non per fame. Il suo è una sorta di gioco raffinato; le vittime sono di solito persone che egli ha prima attirato a sé od anche persone che gli sono legate da affetto. Il vampiro non conosce sentimenti: una volta attirata a sé la vittima, sia questa o meno affezionata a lui, la avvince sempre più fino a prenderne la linfa vitale”.
“Allora, tutto chiaro?” concluse Tavernier “Avete ascoltato le due versioni della storia, quella più antica (con relative conseguenze), intrisa di superstizione e quindi non credibile, e quella attuale, che invece trova d’accordo la maggior parte degli studiosi di occultismo di oggi. Ed è quest’ultima che noi dobbiamo seguire”.
“E adesso” riprese Piquet “passiamo alla nomenclatura: la parola vampiro deriva da wempti, abbinato al suffisso –pi, che in lingua Slava significa “stregone che beve”. Poi, ogni Paese ha le sue varianti linguistiche e tipologiche: qui in Romania, è conosciuto il vampyr, o dampyr, appunto, un non-morto che succhia sangue; in Polonia, abbiamo l’upir, una figura analoga, come pure il Croato vurkolak; in Grecia, invece, abbiamo il vrikolakas, una figura di vampiro del tutto particolare: non si limita a succhiare il sangue alla vittima, ma arriva anche a mangiarla”.
Tutti inorridirono.
“Infine, in Russia, abbiamo le figure dei risurgenti, che si legano a concetti della teosofia di difficile credibilità. Ma questa è un’altra storia, che non ci riguarda”.  
“Se permettete, signori” si intromise Leonhard “vorrei esprimere la visione della scienza in merito: i vampiri altro non erano che poveri infermi, afflitti da una rara malattia, la porfiria. Orbene, questa malattia causa dissoluzione dei globuli rossi, ed il risultato è un pallore mortale con occhi quasi vitrei; queste pelli temono il sole, dato che ne ricaverebbero estese scottature, e devono quindi rimanere nell’ombra; sarebbero inoltre allergiche ad un componente contenuto nell’aglio: da qui, ecco derivare tutte le storie sui vampiri. E’ naturale che in passato, in epoche cioè in cui la scienza aveva fatto pochi passi avanti e la superstizione, al contrario ne aveva fatti troppi, persone affette da questo male dovevano apparire come stregoni, perché “diverse”; venivano, allora, perseguitati dall’Inquisizione e dai tribunali ecclesiastici, e non di rado torturati: ecco perché i simboli religiosi incutevano tanto timore in questi individui”.
Tavernier annuì “Ottima spiegazione, professor Aschenbach. Ma gli individui che stiamo cercando noi non corrispondono a queste caratteristiche; ho dimenticato di dirlo, ma il vampiro moderno non teme la luce del sole: può andar in giro anche di giorno, anche se non con gli stessi poteri che ha durante la notte”;
Leonhard lo osservava di sbieco “Le porto un profondo rispetto, professore, a lei ed alle sue teorie; ma ciò non toglie che la scienza parli chiaro, ed in questo il dottor Wolfgang mi può venire in valido aiuto. Molte superstizioni, nel passato, nascevano da malattie all’epoca ancora sconosciute: è il caso della porfiria per il vampirismo e della sensibilità ai raggi lunari di alcune persone per la licantropia; ma queste credenze hanno causato veri e propri massacri: ed io non permetterò che un essere umano innocente venga ucciso solo per una stupida superstizione, per di più spiegabile scientificamente”.
Patrice sospirò “Noi non siamo qui per uccidere qualcuno, professore, ma solo per liberare queste terre da un male e sciogliere un mistero. Ad ogni modo, mi sembra prematuro parlarne adesso: prima sarebbe più opportuno vedere la scena del misfatto, non trova?”,
“Saggia osservazione!”, concluse Leòn.

Jeudi si guardò intorno. Si trovavano a pernottare in una località di montagna, e l’albergo che li ospitava era in tema. Ma a ben vedere, forse più là che a Bucarest si avvertiva il senso di solitudine.
L’albergo era tappezzato da pannelli in legno alle pareti; sempre alle pareti, stavano sospese delle appliques in stile antico lume a petrolio, che spandevano intorno una confortevole luce attraverso il paralume opalino; il salone dove si erano seduti a fare il punto della situazione era grande ed accogliente, arredato con divani e tavolini, mentre i corridoi erano stretti e lunghi; su tutto, predominava il legno.
Quel posto era una piccola, confortevole oasi in quel luogo sperduto.
Ma, appena fuori, ecco che riappariva la triste e cruda realtà: dalle finestre della camera di Jeudi e Lundi si poteva vedere un cortile popolato da alberi, roulotte e ragazzini laceri che giocavano nel fango.
E Jeudi era preoccupata: le parole dei nonni a cosa alludevano? Qual’era il pericolo la cui lunga ombra si proiettava su di lei? Tutto questo non le permetteva di concentrarsi sui discorsi dei suoi compagni di lavoro.
Sentì una mano posarsi sulla sua spalla e si girò. Era Leòn.
“Jeudi, andiamo a cena?”.
Lei gli sorrise.
“E’ da oggi che mi sembri triste. Che cos’hai?”,
Fidati del tuo cuore!, le avevano detto in tanti.
“Ecco… io… ho un po’ di paura, Leòn!”.
Lui rise. “Paura? E di cosa? Hai appena sentito che cosa è realmente il vampirismo(4). E poi” aggiunse, avvicinando il proprio viso a quello di lei “i vampiri colpiscono prevalentemente le persone vergini. Sbaglio, o ti ho amata?”.
A sentir dire questo, Jeudi arrossì fino alle orecchie, ed immediatamente si alzò per raggiungere gli altri in sala ristorante.
Si sentì invadere dai sensi di colpa, che si concretizzarono quando vide Ludi, che, vicino al buffet, si serviva una fetta di arrosto.
Ufficialmente, è ancora lui il mio uomo!
Ma di fatto, si ignoravano, anche se erano tornati ad occupare la stessa camera; lui aveva compreso l’attrazione che c’era tra lei ed Aschenbach, e la cosa non gli piaceva. Ma, almeno fino ad impresa ultimata, avevano stipulato un tacito armistizio.
A cena, tutti scherzavano.
“Almeno qui la cucina è ottima! Altro che a Bucarest!” esclamava Liesel,
“A chi lo dici!” faceva eco Patrice.
Jeudi non riusciva a partecipare; si limitava a guardare ed a sorridere, distante; accanto a lei, Lundi mangiava in silenzio.
Jeudi sospirava di tanto in tanto; seduto accanto a lei, Leòn le prendeva la mano senza parlare, e le sorrideva per confortarla.
“O.K.! E ora, tutti a letto! Domani ci aspetta un’altra giornata pesante!” fece Tavernier, stiracchiandosi.
Tutti si ritirarono nelle loro camere.
Leonhard trattenne Jeudi ancora per un polso “Buonanotte, Jeudi” le baciò la mano,
“Buonanotte Leonhard” rispose lei; poi corse dietro a Lundi che si era già avviato, sbadigliando, verso la loro camera.





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(1)Il posto esiste veramente; la vecchietta, invece, no.
(2)I particolari storici sono reali: mi sono stati raccontati dalle guide del posto.
(3)Chi di voi ha letto Dracula? Io l’ho trovato avvincente.
(4)Nella realtà sì; nella nostra storia, invece…vedrete!

Ecco a voi il nuovo capitolo, dove ho cercato di fornire qualche particolare in più sui vampiri e le storie che li riguardano; quanto ai posti, sono reali, ma purtroppo non riesco proprio a ricordare il nome della località di montagna dove passai la notte: scusatemi!!!!
Ninfea 306: Sì, purtroppo Bucarest è davvero brutta (o dovrei dire era? Ci sono stata ben otto anni fa!), ma adesso vedrete borghi e cittadine che, se fossero più curati, sarebbero dei veri gioielli: peccato che, quando io li vidi, non lo erano granché; ma la gente è cordiale e dignitosa nella sua povertà (se si eccettuano i borseggiatori sempre in agguato). Ho dimenticato di segnalarti, la volta precedente, un'altro brano dei Pooh che adoro: Cosa dici di me: mi fa venire i brividi!
Vitani: Così, sei stata a Budapest? Ma lì stanno in Paradiso, a paragone della Romania!!! L'Ungheria è, a mio parere, il più bello tra i Paesi dell'Est; magari, qualche volta mi racconti del tuo viaggio?
Quanto a Leòn, si dimostrerà uomo fino in fondo (come nell'anime), mentre invece, il povero Lundi... vedrai!
  
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