la ragazza che gli insegnò l'amore
Kid sentì quelle sottospecie di ululati prima ancora che le luci di tutta la casa si spegnessero; a volte, arrivava a chiedersi se Black Star fosse umano o avesse qualche specie di sesto senso come gli animali.
Constatando che il livello di batteria del laptop era comunque basso, salvò i file della tesi e lo spense, per poi dirigersi verso il soggiorno, dove il misfatto stava avvenendo.
Maestoso nei suoi pantaloncini e la canotta numero 23 dei Cleveland Cavaliers, l'azzurro, in ginocchio, inveiva disperato contro la televisione completamente nera, il display che pareva guardarlo altezzoso dal mobiletto.
Kid rimase sulla soglia a fissarlo, neutrale, attendendo che gli insulti del ragazzo si placassero e che il dispositivo confermasse di non avere nulla da ridire. Passarono almeno due o tre minuti prima che Black Star terminasse la propria sfilza di maledizioni e gettasse i pugni sulle ginocchia. «Ci mancava la finale, Kid! Il vincitore!»
«Va bene.» Il corvino non apparve particolarmente turbato, come davvero non era. Un po' gli dispiaceva, non poter godere della cieca e incontenibile gioia del coinquilino di quando il suo wrestler prediletto abbatteva una volta per tutte l'avversario, ma d'altro canto guardare degli omoni fare a botte e combattere contro i popcorn che gli si infilavano nei vestiti non era certo il suo passatempo preferito.
Restarono così per qualche momento, poi, Kid si chinò, con un sospiro, e provò a dare una pacca sulla schiena dell'altro. «Usciamo un po' sul balcone? Magari il blackout ha interessato tutto il quartiere, e vedremo tutto nero.»
Si morse il labbro, realizzando la semplicità quasi stupida di quell’incoraggiamento. In generale, Black Star non era un disastro totale, ma c'erano volte – come questa – in cui aveva l'impressione di avere a che fare con un bambino dell'asilo. Anche perché quello sollevò appena il mento, ponderando la proposta dell'altro, e alla fine si alzò in piedi, con uno sbuffo rassegnato. «Okay. Spero solo che Google non mi spoileri il vincitore stanotte.» Un altro sospiro lasciò la sua bocca, ma si decise a seguire Kid sul balcone.
Era molto tempo che il corvino non assisteva ad un blackout; quando era molto piccolo, ricordava di essere spaventato dal buio, dal non distinguere quello che era intorno a lui, fino a volte anche a piangere. Allora, qualcuno della famiglia, di solito Asura, lo prendeva in braccio, e lo accompagnava alla finestra per guardare fuori. All’epoca vivevano nella villa di famiglia, quasi in campagna, quindi, seppur in lontananza, si riuscivano a distinguere schiere di lucciole fluttuare sopra le distese di erba.
«Quelle lucciole hanno lo stesso colore dei tuoi occhi», ricordava che il fratello gli diceva, a volte; «Loro non hanno paura, quindi non averne neanche tu, va bene?»
Nel quartiere in cui si trovava l’appartamento dove si era trasferito per l’università, di lucciole non ce n’erano mai state, ma quelle parole lo avevano in fondo sempre accompagnato.
Anche adesso, in qualche modo non si sentiva neanche inquietato da quello scuro che avvolgeva tutti gli edifici intorno; anche i lampioni erano spenti, quindi le uniche luci distinguibili erano i barlumi intensi delle torce dei telefoni attraverso i vetri di finestre e balconi. Una parte di lui pensava che rovinassero l’atmosfera, quelle scintille artificiali e dall’aria sterile, d’altronde sparse in modo irregolare tra gli appartamenti; ma non è che potesse spegnerle tutte, del resto.
Preferì concentrarsi sul cielo, per esempio. Solitamente, a causa del circostante inquinamento luminoso, tutto quello che si riusciva a notare al di sopra degli alti palazzi era una pesante coperta di tenebra, quasi fumosa, di un colore spento. Invece, stasera, si distinguevano miriadi di astri scintillanti, che parevano vegliare con i loro dolci occhi su tutte le case. Punteggiavano la distesa nera dietro di loro, creando pozze di luce sospese magicamente.
Non era la prima volta che vedevano le stelle insieme, ma certo l’effetto di incanto non spariva.
Kid poggiò i gomiti sulla ringhiera del balcone, e un brivido attraversò il corpo quando la pelle nuda venne a contatto con il metallo; ecco i motivi per cui preferiva di gran lunga le sue calde felpe alle magliette estive.
Fece per chiedere a Black Star cosa ne pensasse di quello spettacolo inscenato davanti ai loro occhi, ma le parole gli morirono in gola. L’azzurro rivolgeva lo sguardo verso l’alto, quasi pietrificato, come se fosse rimasto bloccato nel tempo; solo le sue mani si stringevano alla ringhiera, fino a far sbiancare le nocche. Udì delle flebili parole provenire dalle sue labbra tremanti, ma sembravano non essere neanche sue, quasi fossero pronunciate dalle viscere della terra attraverso di lui. «Se io sono questo cielo nero, allora le stelle luminose sono Tsubaki…»
Un nodo si formò alla bocca dello stomaco di Kid. Se c’era una cosa che aveva capito, era che, di tutto quello che aveva vissuto, quella ragazza era l’unico vero rimpianto di Black Star; era contento di essere riuscito a sopravvivere a tutto quello che aveva passato, e probabilmente se fosse tornato indietro non avrebbe cancellato nulla, se non la sua morte. Adesso, quella giovane dal nome di Tsubaki era l’unica a non essere un mero ricordo, l’unica a seguirlo davvero, a tenere davvero la mente e l’anima di Black Star, come un fantasma che mai lo avrebbe lasciato solo, uno spettro che continuava a tenergli la mano nel suo cammino.
Eppure, di lei non sapeva nulla. L’azzurro non aveva mai lasciato trasparire alcuna informazione, a differenza di tutto il resto, e ciò che Kid poteva ricollegare a quell’identità erano un nome e il fatto che amasse i luna park.
Forse lo aveva fissato con un po’ troppa intensità, perché Black Star si voltò appena verso di lui, e ancora una volta Kid rimase stregato dall’espressione che incontrò nei suoi occhi. Quelle iridi verde mare di cui aveva sempre tanto amato la trasparenza erano terribilmente simili a cristallo, pronti a spezzarsi alla minima spinta, ma che trattenevano dietro di loro l’oceano, un oceano al tramonto, miscelato a pagliuzze scintillanti come le stelle che stavano sopra di loro.
Lo guardò per un attimo, il suo volto che si contraeva riempiendo quelle profonde cicatrici di amarezza. «E va bene, in fondo te lo avevo promesso. Solo, non aspettarti una storia allegra.»
Kid annuì, mentre l’altro si accendeva una sigaretta, probabilmente perché i suoi nervi fossero in grado di reggere quella conversazione. Negli ultimi tempi lo aveva visto fumare di meno, pensò il corvino, e si chiese se la vita che trascorrevano insieme stesse quantomeno contribuendo.
Tuttavia, riportò la propria attenzione al coinquilino, che stava prendendo abbondanti boccate nel prepararsi al discorso. Sospirò, o forse prese un respiro. «Dunque, mettiamola così… C’era una volta un clan di assassini, avidi sicari, di origini giapponesi. Il loro nome era Star, che in giapponese può anche voler dire “mondo”, e infatti loro si comportavano sempre come se l’intero mondo fosse loro dovuto. In città c’era anche un’altra famiglia che proveniva dall’Oriente, i Nakatsukasa, semplici e onesti commercianti. Il loro figlio maggiore, però, non era soddisfatto; voleva di più, più potere, più gloria, più denaro. Cominciò a frequentare giri illegali, guadagnando sempre di più, e il clan di sicari decise che stava esagerando, invadendo il loro territorio. Lo uccisero. C’era però una cosa che non avevano considerato – la famiglia del ragazzo. I genitori furono massacrati senza alcuna pietà, ma la seconda figlia no. Aveva quattordici anni, era carina, in forze, di buon carattere… Il tipo di ragazza che può sempre tornare utile in una grande villa di gente arrogante, insomma.»
Soffiò, una leggera veemenza in quel fiato, il getto di fumo grigio che si spandeva in eterei riccioli. Vide che le sue dita tremavano appena, intorno al bastoncino bianco che si accorciava tra le sue labbra.
Raccontare quella storia doveva essere uno sforzo enorme, per lui. Era possibile che stesse cercando di raccontarla in quella forma per separarsene, per non lasciarsene coinvolgere nuovamente, ma tutti i segni sul suo corpo sembravano farsi ogni attimo più profondi.
Però non voleva interromperlo. Avrebbe solo peggiorato la situazione, costringendolo a distrarsi. Perciò, si limitò ad avvicinarglisi, quel tanto che bastava perché le loro spalle si toccassero. Storse il naso quando l’odore intenso della nicotina lo raggiunse, ma resistette.
Si chiese se Black Star si fosse accorto del suo gesto – ma era probabile di sì, dal momento che per un attimo Kid ebbe la sensazione gli si alzasse lievemente la schiena, quasi avesse recuperato un po’ di forza.
«Devi sapere,» riprese a raccontare, il pugno abbandonato nel vuoto al di là della ringhiera. «che questo clan non sceglieva come erede semplicemente il primogenito. Solo gli anziani della famiglia ne conoscevano il procedimento, ma alla nascita del quarto figlio veniva eseguito questo rituale, in base al quale era scelto il successivo capofamiglia. Destino volle quindi che tale ruolo spettasse al terzo figlio, Black Star.» Nel pronunciare il proprio nome, il respiro parve mancargli per un attimo. «Quando la ragazzina, Tsubaki, venne catturata, lui aveva otto anni, quindi fu in un certo senso affidato a lei come ad una balia. Gli rimboccava le coperte, lo intratteneva nella sua camera quando gli allenamenti finivano, controllava che non combinasse guai in giro per casa. Ma qui i sicari commisero il secondo errore di calcolo.» Una sorta di ghigno amaro e grato allo stesso tempo si dipinse sulle sue labbra. «La ragazza aveva qualcosa da dirgli della quale il clan aveva sempre cercato di tenerlo all’oscuro. E sai cos’era?» Si voltò vero di lui, e Kid non fu in grado di fare altro se non scuotere la testa. Si rese conto del proprio cuore che batteva all’impazzata, catturato dalle sue parole, per la prima volta cariche di una sincera tristezza.
«Era l’amore.» Schiacciò la sigaretta ormai spenta sulla ringhiera di metallo, guardando quel nocivo materiale diventare polvere inerme. «Il bambino era sempre stato cresciuto nel mondo degli assassini, secondo le quali la vita era l’ultima cosa importante. Invece, lei gli aprì gli occhi sulla bellezza del mondo; gli fece scoprire quanto in realtà vivere fosse bello, e quanto ogni attimo fosse prezioso. Gli insegnò che ogni creatura, anche la più piccola e irrilevante, aveva qualcosa da proteggere in sé. E gli insegnò anche che persino una camelia senza profumo, dallo stelo debole e il carattere docile, ha una grande forza dentro di sé, la capacità di non piegarsi, e la capacità di essere padrona di se stessa anche contro le intemperie e gli ordini altrui.» Scosse la testa. «Tsubaki non si lasciava mettere i piedi in testa. Obbediva quasi sempre, ma non si faceva mancare di rispetto. Probabilmente ai pezzi grossi non piaceva fosse così decisa. Dopo poco più di un anno, sparì nel nulla. Si rifiutarono di dirmi cosa le fosse successo, ma io lo sapevo, anche a nove anni, che l’avevano uccisa.»
Tacque, indietreggiando per posare il mozzicone nel posacenere. Si mise le mani sui fianchi, un leggero sorriso. «È per lei, che sono scappato. Che ho deciso di non uccidere, di trovare il modo di ricominciare da zero. È tutto grazie a lei.»
Si strinse le mani al petto, al cuore, e Kid lo vide; quel calore che emanava, quell’allegria, quel desiderio di vivere il momento che sempre lo aveva contraddistinto, quell’energia che metteva in ogni cosa facesse – era amore per la vita, il desiderio di non sprecare più nulla, dopo tutti quegli anni gettati. Quel desiderio che non era solo suo, ma anche di Tsubaki, che ora era come se fosse ancora lì, dentro di lui.
Fu distratto dai propri pensieri quando quello fece un cenno. «Credo che andrò a dormire. Sai... Non voglio rischiare di aprire per errore le notizie sullo sport.»
«Uh- Oh, sì. Buonanotte.»
Mentre si avviava attraverso la cucina, a Kid, per quanto non ci avrebbe giurato, parve di sentirlo mormorare un «Ti sarebbe proprio piaciuto, Tsubaki.»
«Tsubaki!»
Lo stomaco riempito dalla cena, il bambino si gettò nelle braccia della ragazzina, già nella stanza, seduta sul pavimento, alla finestra. Voltò il viso appena in tempo per cingere quel piccolo corpo già muscoloso per la sua età, sorreggendolo mentre quello le circondava la vita con le gambe. Black Star affondò il viso nel suo morbido petto, quel calore che somigliava tanto – per quanto ricordasse – a quello della sua mamma.
La sentì ridere, e posare un bacio sulla sua testa. «Non vedevo l’ora di vederti!» disse, guardandolo con quel dolce sorriso che tanto accendeva il cuore del bambino. «Era buona, la cena?»
«Il solito.» Black Star giocherellò con le lunghe ciocche scure che scendevano lungo i lati del suo volto; adorava quanto fossero lisci, e setosi, e morbidi. I suoi occhi caddero su dei segni violacei sulla sua pelle candida, lasciati scoperti dal kimono rosso. «Quelli cosa sono?»
Scuotendo la testa, la ragazzina tirò un po’ più su i lembi della veste. «Nulla di importante.»
«Ti hanno fatto del male, invece!» Saltando in piedi, pur nel suo grembo, il bambino le prese le spalle. Si sentiva irritato, quando Tusbaki si ostinava a far finta che andasse tutto bene; voleva aiutarla, voleva tenerla al sicuro. «Chi è stato, chi è stato? Lo picchio io!»
«Nessuno, ti dico. Guarda il cielo, invece. Stasera è bellissimo, non trovi?» Tsubaki insisté fino a farlo voltare, e in effetti l’attenzione di Black Star fu completamente distolta.
Ma come darle torto. Su quella tela dipinta completamente di nero, tantissime stelle punteggiavano lo spazio, impedendo che l’oscurità regnasse, mostrando la via attraverso il buio.
Nero…
Nero, come era lui. come il suo nome, che voleva dire Mondo di Oscurità.
Ma il buio faceva tanta paura.
«Io non ho altra scelta?» Gli uscì nulla più di un sussurro. Non sapeva perché lo sconforto stesse prendendo il sopravvento su di lui, ma improvvisamente si sentiva minuscolo davanti a quel mondo che aspettava solo che lui fosse pronto. Ma sarebbe mai stato pronto? Si strinse a lei, inconsapevolmente, la necessità bruciante di sentirsi protetto da quelle braccia tenere. «Devo per forza vivere nel buio?»
«Certo che no.» Tusbaki rafforzò la presa a sua volta, per fargli sentire la vicinanza, che non l’avrebbe lasciato cadere. «Tu puoi essere tutto quello che vuoi, Black Star, se usi tutta quella forza che c’è nel tuo cuore.»
Il bambino non distolse lo sguardo dai punti che fiammeggiavano nel cielo, ma seppe che quel dolce sorriso lo stava riempiendo di amore da quei grandi occhi blu.
Parlò di nuovo, ma stavolta si sentiva sicuro, deciso su quello che davvero voleva. «Se io sono questo cielo nero, allora le stelle luminose sono Tsubaki…»
note dell'autore
la ripartizione perfettamente martematic di cui mi ricordavo e di cui andavo così fierx è completamente saltata con questo capitolo, e verificando i successivi ho avuto modo di constatare che sembravo aver perso qualunque tipo di criterio. ancora una volta not beating the allegations of umanista incapace con la matematica.