Yèlveran capiva la posizione di Àtsuran: non voleva provare ad estrarre il Ricordo Sepolto finché lui non si fosse sentito al sicuro e quindi più disposto a fidarsi, perché un consenso sincero avrebbe reso la trasmissione più trasparente e meno stressante per il portatore. Tuttavia, lui era certo di potergli garantire la massima collaborazione: aveva un buon controllo di sé e aveva studiato con un eccellente Persuasore di Ricordi, e non credeva affatto che trattenendosi più a lungo in compagnia di Àtsuran la sua condizione emotiva si sarebbe alleggerita: al contrario, Feuzte lo metteva a disagio, a partire da quell’enclave, così diversa da quella di Villanuova, dove ad ogni scambio di sguardi si respirava sospetto, dove persino un rumore di passi in un corridoio faceva voltare la testa di qualcuno, dove tutti erano rigidi, perfettamente vestiti, perfettamente pettinati, perfettamente perfetti nel modo di camminare, di parlare, di guardare…
Inoltre, la Celebrazione dell’Umanità era vicina, ed il messaggio aveva evidentemente a che fare con la congiura: forse Luxei aveva una soluzione, forse era a conoscenza di dettagli che potevano impedire una carneficina.
Quel temporeggiare era snervante.
Ma non poteva rivelare ad Àtsuran ciò che sapeva, perché avrebbe significato condannare a morte i compagni di Iruvàn, un gruppo di Maledizioni che nessuno si sarebbe fatto lo scrupolo di risparmiare.
Dalle finestre dei piani più alti, dove lo avevano fatto sistemare, si poteva vedere la residenza cittadina dei Devenya, quella dove suo padre si recava quando il Consiglio dei Nove si riuniva, e dove lui non aveva mai abitato, ma dove Àtsuran aveva fatto ospitare Heze e Xau, senza sapere chi quest’ultimo fosse. Cosa sarebbe successo se avesse provato a leggere la sua mente e lo avesse scoperto? Avrebbe chiuso un occhio come aveva fatto con lui? Certo che no: su questo Iruvàn aveva tristemente ragione. Il fatto che lui fosse ancora vivo era solo il frutto di un calcolo politico, non certo di un atto di pietà. E allora, aveva sbagliato a chiedere che i suoi compagni venissero messi sotto protezione…? Non che avesse avuto molte scelte: due Persuasori potenti, una Maledizione capace di prosciugare le forze di un uomo, e chissà quante altre di cui non era a conoscenza li stavano cercando. Il rischio che Àtsuran venisse a sapere qualcosa di troppo era probabilmente il male minore: poteva ancora sperare di avere una leva su di lui, come Persuasore, come allievo di Luxei e come Devenya. Ma sarebbe stato capace di far pesare il suo nome, se fosse stato necessario? Quel nome che contava così poco, per lui, ma per il resto del mondo moltissimo? Non lo sapeva, non avrebbe voluto saperlo. Sperava solo che tutto finisse presto, voleva tornare a casa: alla sua sola casa, a Villanuova, da Luxei, da Garlan, nel piccolo chiostro dove aveva imparato a costruire le serrature. C’era ancora una casa per lui? Oppure quel viaggio l’aveva distrutta per sempre? Luxei lo aveva mandato là aspettandosi che tornasse indietro, o quello che si augurava era che rientrasse nella sua vecchia vita, ora che era adulto e aveva le risorse per gestirla? Non le aveva, quelle risorse. Voleva tornare indietro, nel suo piccolo angolo di mondo sicuro. Oppure, sedersi sulla voragine del Valico del Vento, spalancare gli occhi sulla vastità e svanire…
“Mi sono domandato spesso dove si perdessero i tuoi occhi, in certi momenti…”
La voce di Àtsuran era un po’ ruvida, ma si era sforzato di mettere una nota di dolcezza in quella frase. Erano rimasti a lungo in silenzio, seduti faccia a faccia da due lati di un tavolino di pietra, su cui erano appoggiate bevande calde e cibi elaborati.
Yèlveran si riscosse.
“Hai smesso di mangiare da almeno dieci minuti.”
“Mm.”
“Anche quando eri bambino, ogni tanto, sparivi.”
“Luxei mi ha insegnato a tenere i pensieri qui: ma il qui oggi è un posto scomodo… ”
“Cosa sai della situazione politica di Feuzte?”
“Niente che mi interessi.”
“Invece dovrebbe interessarti.”
Yèlveran si grattò la testa e raccolse dal piatto un frutto, che prese a sbocconcellare lentamente. Pensò che avrebbe preferito delle nuvolotte.
“Se questa è la tua strategia per creare una complicità che renda più agevole lavorare sui miei ricordi, non sarà molto efficace, credo…”
“Se stessi usando una strategia per ottenere questo scopo, sarebbe una manipolazione, dunque ancora meno efficace.”
“Ma anche dirmi questo è un po’ una manipolazione, credo… ”
Àtsuran emise un lieve sospiro.
A guardarlo adesso, sembrava molto diverso dall’uomo che, nella sua infanzia, si aggirava come un’ombra sinistra per i corridoi di casa. Era invecchiato e le rughe che gli solcavano la pelle rendevano le sue espressioni più semplici da leggere. La vita, prima o poi, lasciava i segni sui volti di tutti, e tutti morivano allo stesso modo: Persuasori, Consiglieri, Maledizioni. Altro che umani e non umani.
“Yèlveran Devenya, sei consapevole di essere il titolare ufficiale del nono seggio?”
Àtsuran lo guardò con la rassegnazione di chi si sente costretto a precisare l’ovvio. Lui, invece, sbatté le ciglia e smise di tormentare il suo frutto, che rimase sollevato a mezz’aria.
“Eh…?”
“Non posso credere che tu abbia viaggiato fino qui, dopo tutti questi anni, senza neppure chiederti cosa ne fosse stato della tua famiglia. Senza chiederti come fossero andate le cose dopo la morte di tuo padre e di tuo fratello…”
“Invece è così. Non me lo sono chiesto. Dovevo? E perché dovevo?”
Àtsuran sospirò ancora.
“Da quel giorno, il nono seggio è rimasto vacante. Non essendo previsto dalla Grande Legge che il ruolo potesse essere ricoperto da una figlia femmina, ma non essendo nemmeno previsto che i seggi potessero essere lasciati in numero pari, a tua sorella Yerana è stata affidata la reggenza, in attesa che metta al mondo un figlio per succederle. Inutile dire che questo ha creato una situazione di seria instabilità: non è legiferato in alcun testo come ci si debba comportare in un caso del genere, quanto peso debba avere la reggente, se le decisioni prese con il suo voto favorevole abbiano una effettiva validità o debbano essere riconsiderate al sopraggiungere del legittimo consigliere, e questi sono solo alcuni dei nodi che noi Persuasori affiancati al Consiglio ci siamo trovati a cercare di sciogliere.”
Lo stupore era svanito dal volto di Yèlveran, sostituito da una rassegnata, amara calma. Dunque era tutto lì? Tutto – compresi il dolore, l’assedio dei suoi fantasmi, i sensi di colpa, la solitudine, le notti senza dormire, gli incubi, le serrature – si riduceva ad una questione successione?
“Come al solito il grande problema sta solo in come sono scritte le cose.” disse.
Àtsuran non parve cogliere, o finse di non cogliere, il sottinteso.
“E allora prova a cambiarle. Se tu rivendicassi il ruolo a cui hai diritto, per me sarebbe semplicissimo restituirti la tua posizione, e l’equilibrio politico di questo paese ne beneficerebbe.”
Incredibile.
La sua vita andata in pezzi: avrebbe convissuto per sempre con un rimorso che non poteva sanare, e quell’uomo gli parlava come se avesse il potere, con un colpo di spugna, di riportare indietro il tempo, di fare come se i morti non fossero morti, come se l’accaduto non fosse mai accaduto.
“Ho ucciso due persone.” sbottò “Violando la Grande Legge. E d’altra parte mio padre, che avrebbe dovuto essere una delle voci attraverso cui la Legge ci parla, per primo intendeva violarla chiedendo a me di commettere un omicidio. E mio fratello sarebbe stato pronto a farlo, in nome di un concetto stupido come l’onore di famiglia. Come può chiamarsi equilibrio il fatto che dietro le mura delle case si celino brutalità simili, e, una volta avvenute, possano essere cancellate semplicemente sostituendo una persona ad un’altra e ricominciando tutto da capo? Come posso, io, essere il rappresentante di una legge che ho infranto e che, prima di me, mio padre infrangeva a suo piacere, in privato, fingendo di difenderla in pubblico? Io non capisco… e credimi, forse preferisco non capire: il modo in cui ragionate voi politici non è normale. È irragionevole. È folle.”
Àtsuran lo guardò con curiosità per un lungo attimo, poi, inaspettatamente, rise.
“Luxei, Luxei… vuoi smettere di parlare per bocca del mio giovane ospite, per favore?”
Quel nome – e pronunciato con quella nostalgia – ebbe l’effetto di smorzare la tensione.
“Gli somigli tanto.” riprese Àtsuran “Tu sei più dolce, però: Luxei con me si incazzava sempre.”
Yèlveran fuggì lo sguardo, all’improvviso a disagio per essersi lasciato trascinare dall’emozione.
“Davvero? Luxei?”
“Davvero!”
“Oh.”
Àtsuran si alzò in piedi.
“Vieni con me, Yèlveran. Voglio mostrarti qualcosa che ti farà piacere.”
Neppure quando lavorava per Dezgo, Heze aveva mai visto un lusso simile. Se quella era solo la foresteria della dimora dei Devenya, chissà come doveva essere il palazzo!
Era passata meno di mezza giornata da quando si erano separati da Yèlveran che un uomo si era presentato con una sua lettera presso la casa dove avevano chiesto ospitalità. Il messaggio li invitava a seguire lo sconosciuto senza timore e attendere.
L’accompagnatore, a sua volta scortato da un uomo armato, li aveva condotti, senza fare alcuna domanda scomoda, fino alla residenza di città della Nona Famiglia, e li aveva lasciati nelle mani di servizievoli domestici che si erano occupati di tutte le loro necessità.
Di certo, se l’intento di Yèlveran era quello di tenerli al sicuro da una possibile aggressione, non avrebbe potuto sistemarli in un luogo migliore: dal punto di vista della discrezione, però, non aveva avuto una grande idea, visto e considerato che Xau condivideva gli occhi e le orecchie con uno dei congiurati.
“Non credo tu debba preoccuparti…” lo rassicurò quest’ultimo, intuendo il suo pensiero “l’identità del tuo compagno di viaggio non è un mistero per chi lo cerca. Si è invece saggiamente preoccupato di non svelare quella dell’uomo che doveva incontrare.”
Heze aveva notato come, da quando erano entrati in città, Xau fosse stato estremamente cauto nel non usare mai alcun nome proprio nei suoi discorsi. Era evidente quanto fosse abituato alla segretezza. Per lui, invece, era ben diverso: in quel clima da cospirazione, aprire bocca gli pareva faticosissimo, e si sentiva un pesce fuor d’acqua.
“Forse hai ragione. È che non riesco a vedercelo… Questo posto e lui… entrano in contraddizione.”
“In che senso?” chiese incuriosito Xau.
“Nel senso che Yèl…” si morse la lingua “Nel senso che lui è una persona abbastanza e questo è un luogo troppo.” lesse l’interrogativo sul volto dell’interlocutore e precisò “Lui è un uomo incredibilmente modesto, a cui basta poco e che desidera poco. Quanto più dentro la sua testa è complicato, tanto di più è semplice fuori. E poi è un vero anarchico, nel senso più bello del termine: odia le formalità, le cose che si fanno in un certo modo perché si sono sempre fatte così, e non l’ho mai sentito una sola volta spendere una parola buona per i potenti… Beh, neanche parole troppo cattive, in verità: di cattiveria non è proprio capace.”
Si rese conto che Xau stava sorridendo.
“Da quanto lo conosci?”
Domanda lecita. Stava parlando di lui come se fosse l’amico di una vita quando viaggiavano insieme da poco più di un mese. Aveva davvero una presunzione sfacciata nel pensare di averlo capito così a fondo: eppure, gli pareva che Yèlveran, pur nella sua connaturata reticenza, avesse cercato in ogni modo di farsi conoscere e di questo si sentiva onorato.
“Scusami, parlo troppo.” tagliò corto.
“No, scusami tu.” si affrettò Xau “Non volevo farmi i fatti tuoi.” il suo sorriso si fece malinconico “È che penso sia fortunato. Sentirsi così amati deve essere piacevole.”
Heze si soffermò a pensare a quante volte si era detto la stessa cosa: a quante volte aveva desiderato un amore che sembrava non essergli mai destinato. E poi, dall’oggi al domani, un incredibile sconosciuto aveva rischiato la vita per lui e aveva stravolto tutto. No, piacevole non era la parola giusta.
“È anche un vincolo, però. Come una specie di necessità. Almeno dal mio lato.”
“Lo vedo. Quel giorno, quando vi abbiamo imprigionati, ti saresti fatto ammazzare per lui.”
“Immagino di sì, anche se avrei preferito ammazzare te!”
Xau si rabbuiò in viso.
“… e a volte io mi chiedo come sarebbero andate le cose se tu fossi stato nella condizione di farlo.”
“Guarda che stavo scherzando…”
“A volte mi chiedo cosa avrebbe pensato lui. Come avrebbe reagito. Quando gli abbiamo riferito che uno dei suoi compagni più fidati era morto, si è comportato come se avesse appena ricevuto la notizia della perdita di un vecchio parente lontano e quasi dimenticato. Si sarebbe comportato nello stesso modo se a morire fossi stato io?”
Rimase qualche tempo in silenzio, come in ascolto di un rumore lontano, poi parlò a voce più alta.
“Sì, certamente sì. Non avrebbe fatto una piega, avrebbe detto che ero stato fedele alla causa, mi avrebbe lodato, sarebbe stato fiero di me, e non avrebbe sofferto per niente. È questo ciò che è diventato, e nessuno può fare nulla per tenerlo ancora tra noi, non di certo io, e nemmeno Meirem. Quindi finiscila, Leu: sai benissimo che denunciando me, denuncerebbe anche te. Se neppure questo ti tocca, c’è poco che possiamo ancora dirci.”
Heze non lo aveva mai sentito rivolgersi direttamente al fratello: Xau gli aveva spiegato come funzionava, eppure vederlo parlare al vuoto e sapere che oltre quel vuoto c’era una persona che ascoltava e osservava ogni cosa, persino il suo volto in quello stesso istante, lo impressionò. Istintivamente si spostò di lato, uscendo dal suo campo visivo.
“Mi dispiace,” disse Xau “È che sono proprio stufo di sentire dentro la testa una voce che mi insulta. Condividere occhi e orecchie non significa trovarsi nelle stesse situazioni. Non significa provare le stesse cose. E c’ero io quando due innocenti sono stati torturati davanti a me, con me complice. C’ero io quando colui che poteva uccidermi non lo ha fatto. E non solo non lo ha fatto: si è persino scusato.” ora Heze non capiva se si stesse rivolgendo a lui o di nuovo al fratello “Scusato, capisci? No, io non alzerò un dito contro quell’uomo.”
Beh, non importava troppo a chi lo stesse dicendo: quell’affermazione gli piaceva parecchio.
La carrozza li portò in campagna, fino alle mura di un vasto parco, oltre le quali si intravedeva un palazzo nobiliare: il cancello si aprì ad un cenno del cocchiere e il mezzo percorse l’ampio viale lastricato per andare a fermarsi ai piedi del loggiato d’ingresso. Yèlveran riconosceva quel tipo di luogo: anche lui era cresciuto in una villa simile. Le nove famiglie, come, del resto, molti dei nobili di Feuzte, non amavano vivere stabilmente in città e avevano una seconda residenza nella capitale solo per questioni di rappresentanza. Ville ampie e basse, con giardini tutto intorno, porticati ombrosi all’ingresso e piccoli patii all’interno: vedendone solo la facciata, riusciva perfettamente a immaginare l’aspetto dell’interno, il buio intimo delle cucine e della taverna, l’ostentazione di luce ai piani superiori, amplificata dalle decorazioni di mirdev, l’austerità delle stanze private del capo famiglia… un intero paesaggio già visto che lo faceva sentire – così come avevano fatto poche ore prima le parole del suo ospite – gettato a forza dentro un passato che non voleva più.
Il servitore armato aprì lo sportello e si inchinò ad Àtsuran: lui lo ringraziò cordialmente e ricambiò persino l’inchino, un gesto di gentilezza che l’uomo non avrebbe ricordato quando le memorie di quel giorno sarebbero state cancellate. A Yèlveran era davvero difficile conciliare il bel sorriso di quel persuasore affabile con la naturalezza con cui esercitava sistematicamente la manipolazione della mente altrui. Neppure i suoi servi di fiducia erano immuni a questa procedura: era così che il Primo Addestratore di Ricordi proteggeva i propri segreti e quelli dell’Enclave. Chissà se Luxei, un tempo, aveva agito nello stesso modo: molto probabile, considerando quanto si era prodigato nell’insegnargli a difendersi. Inoltre, ormai sapeva che aveva modificato i ricordi di Heze: una decisione saggia, forse… ma che era comunque una forma di violenza.
“Questa è la casa della mia famiglia” spiegò Àtsuran “Ci abita mio fratello. Ho vissuto qui fino ai vent’anni, poi sono stato selezionato come potenziale Persuasore e la mia carriera mi ha condotto ad un altro stile di vita. Non lascio quasi mai la città:” sbuffò, ma senza alcun reale rammarico “c’è sempre qualche responsabilità a cui non ci si può sottrarre!”
Yèlveran lo seguì timidamente. Il rapido passaggio dalla luce abbagliante di quel pomeriggio di sole all’ombra densa della loggia gli confuse per qualche attimo la vista. Fu mentre i suoi occhi si riadattavano che da una porta di servizio sbucò una figura dai tratti vagamente familiari.
“Benvenuto, signore. Non vi aspettavamo.”
“Chiedo perdono per il mancato preavviso.” disse Àtsuran “Ho ricevuto la visita di questo mio giovane comperso da molto lontano. Desideravo ospitarlo come si deve e mostrargli questo posto. Lo affido alle tue cure mentre vado a salutare mio fratello: conducilo nel salone degli ospiti e fai per lui qualsiasi cosa ti chieda.” poi si rivolse a Yèlveran con un sorriso ambiguo “Spero che non ti offenda attendermi qualche minuto.”
Yèlveran non rispose: era troppo intento a chiudere una serratura per mascherare lo stupore.
“Seguitemi, signore. Avete dei bagagli?”
“No… io…”
Non riusciva a crederlo: quell’uomo era senza ombra di dubbio Reimu.
Ecco cosa intendeva Àtsuran parlando di mostrargli qualcosa che gli avrebbe fatto piacere: e poteva pure trattarsi di un banale stratagemma per blandirlo e averlo dalla sua parte, o di un ulteriore tassello per stabilire con lui un rapporto di fiducia, ma non gliene importava niente.
Sì, era riuscito a fargli piacere: gli era grato.
Dopo ciò che era successo, avrebbe potuto fare di Reimu qualsiasi cosa, dall’usarlo come capro espiatorio al farlo sparire come testimone scomodo della vicenda che voleva insabbiare: invece aveva modificato i suoi ricordi e lo aveva sistemato in un posto sicuro. In circostante come quelle, aveva fatto davvero il meglio che si potesse sperare.
Gli sorride timidamente e si accorse che anche Reimu lo stava fissando con una strana attenzione: naturale, dal momento che, come gli aveva insegnato Luxei, la Persuasione di Ricordi eliminava solo il ricordo cosciente ma non poteva rimuovere le sensazioni ad esso associate. Quando il servo si rese conto che Yèlveran aveva notato il suo sguardo, lo abbassò con deferenza.
“Perdonatemi,” si giustificò “ma voi avete un viso così familiare che mi domandavo se ci fossimo già incontrati altrove.”
Familiare: non avrebbe potuto scegliere aggettivo migliore. In quegli anni difficili, forse lui era stato l’unico vero familiare che avesse avuto. L’unico che non era rimasto indifferente e aveva provato a dargli una mano contro la ferocia del mondo.
“Non credo sia possibile” mentì, con un sorriso appannato “Vengo da Oltrefrattura.”
“Oltrefrattura! Non dev’essere un luogo dove è semplice vivere… ”
“Al contrario, io amo viverci. Casa è dove stanno le cose e le persone che ci piacciono tanto.”
Quella notte Xau si vide per la seconda volta in piedi sul molo del porto fluviale, ma le scarpe erano quelle di Leu. Vide la stessa piazza avvolta nel buio e nel silenzio, vide le mani di Leu pagare un traghettatore improvvisato e seguire con lo sguardo la piccola barca allontanarsi dalla sponda.
Sentì la voce di suo fratello parlargli.
“Sei veramente così vigliacco da rimanertene nascosto nel palazzo di un tiranno pur di non incontrarmi? Pazienza. Verrò io da te.”
Fece per rispondere, poi guardò Heze che dormiva: la sua testa rossa sbucava appena da sotto il lenzuolo, che si sollevava lentamente al ritmo del suo respiro.
Il suono lieve di quel respiro si mescolava a quello dei passi di Leu sul selciato.
Suo fratello voleva andare da lui. Aveva idea di cosa significava? Erano sotto protezione nel palazzo dei Devenya: si sarebbe fatto ammazzare!
Ma se invece stava bluffando, se, anziché compiere quella pazzia, fosse andato a incontrare Iruvàn, o anche solo Xeiratog, allora la presenza di Xau in quello stesso palazzo avrebbe messo in pericolo Heze e probabilmente lo stesso Yèlveran.
Leu era stato astuto.
Con una sola frase, aveva trovato il modo di non lasciargli scelta.