L’aria nel centro di Roma è fresca, se non pulita, la mattina deve ancora veramente cominciare per la maggior parte dei romani, ed è l’ora perfetta per godersi il centro storico. È uno dei vantaggi del mio lavoro.
Dietro Piazza della Chiesa Nuova, in un vicolo tra Piazza Navona e il Tevere c’è una porta. È piccola, una porta appunto, non un portone. Anonima. C’è solo una targa in bronzo dorato dai caratteri elaborati.
Uno dei tanti inutili enti pubblici sembrerebbe. Ente Pubblico lo siamo a tutti gli effetti, inutili non tanto. Anche se facciamo del nostro meglio per sembrarlo.
Entrando, da quell’anonima porta, si resta sorpresi. Ci si trova in un chiostro a doppia altezza, al di là delle antiche arcate si vede un piccolo giardino in mezzo al quale svetta un leccio. La prima sorpresa di questo posto.
Il mio tesserino apre il tornello senza problemi, il riconoscimento facciale mi identifica come innocuo, anzi benigno e gli uomini della sicurezza mi salutano con opportuna deferenza.
«Signor, Vicedirettore.»
Attraverso il chiostro, circa venti metri, in fondo a destra c’è un’altra porta e le scale, il mio ufficio è al piano superiore. I corridoi sono ancora quasi vuoti, ma qualcuno è già a lavoro e mi osserva meravigliato: il Vicedirettore delle Operazioni che arriva almeno un’ora prima del solito.
Raggiungo il mio ufficio. Digito il codice di sblocco della porta. Appendo la giacca e accendo il computer.
Sedendomi mi torna in mente Claudia, così bella, così giovane e così desiderabile, che mi guarda ancora distesa a letto, i capelli neri scompigliati e sparsi sul cuscino. Mi chiede, con un cenno di sospetto nella voce, perché me ne sto andando via così presto. Perché, quando potrei tornare a distendermi e potremmo fare l’amore un'altra volta alla luce che inizia a filtrare tra le stecche delle serrande?
Sospetta che non le stia dicendo tutto, e ha ragione, sospetta che di mezzo ci sia un'altra donna, e si sbaglia.
I miei segreti sono molto peggiori e me ne dispiace.
Doveva essere il solito nulla, una compagnia piacevole e occasionale, incontrata per caso e altrettanto per caso dimenticata e invece mi è mi è diventato sempre più chiaro, nei pochi giorni passati insieme, che io in quel letto ci sarei tornato volentieri e non avrei voluto andarmene più.
Ottima ragione per fuggire. Ottima ragione per andarsene allo spuntare dell’alba.
Per tentare di pensare ad altro, per non pensare a lei, apro il sistema delle presenze e degli straordinari. Qui sono tutti molto veloci a conteggiarli e sta a me autorizzarli. La maggior parte del mio lavoro in verità e routine. Il resto è comunque più che sufficiente per rendere la mia vita fin troppo interessante.
È il telefono a interrompermi, dopo una decina di minuti.
«Il Direttore vorrebbe vederla, Signore.» A quanto pare anche lui è già in ufficio, ammettendo che lo lasci qualche volta.
A ordine ubbidisco, riprendo la giacca, richiudo bene la porta alle mie spalle, riattraverso i corridoi che iniziano a riempirsi.
Scambio un paio di cortesie con la segretaria del Direttore. Regola fondamentale della vita di qualunque ufficio: le segretarie di direzione vanno sempre trattate con i guanti bianchi. Sempre.
Sono atteso, entro.
L’aspetto del Direttore (la maiuscola è sempre lì e si sente sempre) è all’incirca quello di che ci aspetterebbe dal casting di un nonno giovanile e bonario per una pubblicità con target familiare.
Immagino che quella faccia tranquilla e amichevole, baffi folti e grigi, guance rosee, sempre perfettamente rasate, occhialetti tondi, abbia ingannato infiniti avversari, innumerevoli colleghi, e tanti tanti sottoposti. Un errore che sicuramente è stato mortale per parecchi.
«Signor Direttore.»
«Calligari, buongiorno.» Mi squadra per nulla bonario. «Non stia sempre lì impalato sull’attenti. Si sieda.»
Ubbidisco, e mi allunga una cartellina preoccupantemente bordata di rosso.
«Dia un’occhiata a questa. Credo che la situazione sia ancora gestibile. Mi dica la sua opinione.»
Sfoglio il rapporto, soffermandomi qua e là. Sospiro, questa cartellina puzza di sangue e zolfo e pure di molto sangue. Sento il suo sguardo esaminarmi.
«Sì, credo siamo ancora in tempo. Prima che la cosa esploda.»
«Ottimo, se ne occupi lei allora. Immagino non ci sia tempo da perdere.»
Mi alzo, ancora prima che apra bocca.
Se godersi il centro di Roma è uno dei vantaggi del mio lavoro, in compenso però si passa anche un sacco di tempo a lavorare di notte, in posti sperduti. Scomodi e magari al freddo.
Almeno oggi non piove.
Il furgone di controllo è a un centinaio di metri dalla villetta che abbiamo come obbiettivo.
L’interno è affollato, due operatori, e il sottoscritto bastano a riempirlo.
Sono giorni che controlliamo quella casa, siamo pure riusciti a piazzarci dei microfoni. Sentiamo tutto o quasi. Sono quattro: un uomo e tre donne, una visibilmente incinta, è lei il nostro problema.
Ma siamo in procinto di risolverlo. L’occasione è perfetta. Pochi minuti ancora.
Il finto rider suona al cancello della villetta, che si apre. Non abbiamo rilevato nessun sistema di sicurezza in giardino, solo un normale volumetrico alle finestre che però a quest’ora è spento.
Una delle donne apre la porta, aspettandosi delle pizze. La squadra di intervento irrompe in casa. Incappucciati, armati. Decisi, massicci e incazzati.
Nei microfoni risuonano, per alcuni secondi, urla e intimazioni, cala il silenzio, poi arriva la voce fredda e professionale del capo squadra.
«Quattro trovati, fermi e in sicurezza. Fatta.»
Tutto perfetto e liscio come l’olio. Tutto così perfetto che è ovvio che qualcosa debba succedere. Non ho tempo di meravigliarmi, che nelle cuffie esplode una sequela di bestemmie, urla e imprecazioni seguite dallo staccato di una raffica di Steyr soffocata dal silenziatore.
Pchi secondi, poi cala di nuovo il silenzio, rotto solo dal pianto isterico di una voce femminile, aggiungo io una profanità finale e vengo informato sugli sviluppi.
«CINQUE trovati. Due a terra e tre fermi in sicurezza. Noi tutti OK. Cazzo che bordello.»
«Cinque? E da dove è uscito il quinto?» Chiedo.
«Cinque. Venga a vedere, Signore. Questa non l’ha mai vista neppure lei, scommetto.»
Quando arrivo alla villa mi apre il finto rider, un po’ pallido. Nel salone ci sono l’uomo e due delle donne. Distesi a terra, già ammanettati e bendati. Uno dei ragazzi della squadra, in tenuta da battaglia completa, li sorveglia, si è tolto solo il cappuccio e la visiera del casco.
«Qui, Signore.» Mi chiama il capo squadra, da una delle camere da letto.
C’è un forte odore di bruciato, che ne copre parzialmente un altro, più pungente, che impiego alcuni secondi per riconoscere. Storco la bocca.
La stanza è ridotta peggio di un mattatoio. Rimango sulla soglia per non sporcarmi le scarpe di sangue e per non finire sopraffatto dalla puzza.
Il capo squadra lo abbiamo reclutato anni fa, era appena tornato in Italia, dopo essersene andato a combattere coi Curdi in cerca di avventure. Ne aveva trovate abbastanza, da quello che sapevo, da fornire incubi a una persona normale per il resto della vita, ma a lui evidentemente non era bastato.
Fermo in mezzo alla stanza, piantato a gambe larghe, il fucile mitragliatore puntato a terra, quasi mi sorride, facendo un cenno verso il letto. Vi giace, pallido ed esangue, il cadavere di una donna sui trent’anni. Capelli chiari, corti. Il viso deformato da un rictus e gli occhi sbarrati puntati nel vuoto. È praticamente sventrata, il letto è zuppo di sangue, gli schizzi sono arrivati al soffitto.
«Ha presente Alien? ‘Na cosa mai vista… si vede che ha capito in qualche maniera di essere fatto e ha provato a vedere se riusciva a cavarsela…» Tira fuori il pacchetto delle sigarette da sotto il giubbotto antiproiettile, me lo offre con un gesto, rifiuto, se ne accende una, non mi piace l’odore del fumo, ma di sicuro meglio di quello che emana da un corpo umano sbudellato.
L’autore di tanto scempio è sbattuto contro un angolo, preso in pieno da una raffica di mitragliatrice. È piccolo, poco meno di un gatto e doveva essere brutto anche prima di finire maciullato dai proiettili.
«Direi che è andato, in maniera definitiva. È successo tutto in un attimo. La donna incinta stava sul letto, quando ha iniziato a urlare e quel bastardo gli è spuntato dalla pancia proprio come nel film e si è lanciato verso la porta.»
Gli faccio notare che in quel film, la sua parte la aveva una gran bella fica.
Ride, non è una persona che si fa domande e ha dubbi. Per questo è perfetto. Gli è stato dato un ordine e lo ha eseguito. Altro non gli interessa. Cosa fosse quell’affare, cosa ci facesse lì, cosa significa tutto questo, non sono semplicemente cose che non lo interessano. Pensa a Sigourney Weaver.
Faccio un passo indietro. Sopra lo stipite la carta da parati è bruciata e ancora fumante. Sotto vi era nascosto un vecchio crocifisso metallico che si è parzialmente fuso e sembra ancora rovente.
«È quello che vi ha aiutato» lo indico. «Deve averlo rallentato.»
Cazzo se odio i satanisti e i demoni. Demoni e diavoli sono quasi al top della lista delle creature soprannaturali che non sopporto. Subito sotto le fate.
Esco in giardino e faccio una breve chiamata sulla linea protetta al Direttore per avvisarlo che la situazione è sotto controllo, che è andato, quasi, tutto bene e che per l’ennesima volta abbiamo sventato una minaccia soprannaturale al paese e che le istituzioni democratiche sono salve o almeno non messe peggio del solito. Insomma, abbiamo fatto il nostro lavoro. Anche se è un lavoro veramente di merda. Sangue e merda. Il fetore di un cadavere squartato. No, queste ultime due affermazioni non le enuncio a voce alta, ma credo le intuisca. Forse potrebbe essere persino d’accordo, ma non credo me lo dirà mai.
Rimetto a posto il cellulare di servizio e mi accorgo che su quello privato è arrivato un messaggio vocale mentre era silenziato. Claudia. Non dovrei, non è proprio il posto e il momento, ma di istinto, lo porto all’orecchio. Risento la sua voce, deliziosamente roca. Mi chiede dove sono, perché non l’ho richiamata. Prova a fare l’offesa, ma è triste e confusa, soprattutto confusa dal mio comportamento, pensava non fosse, parole sue, una botta e via.
Ha perfettamente ragione, per lei avrei desiderato qualcosa di diverso.
Ma cosa dovrei fare? Coinvolgerla nel marasma di segreti, bugie e oscurità che è la mia vita? Il mio lavoro?
Penso al giorno in cui mi proposero un incarico anche ‘più interessante’ dell’Anti terrorismo, in cui avrei avuto brillanti prospettive di carriera. Penso alla follia di averlo accettato, ma come trattenersi quando hai l’opportunità di scoprire che sotto la realtà che crediamo di conoscere esiste molto di più e qualcuno deve sorvegliarlo e controllarlo per salvare ogni giorno l’umanità?
Solo dopo ti accorgi della fregatura.
Il capo squadra si affaccia alla porta e mi richiama con un gesto, chiedendo informazioni.
«Tra poco potete smontare.» Gli dico. «I prigionieri li trasferiamo in Sardegna. Li interroghiamo là e poi decideremo cosa farne.»
Se sono fortunati, se collaborano, forse, rivedranno la luce.
Lui fa un cenno di assenso. Non si scompone, per lui è un giorno di lavoro come tanti. Esattamente come per me. C’è chi va in ufficio, chi ripara macchinari, chi risponde al telefono, chi fa questo.
Caccia mostri, con un tempo indeterminato, gli straordinari e l’indennità di missione.
È solo un lavoro come tanti altri.
Poi le sue labbra si inarcano in un sorriso sinistro.
«Sarà un interrogatorio interessante, immagino.»
Sì, ritengo che ‘interessante’ sia una possibile definizione, un appropriato eufemismo.
Rientra, Rimango solo e mi sento all’improvviso smarrito, come se mi mancasse qualcosa. Qualcosa a cui aggrapparmi. Mi guardo intorno, nulla si muove nella notte. Sento in petto un senso di vuoto che non è da me. Purtroppo, non ho dubbi di cosa si tratti. Che stupidaggine.
Rivedo quegli occhi neri che brillano di vita e allegria, mentre ride in risposta a un mio tentativo di essere spiritoso.
Claudia. Cosa dovrebbe avere a che fare con tutto questo? Cosa mai voglio da lei?
Affondare in quegli occhi e perdermici, almeno finché posso. Sognare lei e non questo.
Se fossi a malapena una persona decente dovrei lasciarla stare.
Mi rendo conto che non riuscirò a trattenermi e che risponderò a quel messaggio e che la rivedrò.
No, non sono una brava persona.
Dietro Piazza della Chiesa Nuova, in un vicolo tra Piazza Navona e il Tevere c’è una porta. È piccola, una porta appunto, non un portone. Anonima. C’è solo una targa in bronzo dorato dai caratteri elaborati.
Uno dei tanti inutili enti pubblici sembrerebbe. Ente Pubblico lo siamo a tutti gli effetti, inutili non tanto. Anche se facciamo del nostro meglio per sembrarlo.
Entrando, da quell’anonima porta, si resta sorpresi. Ci si trova in un chiostro a doppia altezza, al di là delle antiche arcate si vede un piccolo giardino in mezzo al quale svetta un leccio. La prima sorpresa di questo posto.
Il mio tesserino apre il tornello senza problemi, il riconoscimento facciale mi identifica come innocuo, anzi benigno e gli uomini della sicurezza mi salutano con opportuna deferenza.
«Signor, Vicedirettore.»
Attraverso il chiostro, circa venti metri, in fondo a destra c’è un’altra porta e le scale, il mio ufficio è al piano superiore. I corridoi sono ancora quasi vuoti, ma qualcuno è già a lavoro e mi osserva meravigliato: il Vicedirettore delle Operazioni che arriva almeno un’ora prima del solito.
Raggiungo il mio ufficio. Digito il codice di sblocco della porta. Appendo la giacca e accendo il computer.
Sedendomi mi torna in mente Claudia, così bella, così giovane e così desiderabile, che mi guarda ancora distesa a letto, i capelli neri scompigliati e sparsi sul cuscino. Mi chiede, con un cenno di sospetto nella voce, perché me ne sto andando via così presto. Perché, quando potrei tornare a distendermi e potremmo fare l’amore un'altra volta alla luce che inizia a filtrare tra le stecche delle serrande?
Sospetta che non le stia dicendo tutto, e ha ragione, sospetta che di mezzo ci sia un'altra donna, e si sbaglia.
I miei segreti sono molto peggiori e me ne dispiace.
Doveva essere il solito nulla, una compagnia piacevole e occasionale, incontrata per caso e altrettanto per caso dimenticata e invece mi è mi è diventato sempre più chiaro, nei pochi giorni passati insieme, che io in quel letto ci sarei tornato volentieri e non avrei voluto andarmene più.
Ottima ragione per fuggire. Ottima ragione per andarsene allo spuntare dell’alba.
Per tentare di pensare ad altro, per non pensare a lei, apro il sistema delle presenze e degli straordinari. Qui sono tutti molto veloci a conteggiarli e sta a me autorizzarli. La maggior parte del mio lavoro in verità e routine. Il resto è comunque più che sufficiente per rendere la mia vita fin troppo interessante.
È il telefono a interrompermi, dopo una decina di minuti.
«Il Direttore vorrebbe vederla, Signore.» A quanto pare anche lui è già in ufficio, ammettendo che lo lasci qualche volta.
A ordine ubbidisco, riprendo la giacca, richiudo bene la porta alle mie spalle, riattraverso i corridoi che iniziano a riempirsi.
Scambio un paio di cortesie con la segretaria del Direttore. Regola fondamentale della vita di qualunque ufficio: le segretarie di direzione vanno sempre trattate con i guanti bianchi. Sempre.
Sono atteso, entro.
L’aspetto del Direttore (la maiuscola è sempre lì e si sente sempre) è all’incirca quello di che ci aspetterebbe dal casting di un nonno giovanile e bonario per una pubblicità con target familiare.
Immagino che quella faccia tranquilla e amichevole, baffi folti e grigi, guance rosee, sempre perfettamente rasate, occhialetti tondi, abbia ingannato infiniti avversari, innumerevoli colleghi, e tanti tanti sottoposti. Un errore che sicuramente è stato mortale per parecchi.
«Signor Direttore.»
«Calligari, buongiorno.» Mi squadra per nulla bonario. «Non stia sempre lì impalato sull’attenti. Si sieda.»
Ubbidisco, e mi allunga una cartellina preoccupantemente bordata di rosso.
«Dia un’occhiata a questa. Credo che la situazione sia ancora gestibile. Mi dica la sua opinione.»
Sfoglio il rapporto, soffermandomi qua e là. Sospiro, questa cartellina puzza di sangue e zolfo e pure di molto sangue. Sento il suo sguardo esaminarmi.
«Sì, credo siamo ancora in tempo. Prima che la cosa esploda.»
«Ottimo, se ne occupi lei allora. Immagino non ci sia tempo da perdere.»
Mi alzo, ancora prima che apra bocca.
Se godersi il centro di Roma è uno dei vantaggi del mio lavoro, in compenso però si passa anche un sacco di tempo a lavorare di notte, in posti sperduti. Scomodi e magari al freddo.
Almeno oggi non piove.
Il furgone di controllo è a un centinaio di metri dalla villetta che abbiamo come obbiettivo.
L’interno è affollato, due operatori, e il sottoscritto bastano a riempirlo.
Sono giorni che controlliamo quella casa, siamo pure riusciti a piazzarci dei microfoni. Sentiamo tutto o quasi. Sono quattro: un uomo e tre donne, una visibilmente incinta, è lei il nostro problema.
Ma siamo in procinto di risolverlo. L’occasione è perfetta. Pochi minuti ancora.
Il finto rider suona al cancello della villetta, che si apre. Non abbiamo rilevato nessun sistema di sicurezza in giardino, solo un normale volumetrico alle finestre che però a quest’ora è spento.
Una delle donne apre la porta, aspettandosi delle pizze. La squadra di intervento irrompe in casa. Incappucciati, armati. Decisi, massicci e incazzati.
Nei microfoni risuonano, per alcuni secondi, urla e intimazioni, cala il silenzio, poi arriva la voce fredda e professionale del capo squadra.
«Quattro trovati, fermi e in sicurezza. Fatta.»
Tutto perfetto e liscio come l’olio. Tutto così perfetto che è ovvio che qualcosa debba succedere. Non ho tempo di meravigliarmi, che nelle cuffie esplode una sequela di bestemmie, urla e imprecazioni seguite dallo staccato di una raffica di Steyr soffocata dal silenziatore.
Pchi secondi, poi cala di nuovo il silenzio, rotto solo dal pianto isterico di una voce femminile, aggiungo io una profanità finale e vengo informato sugli sviluppi.
«CINQUE trovati. Due a terra e tre fermi in sicurezza. Noi tutti OK. Cazzo che bordello.»
«Cinque? E da dove è uscito il quinto?» Chiedo.
«Cinque. Venga a vedere, Signore. Questa non l’ha mai vista neppure lei, scommetto.»
Quando arrivo alla villa mi apre il finto rider, un po’ pallido. Nel salone ci sono l’uomo e due delle donne. Distesi a terra, già ammanettati e bendati. Uno dei ragazzi della squadra, in tenuta da battaglia completa, li sorveglia, si è tolto solo il cappuccio e la visiera del casco.
«Qui, Signore.» Mi chiama il capo squadra, da una delle camere da letto.
C’è un forte odore di bruciato, che ne copre parzialmente un altro, più pungente, che impiego alcuni secondi per riconoscere. Storco la bocca.
La stanza è ridotta peggio di un mattatoio. Rimango sulla soglia per non sporcarmi le scarpe di sangue e per non finire sopraffatto dalla puzza.
Il capo squadra lo abbiamo reclutato anni fa, era appena tornato in Italia, dopo essersene andato a combattere coi Curdi in cerca di avventure. Ne aveva trovate abbastanza, da quello che sapevo, da fornire incubi a una persona normale per il resto della vita, ma a lui evidentemente non era bastato.
Fermo in mezzo alla stanza, piantato a gambe larghe, il fucile mitragliatore puntato a terra, quasi mi sorride, facendo un cenno verso il letto. Vi giace, pallido ed esangue, il cadavere di una donna sui trent’anni. Capelli chiari, corti. Il viso deformato da un rictus e gli occhi sbarrati puntati nel vuoto. È praticamente sventrata, il letto è zuppo di sangue, gli schizzi sono arrivati al soffitto.
«Ha presente Alien? ‘Na cosa mai vista… si vede che ha capito in qualche maniera di essere fatto e ha provato a vedere se riusciva a cavarsela…» Tira fuori il pacchetto delle sigarette da sotto il giubbotto antiproiettile, me lo offre con un gesto, rifiuto, se ne accende una, non mi piace l’odore del fumo, ma di sicuro meglio di quello che emana da un corpo umano sbudellato.
L’autore di tanto scempio è sbattuto contro un angolo, preso in pieno da una raffica di mitragliatrice. È piccolo, poco meno di un gatto e doveva essere brutto anche prima di finire maciullato dai proiettili.
«Direi che è andato, in maniera definitiva. È successo tutto in un attimo. La donna incinta stava sul letto, quando ha iniziato a urlare e quel bastardo gli è spuntato dalla pancia proprio come nel film e si è lanciato verso la porta.»
Gli faccio notare che in quel film, la sua parte la aveva una gran bella fica.
Ride, non è una persona che si fa domande e ha dubbi. Per questo è perfetto. Gli è stato dato un ordine e lo ha eseguito. Altro non gli interessa. Cosa fosse quell’affare, cosa ci facesse lì, cosa significa tutto questo, non sono semplicemente cose che non lo interessano. Pensa a Sigourney Weaver.
Faccio un passo indietro. Sopra lo stipite la carta da parati è bruciata e ancora fumante. Sotto vi era nascosto un vecchio crocifisso metallico che si è parzialmente fuso e sembra ancora rovente.
«È quello che vi ha aiutato» lo indico. «Deve averlo rallentato.»
Cazzo se odio i satanisti e i demoni. Demoni e diavoli sono quasi al top della lista delle creature soprannaturali che non sopporto. Subito sotto le fate.
Esco in giardino e faccio una breve chiamata sulla linea protetta al Direttore per avvisarlo che la situazione è sotto controllo, che è andato, quasi, tutto bene e che per l’ennesima volta abbiamo sventato una minaccia soprannaturale al paese e che le istituzioni democratiche sono salve o almeno non messe peggio del solito. Insomma, abbiamo fatto il nostro lavoro. Anche se è un lavoro veramente di merda. Sangue e merda. Il fetore di un cadavere squartato. No, queste ultime due affermazioni non le enuncio a voce alta, ma credo le intuisca. Forse potrebbe essere persino d’accordo, ma non credo me lo dirà mai.
Rimetto a posto il cellulare di servizio e mi accorgo che su quello privato è arrivato un messaggio vocale mentre era silenziato. Claudia. Non dovrei, non è proprio il posto e il momento, ma di istinto, lo porto all’orecchio. Risento la sua voce, deliziosamente roca. Mi chiede dove sono, perché non l’ho richiamata. Prova a fare l’offesa, ma è triste e confusa, soprattutto confusa dal mio comportamento, pensava non fosse, parole sue, una botta e via.
Ha perfettamente ragione, per lei avrei desiderato qualcosa di diverso.
Ma cosa dovrei fare? Coinvolgerla nel marasma di segreti, bugie e oscurità che è la mia vita? Il mio lavoro?
Penso al giorno in cui mi proposero un incarico anche ‘più interessante’ dell’Anti terrorismo, in cui avrei avuto brillanti prospettive di carriera. Penso alla follia di averlo accettato, ma come trattenersi quando hai l’opportunità di scoprire che sotto la realtà che crediamo di conoscere esiste molto di più e qualcuno deve sorvegliarlo e controllarlo per salvare ogni giorno l’umanità?
Solo dopo ti accorgi della fregatura.
Il capo squadra si affaccia alla porta e mi richiama con un gesto, chiedendo informazioni.
«Tra poco potete smontare.» Gli dico. «I prigionieri li trasferiamo in Sardegna. Li interroghiamo là e poi decideremo cosa farne.»
Se sono fortunati, se collaborano, forse, rivedranno la luce.
Lui fa un cenno di assenso. Non si scompone, per lui è un giorno di lavoro come tanti. Esattamente come per me. C’è chi va in ufficio, chi ripara macchinari, chi risponde al telefono, chi fa questo.
Caccia mostri, con un tempo indeterminato, gli straordinari e l’indennità di missione.
È solo un lavoro come tanti altri.
Poi le sue labbra si inarcano in un sorriso sinistro.
«Sarà un interrogatorio interessante, immagino.»
Sì, ritengo che ‘interessante’ sia una possibile definizione, un appropriato eufemismo.
Rientra, Rimango solo e mi sento all’improvviso smarrito, come se mi mancasse qualcosa. Qualcosa a cui aggrapparmi. Mi guardo intorno, nulla si muove nella notte. Sento in petto un senso di vuoto che non è da me. Purtroppo, non ho dubbi di cosa si tratti. Che stupidaggine.
Rivedo quegli occhi neri che brillano di vita e allegria, mentre ride in risposta a un mio tentativo di essere spiritoso.
Claudia. Cosa dovrebbe avere a che fare con tutto questo? Cosa mai voglio da lei?
Affondare in quegli occhi e perdermici, almeno finché posso. Sognare lei e non questo.
Se fossi a malapena una persona decente dovrei lasciarla stare.
Mi rendo conto che non riuscirò a trattenermi e che risponderò a quel messaggio e che la rivedrò.
No, non sono una brava persona.