Non ho detto gioia
Ho le mani dietro la testa, creo costellazioni inesistenti sul buio soffitto. Ho il petto nudo, le lenzuola rigano i bordi della fessura passata che ho incisa sulla schiena. Sembra inchiostro buttato lì per caso, eppure quel nero è così attraente e me lo immagino.
Immagino lui che mi sfiora timoroso i bordi della ferita, sento le sue dita fredde sulla pelle. Inarco la schiena mentre i suoi baci accompagnano un sospiro sfuggito dalle mie labbra, mi guida in un onirico piacere. Ho le labbra secche e lui riesce a bagnarle sussurrando il mio nome. Si sofferma sull’ultima lettera e la ricollega alla a, come se fosse un suono francese troppo difficile per la mia povera mente. Tortura, dolce tortura.
La sua mano affondata tra i miei capelli e i suoi occhi incatenati ai miei. Accecato dal desiderio, percepisco un soffio proveniente dalla foresta spalancata: accompagna delle lacrime silenti che sfuggono al controllo della mia notte.
Le note conducono il dolore. Mia sorella si sta esercitando con la chitarra, è l’una di notte e lei sta suonando. Di solito quando i genitori non ci sono i ragazzini ne approfittano per invitare amici e fare festa e invece lei è lì e suona. Forse quando restare soli è la normalità diventa provocante arrendersi a ciò che è normale fare.
Le frasi di Concato chiedono compagnia, riempiono la stanza e io piango per le nostre vite violentate, che sperano in risposte.
Io piango quando sento quegli occhi nei miei. Io piango perché so che è tutta una finzione. Piango sul tempo trascurato che ci riserva il domani.
Io non piango, eppure ora casco da una scogliera d’attesa per accogliere le onde. La brezza marina mi stuzzica le vesti e mi porta ad immergermi in un mare d’ infinito, corro in un prato di viole blu e le calpesto.
Mi immergo nel destino e mi graffio con le sue spine.
Ora piango, nel buio della stanza e sento i fantasmi delle sue labbra, dei suoi tocchi. Lui non è ancora qui. Mi chiedo se tornerà, mi chiedo se vale la pena temere il suo ritorno.
Prendo in mano il telefono, vado a memoria per accedere ai contatti e osservo il suo numero, ogni singolo numero impresso nei ricordi e sono convinto che domani me li dimenticherò, per la prima volta.
Voglio sentire la scossa dell’impulso, tuttavia le conseguenze ballano fra stelle dipinte nella mia mente e riportate con maestria sul soffitto. Vogliono far centro all’orgoglio e beccano uno stropicciato cuore. Mi sembra tutto noia, noia assillante e ingenua. Noia, noia, noia e no…non ho detto gioia ma noia, noia, noia. Maledetta.
Ogni sera quest’eco ritorna, pronto a scagliarsi nel buio perso. Respiro piano per non fare rumore, ma i pensieri sarebbero in grado di sovrastare anche un urlo.
E allora ci provo, urlo. Il viso si stira, i denti sbattono e la voce riempie lo spazio svogliato della mia camera.
Emily bussa alla porta, chiusa a chiave.
Mi chiama, urla.
Le farà bene, penso.
Immagino lui che mi sfiora timoroso i bordi della ferita, sento le sue dita fredde sulla pelle. Inarco la schiena mentre i suoi baci accompagnano un sospiro sfuggito dalle mie labbra, mi guida in un onirico piacere. Ho le labbra secche e lui riesce a bagnarle sussurrando il mio nome. Si sofferma sull’ultima lettera e la ricollega alla a, come se fosse un suono francese troppo difficile per la mia povera mente. Tortura, dolce tortura.
La sua mano affondata tra i miei capelli e i suoi occhi incatenati ai miei. Accecato dal desiderio, percepisco un soffio proveniente dalla foresta spalancata: accompagna delle lacrime silenti che sfuggono al controllo della mia notte.
Le note conducono il dolore. Mia sorella si sta esercitando con la chitarra, è l’una di notte e lei sta suonando. Di solito quando i genitori non ci sono i ragazzini ne approfittano per invitare amici e fare festa e invece lei è lì e suona. Forse quando restare soli è la normalità diventa provocante arrendersi a ciò che è normale fare.
Le frasi di Concato chiedono compagnia, riempiono la stanza e io piango per le nostre vite violentate, che sperano in risposte.
Io piango quando sento quegli occhi nei miei. Io piango perché so che è tutta una finzione. Piango sul tempo trascurato che ci riserva il domani.
Io non piango, eppure ora casco da una scogliera d’attesa per accogliere le onde. La brezza marina mi stuzzica le vesti e mi porta ad immergermi in un mare d’ infinito, corro in un prato di viole blu e le calpesto.
Mi immergo nel destino e mi graffio con le sue spine.
Ora piango, nel buio della stanza e sento i fantasmi delle sue labbra, dei suoi tocchi. Lui non è ancora qui. Mi chiedo se tornerà, mi chiedo se vale la pena temere il suo ritorno.
Prendo in mano il telefono, vado a memoria per accedere ai contatti e osservo il suo numero, ogni singolo numero impresso nei ricordi e sono convinto che domani me li dimenticherò, per la prima volta.
Voglio sentire la scossa dell’impulso, tuttavia le conseguenze ballano fra stelle dipinte nella mia mente e riportate con maestria sul soffitto. Vogliono far centro all’orgoglio e beccano uno stropicciato cuore. Mi sembra tutto noia, noia assillante e ingenua. Noia, noia, noia e no…non ho detto gioia ma noia, noia, noia. Maledetta.
Ogni sera quest’eco ritorna, pronto a scagliarsi nel buio perso. Respiro piano per non fare rumore, ma i pensieri sarebbero in grado di sovrastare anche un urlo.
E allora ci provo, urlo. Il viso si stira, i denti sbattono e la voce riempie lo spazio svogliato della mia camera.
Emily bussa alla porta, chiusa a chiave.
Mi chiama, urla.
Le farà bene, penso.