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Autore: MoreUmmagumma    19/11/2024    3 recensioni
Lasciare il proprio Paese d'origine non è una cosa facile, specialmente quando si è costretti.
Breve introspezione di una ragazza che ha lasciato tutto per ricominciare da capo una nuova vita.
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“Questo testo partecipa al contest Le quattro stagioni si raccontano, II ed. indetto da elli2998 e inky_clouds sul forum di EFP”
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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“Questo testo partecipa al contest Le quattro stagioni si raccontano, II ed. indetto da elli2998 e inky_clouds sul forum di EFP”

Pacchetto Primavera 2:

  • Situazione tipica della primavera: una giornata fresca e soleggiata
  • Bevanda: infuso ai fiori di ibisco
  • Oggetto: un colorato kit per il ricamo

 

 

SPRING IS WHEN WE DIE

 

Il fischio della teiera la risvegliò da un sonno tutt'altro che profondo; si era appisolata sulla poltrona e come ormai accadeva da sei mesi a quella parte gli incubi si facevano più persistenti ogni notte: sognava casa sua, quel piccolo paesino sperduto tra le montagne al confine con la Cina, dove il freddo non cessava mai e la neve era perennemente striata di rosso; uomini con i fucili, urla di donne e di bambini, padri che venivano prelevati nel cuore della notte dai loro letti senza fare più ritorno. 

Da quando aveva disertato la Corea del Nord, Jihyun aveva sviluppato però una sensibilità straordinaria nell’apprezzare le piccole cose della vita: il sonno era una di quelle ma ultimamente trovava un certo compiacimento nell’annusare i fiori freschi, ascoltare il crepitio della puntina di un giradischi e il profumo di qualcosa di buono che veniva cucinato. 

E ora anche in una tazza di tè fumante. Versò dentro l'acqua calda lasciando che l’infuso sprigionasse il colore rosso intenso che come sangue si espandeva in modo fluido nella tazza. 

Quante volte aveva visto quel colore in passato, fatto di povertà, morte e terrore, dove persino le esecuzioni erano all’ordine del giorno e sotto gli occhi di tutti. Ricordava benissimo la prima volta che ne vide una: aveva sei anni, l’uomo in questione si era macchiato del reato di aver aiutato altri nord-coreani a superare il confine. Ricordò di non aver provato niente. Come avrebbe potuto capire una bambina di quell’età? Solo più in là con gli anni, quando acquisì la consapevolezza della vita e della morte e della situazione in cui versavano lei e i suoi connazionali, pianse le sue prime lacrime in ricordo di quell’uomo, e per tutti quelli che vennero dopo di lui. 

La primavera le aveva sempre fatto un certo effetto: la fame prendeva il sopravvento, non un topo da mangiare, solo cortecce, radici e foglie, quando queste non erano velenose.

Tra gli abitanti del suo Paese si diceva che la primavera fosse la stagione della morte: mentre tutto il mondo rinasceva, loro pativano la fame, vivevano nel terrore di non vedere mai l’alba e ogni giorno era una continua lotta alla sopravvivenza, in un Paese dove tutto è di tutti ma in realtà di nessuno.

Si risedette comoda sulla poltrona e guardò fuori dalla finestra: i raggi del sole illuminavano il piccolo giardino colmo di pratoline bianche e un lieve venticello smuoveva le fronde degli alberi. Diede un sorso alla bevanda calda, inebriandosi del profumo agrodolce dell’ibisco, che sapeva di onde di mare e di foresta pluviale. Non che sapesse che odore avessero, ma così se le immaginava. 

A casa non aveva mai avuto occasione di bere nulla di più semplice e di così buono. Quando le diceva bene sua mamma le preparava una bevanda di ginseng e riso glutinoso, che per la verità non le era mai piaciuto, ma se c’era era fonte di gioia, perché significava che qualcosa di bello era accaduto. 

La mamma.

Quanto le mancava.

Ripensò all’ultima volta in cui la vide, prima che i militari irruppero in casa loro con i fucili, con l’ordine di deportare la sua famiglia in un campo di concentramento per alto tradimento contro il Regime: le donò il suo piccolo kit per il cucito rosso, l’unica cosa che avesse mai posseduto, di nascosto da tutti, strappandole la promessa di mantenerlo con grande riguardo e di renderlo il simbolo della sua libertà. 

Lei riuscì a scappare.

Non seppe nemmeno come avesse trovato la forza, mentre nascosta sotto le assi del pavimento osservava la sua famiglia subire ogni tipo di tortura, prima di sparire per sempre dalla sua vista.

Poi ricordava il freddo, la fame, i vestiti perennemente bagnati mentre di notte attraversava il fiume Tumen, che l’avrebbe portata in Cina.
Accarezzò delicatamente l’astuccetto in pelle e lo aprì, osservandone il contenuto: ditali, aghi di ogni dimensione, forbicine e poi fili di tutti i colori, come un arcobaleno. Andò poi a prendere il suo paio di jeans preferito, il primo acquisto che fece una volta arrivata negli Stati Uniti, riposto con cura dentro un cassetto e cominciò a ricamarvi sopra dei fiori colorati: rossi, gialli, blu, fucsia… il suo mondo, fino ad allora grigio, aveva finalmente preso colore e se avesse potuto se li sarebbe ricamati perfino sulla pelle. 

Quando completò la sua opera li indossò e decise che la giornata era troppo bella per restarsene chiusa dentro casa. 

La primavera era quando si moriva, ma in quell’aprile di quel nuovo anno, ferma sulla soglia della sua nuova casa, Jihyun rimase qualche secondo a contemplare il momento: i raggi del sole le solleticavano il viso, colorando di rosa le sue gote bianche e un venticello fresco che profumava di fiori e libertà si insinuò tra i suoi capelli d’ebano, facendoli ondeggiare. 

Come il fiore d’ibisco che fiorisce ogni giorno sorrise alla sua nuova vita, che cominciava a venticinque anni, in quella sua primissima primavera da donna libera e si incamminò verso l’infinito. 

Più viva che mai.

  
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