Il Ricettacolo dei Sogni
Apro gli occhi. La prima cosa che vedo è il palo della flebo che svetta sopra di me come un albero. È mattino, lo capisco dalla luce soffusa che filtra attraverso i buchi delle tapparelle. Provo a muovermi per mettermi a sedere ma, nonostante il mio essere pelle e ossa, il mio corpo sembra pesante come un sasso, quindi ci rinuncio. Mi gratto una gamba e sbadiglio, poi ho un sussulto: l’infermiera buona entra d’improvviso nella stanza e mi saluta sorridente mentre va ad aprire la finestra: “Buongiorno, pulcino”, dice.
Ricambio con un sorriso stanco e la osservo sedersi accanto a me e aprire il rubinetto che ho sul braccio destro. E’ tutta vestita di bianco, ed è sempre gentile con me. E’ il mio angelo custode. Mentre riempie qualche provetta del mio sangue, mi sento come se ancora un po’ di vita venisse risucchiata per sempre dal mio corpo, e guardo tutto quel rosso rugginoso con un misto di nostalgia e orgoglio. “Sono viva anche oggi”, dico.
L’angelo bianco mi fa un breve sorriso enigmatico, poi se ne va via, veloce e lieve come è arrivato, e al suo posto compare l’infermiera cattiva – il poliziotto - che come sempre parte con l’interrogatorio: “Come ti senti? Come hai dormito? Sei sudata? Cambiamo il pigiama?”
Io le rispondo che sto bene (relativamente) e che non ce n’è bisogno, ma lei ignora le mie risposte e mi aiuta a cambiarmi lo stesso. Le sue mani sono fredde, e i suoi gesti impazienti. Lei è la stessa infermiera che mi rimprovera aspramente tutte le volte che muovo il mio braccio-acquedotto fermando il flusso della soluzione fisiologica che mi mantiene idratata. Fosse per lei mi legherebbe le mani al letto con le manette. Poco importa che io soffra come se mi stesse andando tutto in cancrena. Poco importa che questo sia effettivamente il minore dei miei mali. Vorrei chiederle di alzarmi lo schienale del letto, ma non lo faccio perché ho la sensazione che tutto per lei sia una seccatura. Invece sprofondo di nuovo nel cuscino e mi riaddormento.
Al mio risveglio l’ospedale pulsa di vita come un essere animato: a seconda dei momenti me lo raffiguro o come un mostro gigante che mastica lentamente le persone per poi inghiottirle, oppure come una metropoli affollata e rumorosa, dove le vite di migliaia di persone si sfiorano continuamente senza incrociarsi mai. L’ospedale è il mio piccolo mondo addomesticato che, quando non mi fa paura, mi dà una sensazione di conforto. Dalla mia postazione sento rumori di ogni tipo: porte che sbattono di continuo, passi di infermieri che corrono, il rumore tremolante delle rotelle di tanti alberi-flebo nel corridoio. Getti d’acqua nei bagni, chiacchiericci sommessi, l’ipnotico sciabattare di sconosciuti in pigiama. E poi le notizie del telegiornale strillate dal salotto, i fischi delle gomme delle carrozzine che sfregano sul pavimento… Francamente non è che sia il luogo ideale dove riposare. Ma ho scoperto che agli ammalati non è concesso lamentarsi troppo. Al contrario, devono essere pazienti.
Dopo la prima visita del mattino, il mio finto padre viene a darmi un bacio sulla fronte e mi chiede se ho voglia di fare un giro. Gli dico di sì e lui mi aiuta a spostarmi sulla mia Lamborghini a due ruote. Quando il corridoio è sgombro riesco anche a toccare gli 8 km all’ora con lui al volante, ma oggi c’è un via-vai incredibile a occupare la carreggiata: malati che paiono sonnambuli, giovani specializzandi aspiranti al camice bianco, parenti e amici con i cappotti sul braccio che sbuffano dal caldo. Non ci sono stagioni in ospedale: se stai bene muori di caldo mentre se sei malato muori di freddo anche se fuori è estate. Passando vicino alle macchinette, noto il solito circolo di mamme, zie e nonne abbattute che si consolano a vicenda sorseggiando caffè al ginseng e sgranocchiando taralli. Dopodiché faccio lo slalom in mezzo a un gruppo di anziani in carrozzina che guarda fisso la TV urlando cose incomprensibili a voce troppo alta per le mie giovani orecchie, troppo bassa per quelle dei loro coetanei. Infine parcheggio in biblioteca, la mia destinazione abituale, che altro non è che un grande tavolo rotondo, di plastica, con qualche pila di riviste.
Dopo dieci minuti di volti patinati sono già annoiata, quindi gironzolo sulla mia sedia mentre il mio finto padre ha gli occhi incollati alla TV. Lo chiamo finto padre perché sono stata adottata, e l’ospedale è la mia seconda casa perché ho l’AIDS. Sono nata così. Quando nomino la mia malattia la maggior parte delle persone apre la bocca come un merluzzo e sembra dimenticarsi di richiuderla. Poi fanno qualche passo indietro, si sfregano le mani sui pantaloni sperando di ripulirle un po’ dai germi, e mormorano un imbarazzatissimo “Mi dispiace”, in attesa di trovarsi abbastanza lontano da me per tirare fuori una boccetta di amuchina senza però sembrare maleducate. Ma ci ho fatto l’abitudine, tanto che ormai mi fanno quasi pena. Quasi.
Come sempre, alla fine mi ritrovo a guardare la mappa dell’edificio appesa alla parete anche se la conosco a memoria. Ogni anfratto di questa piccola città dentro la città mi è noto. Il salotto non è poi così diverso da un cinema, il bar al pianterreno è paragonabile a un ristorante e invece della chiesa c’è una cappella in fondo al primo piano. L’obitorio nel seminterrato assomiglia a un silenzioso cimitero, tutto il contrario del pronto soccorso, caotico come un circo. Il tetto, sul quale una grande “H” segna il punto d’atterraggio per gli elicotteri, è il nostro mini-aeroporto, e i freddi sotterranei, dove stanno i macchinari per le risonanze, le TAC e le ecografie, sono di fatto una specie di Luna Park. Il reparto maternità non è altro che una casa degli orrori, da cui provengono strilli acuti e angosciosi a tutte le ore.
Le amicizie che si stringono in un posto come questo sono già in partenza molto intime, perché non ci sono filtri a farti da schermo: qui la vita non assomiglia nemmeno per finta a Instagram. Sei lì, in pigiama, spettinato, depresso/annoiato/arrabbiato e sofferente, non ti sei messo il profumo, se sei fortunato ti sei dato una passata con il deodorante, ma più spesso no.
Sei solo quello che sei. Forse è per questo che i malati spesso vengono stigmatizzati: perché non fingono bene di essere felici. Vicino a loro però, i sani si accorgono che i malati sono più veri di loro, e questo li obbliga a scappare via, semplicemente perché non riescono a reggere il confronto… Oltre al palpabile disagio che in ogni caso provano nel rendersi conto, tutt’un tratto, di aver varcato la soglia invisibile dell’intimità di una persona: la privacy è una barriera che viene automaticamente abbattuta una volta varcata la porta di un ospedale, ma a volte ce ne si dimentica. Agli outsiders pare di entrare in un mondo dove la distanza con la vita reale viene brutalmente annullata, e questo spaventa chi vive in superficie. Invece, noi insiders, abitanti di questa piccola città, sappiamo bene che, proprio per questo, l’ospedale è il ricettacolo dei sogni più grande che esista.
Nessuno lo direbbe, nessuno ne parla, probabilmente perché quasi nessuno se ne accorge in primo luogo, ma la speranza contro ogni speranza e lo sconfinato amore per la vita albergano qui. In una sola frase: “Tutto quello che farò non appena uscirò di qui”.
E allora casa è l’America. La scuola è la Luna. Il mare è Marte.
Tutto il resto è l’universo intero che ti chiama, suadente, e ti fa mille promesse, e tu non fai affatto fatica a credere che sarà capace di mantenerle tutte. Perché è l’infinito, quell’oceano di possibilità che ti accarezza il pensiero, quelle migliaia di persone che devi ancora incontrare. E tu sai che sarà bellissimo. O che lo è stato. E se non è importante questo…
L’ospedale è il labirinto delle chimere. Spesso trovare la via d’uscita è difficile, talvolta impossibile. Ma, come ho già detto, noi sognatori siamo pazienti. Impariamo ad esserlo perché dobbiamo esserlo, e sappiamo che il mondo non finisce qui, all’interno di questi spazi bianchi.
Quaggiù, in questa piccola città nascosta, c’è una fabbrica di sogni. E non tutti sono ancora infranti: di certo i miei, nonostante tutta la mia miseria, ancora non lo sono. E anche questo è importante…
Scivolo goffamente sul mio biciclo verso la finestra. Gli uccellini cinguettano spensierati (o almeno così mi piace pensare) e un raggio di sole mi bacia le guance. Chiudo gli occhi perdendo il senso del tempo, dello spazio. Volo via con un passerotto verso l’orizzonte. Poi d’un tratto il mio veicolo inizia a muoversi da sé, e io mi lascio trasportare chissà dove, senza più il desiderio di rialzare le palpebre. Qualcuno bisbiglia qualcosa a qualcun altro. Ho gli occhi chiusi ma vedo mille colori. Poi sento delle mani sudate e forti prendermi per le braccia e poi sostenermi tutto il corpo. Volo per un po’ e infine atterro su una nuvola. La mia testa sprofonda nel morbido, i colori si spengono… Qualcuno mi accarezza la testa. So chi è. E’ mio padre - non quello finto - e sulle mie labbra spunta un lieve sorriso stanco. Un attimo dopo ho già ripreso a sognare.
Ricambio con un sorriso stanco e la osservo sedersi accanto a me e aprire il rubinetto che ho sul braccio destro. E’ tutta vestita di bianco, ed è sempre gentile con me. E’ il mio angelo custode. Mentre riempie qualche provetta del mio sangue, mi sento come se ancora un po’ di vita venisse risucchiata per sempre dal mio corpo, e guardo tutto quel rosso rugginoso con un misto di nostalgia e orgoglio. “Sono viva anche oggi”, dico.
L’angelo bianco mi fa un breve sorriso enigmatico, poi se ne va via, veloce e lieve come è arrivato, e al suo posto compare l’infermiera cattiva – il poliziotto - che come sempre parte con l’interrogatorio: “Come ti senti? Come hai dormito? Sei sudata? Cambiamo il pigiama?”
Io le rispondo che sto bene (relativamente) e che non ce n’è bisogno, ma lei ignora le mie risposte e mi aiuta a cambiarmi lo stesso. Le sue mani sono fredde, e i suoi gesti impazienti. Lei è la stessa infermiera che mi rimprovera aspramente tutte le volte che muovo il mio braccio-acquedotto fermando il flusso della soluzione fisiologica che mi mantiene idratata. Fosse per lei mi legherebbe le mani al letto con le manette. Poco importa che io soffra come se mi stesse andando tutto in cancrena. Poco importa che questo sia effettivamente il minore dei miei mali. Vorrei chiederle di alzarmi lo schienale del letto, ma non lo faccio perché ho la sensazione che tutto per lei sia una seccatura. Invece sprofondo di nuovo nel cuscino e mi riaddormento.
Al mio risveglio l’ospedale pulsa di vita come un essere animato: a seconda dei momenti me lo raffiguro o come un mostro gigante che mastica lentamente le persone per poi inghiottirle, oppure come una metropoli affollata e rumorosa, dove le vite di migliaia di persone si sfiorano continuamente senza incrociarsi mai. L’ospedale è il mio piccolo mondo addomesticato che, quando non mi fa paura, mi dà una sensazione di conforto. Dalla mia postazione sento rumori di ogni tipo: porte che sbattono di continuo, passi di infermieri che corrono, il rumore tremolante delle rotelle di tanti alberi-flebo nel corridoio. Getti d’acqua nei bagni, chiacchiericci sommessi, l’ipnotico sciabattare di sconosciuti in pigiama. E poi le notizie del telegiornale strillate dal salotto, i fischi delle gomme delle carrozzine che sfregano sul pavimento… Francamente non è che sia il luogo ideale dove riposare. Ma ho scoperto che agli ammalati non è concesso lamentarsi troppo. Al contrario, devono essere pazienti.
Dopo la prima visita del mattino, il mio finto padre viene a darmi un bacio sulla fronte e mi chiede se ho voglia di fare un giro. Gli dico di sì e lui mi aiuta a spostarmi sulla mia Lamborghini a due ruote. Quando il corridoio è sgombro riesco anche a toccare gli 8 km all’ora con lui al volante, ma oggi c’è un via-vai incredibile a occupare la carreggiata: malati che paiono sonnambuli, giovani specializzandi aspiranti al camice bianco, parenti e amici con i cappotti sul braccio che sbuffano dal caldo. Non ci sono stagioni in ospedale: se stai bene muori di caldo mentre se sei malato muori di freddo anche se fuori è estate. Passando vicino alle macchinette, noto il solito circolo di mamme, zie e nonne abbattute che si consolano a vicenda sorseggiando caffè al ginseng e sgranocchiando taralli. Dopodiché faccio lo slalom in mezzo a un gruppo di anziani in carrozzina che guarda fisso la TV urlando cose incomprensibili a voce troppo alta per le mie giovani orecchie, troppo bassa per quelle dei loro coetanei. Infine parcheggio in biblioteca, la mia destinazione abituale, che altro non è che un grande tavolo rotondo, di plastica, con qualche pila di riviste.
Dopo dieci minuti di volti patinati sono già annoiata, quindi gironzolo sulla mia sedia mentre il mio finto padre ha gli occhi incollati alla TV. Lo chiamo finto padre perché sono stata adottata, e l’ospedale è la mia seconda casa perché ho l’AIDS. Sono nata così. Quando nomino la mia malattia la maggior parte delle persone apre la bocca come un merluzzo e sembra dimenticarsi di richiuderla. Poi fanno qualche passo indietro, si sfregano le mani sui pantaloni sperando di ripulirle un po’ dai germi, e mormorano un imbarazzatissimo “Mi dispiace”, in attesa di trovarsi abbastanza lontano da me per tirare fuori una boccetta di amuchina senza però sembrare maleducate. Ma ci ho fatto l’abitudine, tanto che ormai mi fanno quasi pena. Quasi.
Come sempre, alla fine mi ritrovo a guardare la mappa dell’edificio appesa alla parete anche se la conosco a memoria. Ogni anfratto di questa piccola città dentro la città mi è noto. Il salotto non è poi così diverso da un cinema, il bar al pianterreno è paragonabile a un ristorante e invece della chiesa c’è una cappella in fondo al primo piano. L’obitorio nel seminterrato assomiglia a un silenzioso cimitero, tutto il contrario del pronto soccorso, caotico come un circo. Il tetto, sul quale una grande “H” segna il punto d’atterraggio per gli elicotteri, è il nostro mini-aeroporto, e i freddi sotterranei, dove stanno i macchinari per le risonanze, le TAC e le ecografie, sono di fatto una specie di Luna Park. Il reparto maternità non è altro che una casa degli orrori, da cui provengono strilli acuti e angosciosi a tutte le ore.
Le amicizie che si stringono in un posto come questo sono già in partenza molto intime, perché non ci sono filtri a farti da schermo: qui la vita non assomiglia nemmeno per finta a Instagram. Sei lì, in pigiama, spettinato, depresso/annoiato/arrabbiato e sofferente, non ti sei messo il profumo, se sei fortunato ti sei dato una passata con il deodorante, ma più spesso no.
Sei solo quello che sei. Forse è per questo che i malati spesso vengono stigmatizzati: perché non fingono bene di essere felici. Vicino a loro però, i sani si accorgono che i malati sono più veri di loro, e questo li obbliga a scappare via, semplicemente perché non riescono a reggere il confronto… Oltre al palpabile disagio che in ogni caso provano nel rendersi conto, tutt’un tratto, di aver varcato la soglia invisibile dell’intimità di una persona: la privacy è una barriera che viene automaticamente abbattuta una volta varcata la porta di un ospedale, ma a volte ce ne si dimentica. Agli outsiders pare di entrare in un mondo dove la distanza con la vita reale viene brutalmente annullata, e questo spaventa chi vive in superficie. Invece, noi insiders, abitanti di questa piccola città, sappiamo bene che, proprio per questo, l’ospedale è il ricettacolo dei sogni più grande che esista.
Nessuno lo direbbe, nessuno ne parla, probabilmente perché quasi nessuno se ne accorge in primo luogo, ma la speranza contro ogni speranza e lo sconfinato amore per la vita albergano qui. In una sola frase: “Tutto quello che farò non appena uscirò di qui”.
E allora casa è l’America. La scuola è la Luna. Il mare è Marte.
Tutto il resto è l’universo intero che ti chiama, suadente, e ti fa mille promesse, e tu non fai affatto fatica a credere che sarà capace di mantenerle tutte. Perché è l’infinito, quell’oceano di possibilità che ti accarezza il pensiero, quelle migliaia di persone che devi ancora incontrare. E tu sai che sarà bellissimo. O che lo è stato. E se non è importante questo…
L’ospedale è il labirinto delle chimere. Spesso trovare la via d’uscita è difficile, talvolta impossibile. Ma, come ho già detto, noi sognatori siamo pazienti. Impariamo ad esserlo perché dobbiamo esserlo, e sappiamo che il mondo non finisce qui, all’interno di questi spazi bianchi.
Quaggiù, in questa piccola città nascosta, c’è una fabbrica di sogni. E non tutti sono ancora infranti: di certo i miei, nonostante tutta la mia miseria, ancora non lo sono. E anche questo è importante…
Scivolo goffamente sul mio biciclo verso la finestra. Gli uccellini cinguettano spensierati (o almeno così mi piace pensare) e un raggio di sole mi bacia le guance. Chiudo gli occhi perdendo il senso del tempo, dello spazio. Volo via con un passerotto verso l’orizzonte. Poi d’un tratto il mio veicolo inizia a muoversi da sé, e io mi lascio trasportare chissà dove, senza più il desiderio di rialzare le palpebre. Qualcuno bisbiglia qualcosa a qualcun altro. Ho gli occhi chiusi ma vedo mille colori. Poi sento delle mani sudate e forti prendermi per le braccia e poi sostenermi tutto il corpo. Volo per un po’ e infine atterro su una nuvola. La mia testa sprofonda nel morbido, i colori si spengono… Qualcuno mi accarezza la testa. So chi è. E’ mio padre - non quello finto - e sulle mie labbra spunta un lieve sorriso stanco. Un attimo dopo ho già ripreso a sognare.