Come le dita sul pianoforte
Ho sempre pensato che si dovesse andare veloci.
Ho sempre pensato che “presto” fosse sinonimo di urgenza e che “vivace” fosse sinonimo di eccitato. Ho sempre pensato che la corsa veloce fosse meglio di quella di resistenza, se proprio dovevo correre. L’ho sempre pensato, ho sempre voluto che fosse così. Tutto e subito. Come quando, alla fine, col fiatone, tracanni d'un sol sorso quanta più acqua riesci dalla bottiglia. Come il terzo movimento della Moonlight Sonata, che rincorre e sorpassa il primo e gli fa pure un gestaccio senza voltarsi. Come lo suonavo io.
L'altalena è bella, proprio come gli albertini, ma solo quando ondeggia follemente e senti il vento sferzarti la faccia, e un piccolo vuoto allo stomaco nel discendere all'indietro. Nel punto più alto, vedi il mondo un po' più grande, un po' più come è, e un po' meno come sembra. Quando vado sull'altalena mi sento il gabbiano Jonathan Livingston che freme in attesa di spiccare il volo. Ci penso su, e dice il vero: “Più alto vola il gabbiano e più vede lontano”.
Quando volo sulla tastiera sono la picchiata da mille metri, sono potenza e gioia, e vado oltre. Ancora un po' oltre. Giusto un po' più in là. Appena... solo un poco ancora. Ecco. Perfetto.
Ho sempre pensato che mandare un messaggio, avendo la conferma di lettura subito, fosse qualcosa di simile alla velocità perfetta: esserci, esser là, essere perfettamente in contatto.
Ho sempre pensato che i libri dicessero la verità, ma solo quando sembravano dire quel che anch'io credevo vero. Ho sempre pensato di voler essere in grado di mangiare libri su libri come fa mia madre, come fanno diverse persone che conosco.
Ho sempre pensato di desiderare che l'oggi fosse ieri. Ho sempre pensato che sarebbe stato più facile, because once you've done it, you can throw it away. Pensavo fosse bello pensarla così.
Ho sempre pensato che fare sci alpino fosse divertente, e che lo sci di fondo fosse insensato.
Ho sempre pensato che l’apice del piacere fosse lo scopo, che il cuore o lo sentivi battere o non ne avevi uno. L'ho sempre pensato davvero.
Ho sempre pensato che la musica fosse turbamento, e che il silenzio fosse noioso.
L'ho sempre pensato sul serio.
L'ho pensato.
L'ho pensato, e ora me ne pento.
Aprire gli occhi di fronte a una lunga scala, ancora tutta da salire, ha il suono allegro della Sonata Facile di Mozart, la n°16 in Do maggiore. Sa di rinascita e di speranza, sa di fare le scale di corsa.
Ho sempre sentito gli altri dire che fare le scale è noioso e faticoso. Invece no, invece è semplice. É facile, appunto. É come dovrebbe essere: un gradino chiama l'altro, una nota chiede l'altra. Mi hanno insegnato che se le imparo lentamente, e aumento la velocità in modo molto graduale, saprò suonare un pezzo veloce anche quando, lo stesso, lo suono lento. E se scalo una montagna in una settimana, sarà come se l'avessi scalata in mezz'ora, dilatando così il tempo per vivere, ma non la durata del percorso. É una cosa che per me ha significato. Forse è il significato stesso di “significato”.
Ho sempre pensato che il gelato andasse mangiato in fretta, prima che si sciogliesse.
Ho sempre pensato che non avrei voluto fare questo pensiero, ma non riuscivo a farne a meno.
L’ho sempre pensato, ma è quasi divertente accorgersi con tenerezza del bimbo che sono stato. E ho sempre pensato che a scuola fosse meglio arrivarci in fretta, chiuso nel mio mondo, senza troppo indugiare sulla strada, sui mezzi pubblici, in mezzo alla gente. La gente non mi piace.
Invece, mi piacciono le persone.
~
Il freddo mi irrigidiva le mani mentre salivo sul trenino aggrappandomi buffamente al corrimano, in mezzo agli sbuffi di vapore bianco provenienti dalla folla accalcata come me all’entrata del mezzo. Nella gelida aria autunnale parevano fumare come tante piccole locomotive. Tutt’intorno a me ognuno spingeva impazientemente appena l’altro, se non con la mano, con lo sguardo, e tutto per occupare in fretta i posti migliori, quelli vicino al finestrino. La scelta da farsi era semplice una volta a bordo: se un abitacolo da quattro posti è vuoto, mi siedo lì; se sono tutti parzialmente occupati, scelgo quello che conta il minor numero di persone. La gente preferisce togliere zaini e borse dal sedile accanto al proprio solo se obbligata, solo se di posti liberi non ce ne sono quasi più. Stare per conto proprio, il più distante possibile dagli altri, è la priorità: non esiste il cedere il posto, nemmeno il cedere il passo. A meno che non si tratti di dover scendere: lì la precedenza è sempre di quello con più fretta, o che, perlomeno, la ostenta. É la legge del pendolare. Davvero la gente crede di essere libera a parte le regole dell’ordine costituito? Ovunque vedo gabbie, invisibili ad occhi poco attenti, forme che regolano l’espressività umana, e forme vuote ma potenzialmente infinite che risucchiano ogni umanità.
Ogni mattina, o quasi, prima di recarmi a scuola, lo vedevo.
Non solo lo vedevo, lo guardavo proprio, ma senza darlo a vedere. Sono brava in queste cose.
“C’è un modo di evitare che rassomiglia tanto al cercare”, non so dove l’ho letto.
Non sono ancora convinta che lui vedesse me, ad ogni modo. Non per davvero.
Non alla maniera improvvisa in cui ti accorgi dell’effettiva esistenza di qualcuno, del tipo “Ah! Ma questa persona è una ragazza. E non una ragazza qualunque, ma questa ragazza qui. É la prima volta che la noto. Anche se l’ho sempre incrociata, ora che ci penso… “.
~
Ora che ci penso, già. Perché molte cose si ricordano, o si capiscono, o si notano solo una volta che sono scomparse. Andate. Il treno è partito un bel giorno per sempre, loro erano sopra, e tu no. Perché per ogni treno che parte, l’unica vera garanzia che ritorni sono le preghiere.
O forse è reale il detto 会うは別れの始め [au wa wakare no hajime]: ogni incontro è l’inizio di una separazione. Ogni incontro è l’inizio di una separazione.
Di quell’incontro però io non ero stato consapevole, proprio no. Fino a quando già non fu troppo tardi. La velocità è un nemico da tenere a bada. I treni vanno veloce, le persone entrano ed escono le une dalle vite degli altri ad un ritmo assurdo, frenetico. Le persone… Forse, però, vale la stessa cosa per la gente. Non ci avevo mai pensato. Io detesto la gente. Non la posso soffrire.
Ora che ci penso, proprio questa ragazza… a volte mi guardava. E io la vedevo guardarmi. Ma non lo davo a vedere. Non volevo darlo a vedere. Non volevo darglielo a vedere. Ora che ci penso…
~
Lui non sembrava particolarmente a disagio tra la gente. Più che altro, sembrava indifferente.
Quando io salivo, lui era già sempre al suo solito posto. Non so come riuscisse a ottenere di sedersi sempre sullo stesso sedile. Probabilmente saliva quando il vagone era ancora vuoto, per primo. Portava una divisa scolastica molto semplice e sobria, ma che gli donava. Metteva le cuffie, per ascoltare la musica, suppongo, o per far finta di ascoltarla, il che fa lo stesso: il messaggio più chiaro che potesse passare era “Stay away”, “Do not disturb”. Talvolta sprofondava dentro allo schermo del suo I-Phone, riemergendone solo per fissare con cipiglio aggrottato chiunque minacciasse di invadere la sua sfera zen. Ma in questo modo, perlomeno, per me risultava piuttosto semplice osservarlo senza rischiare di incontrare il suo sguardo. La qual cosa, come minimo, mi avrebbe fatto violentemente arrossire, e poi mi avrebbe obbligata a fissarmi le scarpe per il tempo restante del viaggio.
Lui aveva questo enorme potere su di me, e solo il cielo sa quanto felice fossi che non se ne rendesse conto. Rimanevo libera così. Vulnerabile, ma inattaccabile. Potevo essere me stessa, dentro di me, immaginare cose, conversazioni e saluti e sguardi, tutto quello che volevo, mentre stavo lì a guardarlo. C’ero, io, lì vicino a lui, anche se lontana. Lontana e… bè, invisibile. Ma mi andava bene così. O forse… volevo a tutti i costi che mi andasse bene. Mm... Meglio non pensarci. Meglio rimettere lo zaino in spalla e scendere. Riconoscevo sempre la mia fermata anche se immersa nel mio concentrato “stake-out”, perché era l’unico momento in cui lui alzava lo sguardo e si guardava attorno sul serio: per controllare di essere quasi a destinazione.
Alle 7 e 39, di solito.
~
Ero sempre il primo a salire sul piccolo treno che, con dieci fermate esatte, in venticinque minuti mi portava a tre isolati dalla scuola. Era comodo. Ma farmi il viaggio seduto era comunque più comodo che farmelo in piedi. E farmelo seduto nel mio angolino preferito, dal cui finestrino potevo contemplare il lago e il cielo, era anche meglio. Potevo riflettere pacificamente, con la musica nelle orecchie, accompagnato dalle mie sonate preferite. Era molto piacevole, era un rituale che mi dava una sensazione di conforto. Che spazzava via i problemi di tutto il mondo, per venticinque minuti. Dunque ogni mattina mi facevo una breve corsa, molto veloce ovviamente, per battere sul tempo chiunque altro volesse salire sul treno vuoto, anziché stipato. Ero bravo in questo. Non capitava quasi mai che fossi in ritardo. Quasi.
~
Il suo volto era sempre serio, vagamente all’erta se c’era un ritardo. Il suo viso mi ricordava qualcuno che dovevo aver conosciuto in un’altra vita, un ragazzo senza nome, i cui tratti si erano fatti troppo sfocati agli occhi della memoria, ma la cui figura indefinita continuava a incombere sui miei pensieri, aleggiando come un profumo d’infanzia tra i ricordi, cullandomi... Quella sensazione di familiarità era piacevole, confortante, e mi rendeva curiosa di lui in modo indicibile. Sapevo a quale scuola andava. No, non l’avevo mai seguito, non mi pareva carino, e comunque mi andava bene questa distanza, come ho già detto, però era facile capirlo: dalla divisa, dalla fermata e tutto. Lui non sapeva che io sapevo, o meglio, che desideravo sapere. Ma avrei tanto voluto che non fosse così. Anche se poi gli sarei sembrata pazza. Anche se… Ma tanto, comunque, non lo seppe mai. Perché io non glielo dissi… in tempo.
~
Una mattina come le altre, ma diversa da tutte le altre, ero in ritardo. Non succedeva mai, ma qualche volta poteva accadere. É l’ironia della vita, credo. Va tutto come sempre solo fino a che qualcosa non va. Quel giorno qualcosa non andava di certo, ma io non me ne resi subito conto. Tutto quello a cui pensai fu “Devo correre”. E dovevo sul serio, così schizzai come una palla da biliardo, colpita da un colpo secco della stecca, dritto in stazione, senza nemmeno far colazione. Ed era raro, per me, non fare una buona colazione. Anzi, era inaccettabile. Quindi afferrai una banana dalla cesta della frutta pensando di papparmela sul treno, con molta discrezione.
Non dimenticherò mai quel mattino. L’aria era fredda e secca, la luce bassa del sole nascente era accecante, le nuvole sfumate nel cielo come un acquerello, e nella mia corsa disperata sentivo il vento graffiarmi la faccia. Con mia sorpresa, poi, sul vialetto porticato che attraversava la zona commerciale della città, a correre non mi ritrovai da solo. Probabilmente non dovrebbe stupire, a pensarci ora, anzi: la maggior parte della gente rischia di perdere di quando in quando il treno, e allora li vedi, tutti in mucchio a rincorrersi, sbatacchiando valigette e zainetti, tentando di mantenere, nonostante tutto, un’andatura abbastanza composta. La gente sorride sempre guardandoli arrivare, dai finestrini del treno: i ritardatari sono una piccola gioia del mattino per i puntuali, o per chi è altrettanto in ritardo. Ci si scambia sguardi di folle intesa, e non si compete più per salire sul treno, semmai ci si incoraggia. Ecco quel che capitò a me quel giorno, per la prima volta: i miei occhi, durante il tragitto, incontrarono quelli di una ragazza, all’incirca della mia età dall’aspetto, che a loro volta scrutarono nei miei in una maniera che, per qualche motivo che non capii, trovai sconvenientemente confidenziale. E poi accadde: una scintilla scoccò a quel contatto, e entrambi ci aprimmo in un sorriso complice e divertito. E gli occhi di lei, improvvisamente, apparvero caldi e pieni di quella che mi sembrò gratitudine. Quel breve scambio, così umano, bastò a farmi avvertire un certo calore dalle parti del petto e delle guance, abbastanza da spazzar via il pensiero del freddo e l’ansia del ritardo per un breve momento. Breve ma eterno.
~
Non era la prima volta che uscivo di casa in vertiginoso ritardo, infatti la mia ansia era relativamente controllabile, tanto da fermarmi 15 secondi al piccolo bar sotto casa mia per comprare una brioche alla nutella. Mi rendeva felice quell’odorino caldo e confortante di dolce appena sfornato, a maggior ragione nelle gelide e frettolose mattine autunnali. Mentre correvo in maniera forsennata, quasi fin troppo dinamica, pregustavo già il momento di stasi sul treno, quando sotto sguardi invidiosi avrei potuto finalmente papparmi soddisfatta la mia colazione.
Fu allora che notai un’insolita, ma sorprendentemente familiare, piccola figura che si avvicinava a passo svelto nella mia direzione. Era lui, insomma, il mio lui. Non mi fermai a fare dei commenti mentali sulla sorpresa di vederlo per la prima volta correre alla fermata, ma istintivamente rallentai l’andatura simulando una grossa mancanza di fiato, e mi feci affiancare. Proseguimmo insieme per un bel pezzetto di strada, e ci guardammo in faccia stavolta, anche più di una volta. Ci guardammo e ci sorridemmo, e improvvisamente fu primavera nel mio cuore. Così corremmo insieme, io e lui, a più non posso, in uno sprint finale incredibile. Io sventolavo il cornetto che tenevo in mano avvolto in un tovagliolo, e lui una banana che sicuramente si stava ammaccando tra le sue dita. Eravamo comici, ma eravamo noi. Il treno fischiò, e in un impeto di eccitazione allungai ancora la falcata, forte delle mie ripetute corse da pendolare poco puntuale. Poco giapponese. I giapponesi sono sempre in orario, sono precisi. Il ragazzo che correva appresso a me, ecco… lui aveva i tratti orientali, ma non sapevo di dove fosse in origine. Un’altra cosa che mi sarebbe tanto piaciuto sapere… Un’altra cosa che non feci in tempo a chiedergli. Peccato… perché, quel giorno, forse ci eravamo finalmente avvicinati abbastanza da riconoscerci, da conversare: ora avevamo in comune qualcosa, anche se era solo una stupida corsa alle sette di mattina. Ma era abbastanza. Non fosse che io salii sul treno quel giorno, mentre lui no. Quando mi voltai a controllare, le porte si erano già inesorabilmente chiuse e il ragazzo orientale stava in piedi appena al di là. Anche se, in realtà, ero io a stare al-di-là, ormai, mentre lui era ancora al-di-qua, e ci sarebbe rimasto. Passai parte del viaggio pensando a lui, come sempre. Pensai e ripensai, e sorrisi tra me e me come una ragazzina innamorata. Fossi stata l’eroina di un manga, mi avrebbero disegnata coi cuoricini al posto degli occhi, saltellante in giro per il vagone con aria distratta e sognante, facendo giravolte circondata dai fiori. Ma se fossi stata veramente l’eroina di questa storia, o di una storia qualunque… non sarebbe successo quello che è successo. Il treno sarebbe arrivato a destinazione, come sempre. Però quel giorno lui non era sul treno, e quindi già nulla era come sempre. Perché va tutto come sempre, solo fino a che qualcosa non va. E allora spesso iniziano a non andare anche tutte le altre. É la legge del pendolare: se perdi un mezzo, perdi anche la coincidenza che avevi dopo. Se prendi un treno, l’unica garanzia che ritorni indietro sono le preghiere. E io quel giorno non avevo pregato. Di solito lo faccio per strada, ma quel giorno avevo altro a cui pensare, ovviamente. Quel giorno lui non ce l’aveva fatta ad arrivare in tempo… (In tempo da me, mi piace pensare.)
~
Lei si, lei era su. Il tempismo è tutto. Il tempismo giusto, intendo. Né troppo veloce, né troppo lento. Scivolare via sulle cose, nella vita, con la vita. Come le dita sul pianoforte. Perché ogni cosa sia come deve essere e ogni cosa vada come deve andare. E pregare. Quel mattino io non ho pregato, perché ero in ritardo. Spero tanto che lo abbia fatto lei. Io per lei ho pregato troppo tardi: solo quando ho visto appesa la sua foto, e in mezzo a mille volti sconosciuti, ma in qualche modo familiari, spiccava solo il suo, non più così tanto sconosciuto.
Ho letto che si chiamava Nefer, il cui geroglifico significava “bella” () nell’antico Egitto, e rappresenta un cuore e una trachea. Mi fa pensare al suo cuore, che ha smesso di battere, e al suo respiro, che si è interrotto. É un pensiero che mi fa impazzire. Nefer… Lei era bella di nome. Io so che era bella anche di fatto. Forse ne ero innamorato. Forse lo sono adesso. É possibile che sbocci l’amore in questo modo? Lei per me ora è 愛美 (aimi), la bellezza dell’amore. Un fiore talmente bello che sfiorisce subito, prima ancora di poterne sfiorare un petalo, lasciando nell’aria 美香 (mika), una buona fragranza. Lei è un fiore che non ho mai colto, nemmeno per sbaglio, ma che mi ha sempre avvolto con il suo profumo, tanto da abituarmene e non sentirlo più. Tanto da non poter pensare di farne a meno ora.
E i viaggi senza di lei non sanno più di Mozart. Ora che so che lei non c’è, che è perduta, riesco ad ascoltare solo il Primo Dolore di Schumann. Erster Verlust, prima perdita. La mia prima perdita. Si può perdere qualcosa che non si è mai avuto? Si può avere nostalgia di qualcosa che non si è mai vissuto? Forse no, ma è così che mi sento ora. Sono passato dalla forma precisa delle scale all’emotività caotica di un’esplosione. Letteralmente. Con lei. Lei, che ora mi sembra quasi di conoscere. Ora che non c’è più, perfino più di prima, quando c’era.
C’era, ma per me non c’era. Ora non c’è, ma per me ha iniziato ad esserci. Troppo tardi. Forse.
“Se tu morirai per me, io vivrò per te: questo è un giusto compromesso”. Dove l’ho letto?
Ma forse ho sbagliato. Tutto. Forse avrei dovuto correre più veloce. Forse se inizio a correre ora, riesco ancora a raggiungerla. Forse… Dico, forse. Forse potrei perfino riuscire a fermarla, a farla voltare… per baciarla magari, e…
~
E…?
~
…e chiederle scusa.
Ho sempre pensato che “presto” fosse sinonimo di urgenza e che “vivace” fosse sinonimo di eccitato. Ho sempre pensato che la corsa veloce fosse meglio di quella di resistenza, se proprio dovevo correre. L’ho sempre pensato, ho sempre voluto che fosse così. Tutto e subito. Come quando, alla fine, col fiatone, tracanni d'un sol sorso quanta più acqua riesci dalla bottiglia. Come il terzo movimento della Moonlight Sonata, che rincorre e sorpassa il primo e gli fa pure un gestaccio senza voltarsi. Come lo suonavo io.
L'altalena è bella, proprio come gli albertini, ma solo quando ondeggia follemente e senti il vento sferzarti la faccia, e un piccolo vuoto allo stomaco nel discendere all'indietro. Nel punto più alto, vedi il mondo un po' più grande, un po' più come è, e un po' meno come sembra. Quando vado sull'altalena mi sento il gabbiano Jonathan Livingston che freme in attesa di spiccare il volo. Ci penso su, e dice il vero: “Più alto vola il gabbiano e più vede lontano”.
Quando volo sulla tastiera sono la picchiata da mille metri, sono potenza e gioia, e vado oltre. Ancora un po' oltre. Giusto un po' più in là. Appena... solo un poco ancora. Ecco. Perfetto.
Ho sempre pensato che mandare un messaggio, avendo la conferma di lettura subito, fosse qualcosa di simile alla velocità perfetta: esserci, esser là, essere perfettamente in contatto.
Ho sempre pensato che i libri dicessero la verità, ma solo quando sembravano dire quel che anch'io credevo vero. Ho sempre pensato di voler essere in grado di mangiare libri su libri come fa mia madre, come fanno diverse persone che conosco.
Ho sempre pensato di desiderare che l'oggi fosse ieri. Ho sempre pensato che sarebbe stato più facile, because once you've done it, you can throw it away. Pensavo fosse bello pensarla così.
Ho sempre pensato che fare sci alpino fosse divertente, e che lo sci di fondo fosse insensato.
Ho sempre pensato che l’apice del piacere fosse lo scopo, che il cuore o lo sentivi battere o non ne avevi uno. L'ho sempre pensato davvero.
Ho sempre pensato che la musica fosse turbamento, e che il silenzio fosse noioso.
L'ho sempre pensato sul serio.
L'ho pensato.
L'ho pensato, e ora me ne pento.
Aprire gli occhi di fronte a una lunga scala, ancora tutta da salire, ha il suono allegro della Sonata Facile di Mozart, la n°16 in Do maggiore. Sa di rinascita e di speranza, sa di fare le scale di corsa.
Ho sempre sentito gli altri dire che fare le scale è noioso e faticoso. Invece no, invece è semplice. É facile, appunto. É come dovrebbe essere: un gradino chiama l'altro, una nota chiede l'altra. Mi hanno insegnato che se le imparo lentamente, e aumento la velocità in modo molto graduale, saprò suonare un pezzo veloce anche quando, lo stesso, lo suono lento. E se scalo una montagna in una settimana, sarà come se l'avessi scalata in mezz'ora, dilatando così il tempo per vivere, ma non la durata del percorso. É una cosa che per me ha significato. Forse è il significato stesso di “significato”.
Ho sempre pensato che il gelato andasse mangiato in fretta, prima che si sciogliesse.
Ho sempre pensato che non avrei voluto fare questo pensiero, ma non riuscivo a farne a meno.
L’ho sempre pensato, ma è quasi divertente accorgersi con tenerezza del bimbo che sono stato. E ho sempre pensato che a scuola fosse meglio arrivarci in fretta, chiuso nel mio mondo, senza troppo indugiare sulla strada, sui mezzi pubblici, in mezzo alla gente. La gente non mi piace.
Invece, mi piacciono le persone.
~
Il freddo mi irrigidiva le mani mentre salivo sul trenino aggrappandomi buffamente al corrimano, in mezzo agli sbuffi di vapore bianco provenienti dalla folla accalcata come me all’entrata del mezzo. Nella gelida aria autunnale parevano fumare come tante piccole locomotive. Tutt’intorno a me ognuno spingeva impazientemente appena l’altro, se non con la mano, con lo sguardo, e tutto per occupare in fretta i posti migliori, quelli vicino al finestrino. La scelta da farsi era semplice una volta a bordo: se un abitacolo da quattro posti è vuoto, mi siedo lì; se sono tutti parzialmente occupati, scelgo quello che conta il minor numero di persone. La gente preferisce togliere zaini e borse dal sedile accanto al proprio solo se obbligata, solo se di posti liberi non ce ne sono quasi più. Stare per conto proprio, il più distante possibile dagli altri, è la priorità: non esiste il cedere il posto, nemmeno il cedere il passo. A meno che non si tratti di dover scendere: lì la precedenza è sempre di quello con più fretta, o che, perlomeno, la ostenta. É la legge del pendolare. Davvero la gente crede di essere libera a parte le regole dell’ordine costituito? Ovunque vedo gabbie, invisibili ad occhi poco attenti, forme che regolano l’espressività umana, e forme vuote ma potenzialmente infinite che risucchiano ogni umanità.
Ogni mattina, o quasi, prima di recarmi a scuola, lo vedevo.
Non solo lo vedevo, lo guardavo proprio, ma senza darlo a vedere. Sono brava in queste cose.
“C’è un modo di evitare che rassomiglia tanto al cercare”, non so dove l’ho letto.
Non sono ancora convinta che lui vedesse me, ad ogni modo. Non per davvero.
Non alla maniera improvvisa in cui ti accorgi dell’effettiva esistenza di qualcuno, del tipo “Ah! Ma questa persona è una ragazza. E non una ragazza qualunque, ma questa ragazza qui. É la prima volta che la noto. Anche se l’ho sempre incrociata, ora che ci penso… “.
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Ora che ci penso, già. Perché molte cose si ricordano, o si capiscono, o si notano solo una volta che sono scomparse. Andate. Il treno è partito un bel giorno per sempre, loro erano sopra, e tu no. Perché per ogni treno che parte, l’unica vera garanzia che ritorni sono le preghiere.
O forse è reale il detto 会うは別れの始め [au wa wakare no hajime]: ogni incontro è l’inizio di una separazione. Ogni incontro è l’inizio di una separazione.
Di quell’incontro però io non ero stato consapevole, proprio no. Fino a quando già non fu troppo tardi. La velocità è un nemico da tenere a bada. I treni vanno veloce, le persone entrano ed escono le une dalle vite degli altri ad un ritmo assurdo, frenetico. Le persone… Forse, però, vale la stessa cosa per la gente. Non ci avevo mai pensato. Io detesto la gente. Non la posso soffrire.
Ora che ci penso, proprio questa ragazza… a volte mi guardava. E io la vedevo guardarmi. Ma non lo davo a vedere. Non volevo darlo a vedere. Non volevo darglielo a vedere. Ora che ci penso…
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Lui non sembrava particolarmente a disagio tra la gente. Più che altro, sembrava indifferente.
Quando io salivo, lui era già sempre al suo solito posto. Non so come riuscisse a ottenere di sedersi sempre sullo stesso sedile. Probabilmente saliva quando il vagone era ancora vuoto, per primo. Portava una divisa scolastica molto semplice e sobria, ma che gli donava. Metteva le cuffie, per ascoltare la musica, suppongo, o per far finta di ascoltarla, il che fa lo stesso: il messaggio più chiaro che potesse passare era “Stay away”, “Do not disturb”. Talvolta sprofondava dentro allo schermo del suo I-Phone, riemergendone solo per fissare con cipiglio aggrottato chiunque minacciasse di invadere la sua sfera zen. Ma in questo modo, perlomeno, per me risultava piuttosto semplice osservarlo senza rischiare di incontrare il suo sguardo. La qual cosa, come minimo, mi avrebbe fatto violentemente arrossire, e poi mi avrebbe obbligata a fissarmi le scarpe per il tempo restante del viaggio.
Lui aveva questo enorme potere su di me, e solo il cielo sa quanto felice fossi che non se ne rendesse conto. Rimanevo libera così. Vulnerabile, ma inattaccabile. Potevo essere me stessa, dentro di me, immaginare cose, conversazioni e saluti e sguardi, tutto quello che volevo, mentre stavo lì a guardarlo. C’ero, io, lì vicino a lui, anche se lontana. Lontana e… bè, invisibile. Ma mi andava bene così. O forse… volevo a tutti i costi che mi andasse bene. Mm... Meglio non pensarci. Meglio rimettere lo zaino in spalla e scendere. Riconoscevo sempre la mia fermata anche se immersa nel mio concentrato “stake-out”, perché era l’unico momento in cui lui alzava lo sguardo e si guardava attorno sul serio: per controllare di essere quasi a destinazione.
Alle 7 e 39, di solito.
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Ero sempre il primo a salire sul piccolo treno che, con dieci fermate esatte, in venticinque minuti mi portava a tre isolati dalla scuola. Era comodo. Ma farmi il viaggio seduto era comunque più comodo che farmelo in piedi. E farmelo seduto nel mio angolino preferito, dal cui finestrino potevo contemplare il lago e il cielo, era anche meglio. Potevo riflettere pacificamente, con la musica nelle orecchie, accompagnato dalle mie sonate preferite. Era molto piacevole, era un rituale che mi dava una sensazione di conforto. Che spazzava via i problemi di tutto il mondo, per venticinque minuti. Dunque ogni mattina mi facevo una breve corsa, molto veloce ovviamente, per battere sul tempo chiunque altro volesse salire sul treno vuoto, anziché stipato. Ero bravo in questo. Non capitava quasi mai che fossi in ritardo. Quasi.
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Il suo volto era sempre serio, vagamente all’erta se c’era un ritardo. Il suo viso mi ricordava qualcuno che dovevo aver conosciuto in un’altra vita, un ragazzo senza nome, i cui tratti si erano fatti troppo sfocati agli occhi della memoria, ma la cui figura indefinita continuava a incombere sui miei pensieri, aleggiando come un profumo d’infanzia tra i ricordi, cullandomi... Quella sensazione di familiarità era piacevole, confortante, e mi rendeva curiosa di lui in modo indicibile. Sapevo a quale scuola andava. No, non l’avevo mai seguito, non mi pareva carino, e comunque mi andava bene questa distanza, come ho già detto, però era facile capirlo: dalla divisa, dalla fermata e tutto. Lui non sapeva che io sapevo, o meglio, che desideravo sapere. Ma avrei tanto voluto che non fosse così. Anche se poi gli sarei sembrata pazza. Anche se… Ma tanto, comunque, non lo seppe mai. Perché io non glielo dissi… in tempo.
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Una mattina come le altre, ma diversa da tutte le altre, ero in ritardo. Non succedeva mai, ma qualche volta poteva accadere. É l’ironia della vita, credo. Va tutto come sempre solo fino a che qualcosa non va. Quel giorno qualcosa non andava di certo, ma io non me ne resi subito conto. Tutto quello a cui pensai fu “Devo correre”. E dovevo sul serio, così schizzai come una palla da biliardo, colpita da un colpo secco della stecca, dritto in stazione, senza nemmeno far colazione. Ed era raro, per me, non fare una buona colazione. Anzi, era inaccettabile. Quindi afferrai una banana dalla cesta della frutta pensando di papparmela sul treno, con molta discrezione.
Non dimenticherò mai quel mattino. L’aria era fredda e secca, la luce bassa del sole nascente era accecante, le nuvole sfumate nel cielo come un acquerello, e nella mia corsa disperata sentivo il vento graffiarmi la faccia. Con mia sorpresa, poi, sul vialetto porticato che attraversava la zona commerciale della città, a correre non mi ritrovai da solo. Probabilmente non dovrebbe stupire, a pensarci ora, anzi: la maggior parte della gente rischia di perdere di quando in quando il treno, e allora li vedi, tutti in mucchio a rincorrersi, sbatacchiando valigette e zainetti, tentando di mantenere, nonostante tutto, un’andatura abbastanza composta. La gente sorride sempre guardandoli arrivare, dai finestrini del treno: i ritardatari sono una piccola gioia del mattino per i puntuali, o per chi è altrettanto in ritardo. Ci si scambia sguardi di folle intesa, e non si compete più per salire sul treno, semmai ci si incoraggia. Ecco quel che capitò a me quel giorno, per la prima volta: i miei occhi, durante il tragitto, incontrarono quelli di una ragazza, all’incirca della mia età dall’aspetto, che a loro volta scrutarono nei miei in una maniera che, per qualche motivo che non capii, trovai sconvenientemente confidenziale. E poi accadde: una scintilla scoccò a quel contatto, e entrambi ci aprimmo in un sorriso complice e divertito. E gli occhi di lei, improvvisamente, apparvero caldi e pieni di quella che mi sembrò gratitudine. Quel breve scambio, così umano, bastò a farmi avvertire un certo calore dalle parti del petto e delle guance, abbastanza da spazzar via il pensiero del freddo e l’ansia del ritardo per un breve momento. Breve ma eterno.
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Non era la prima volta che uscivo di casa in vertiginoso ritardo, infatti la mia ansia era relativamente controllabile, tanto da fermarmi 15 secondi al piccolo bar sotto casa mia per comprare una brioche alla nutella. Mi rendeva felice quell’odorino caldo e confortante di dolce appena sfornato, a maggior ragione nelle gelide e frettolose mattine autunnali. Mentre correvo in maniera forsennata, quasi fin troppo dinamica, pregustavo già il momento di stasi sul treno, quando sotto sguardi invidiosi avrei potuto finalmente papparmi soddisfatta la mia colazione.
Fu allora che notai un’insolita, ma sorprendentemente familiare, piccola figura che si avvicinava a passo svelto nella mia direzione. Era lui, insomma, il mio lui. Non mi fermai a fare dei commenti mentali sulla sorpresa di vederlo per la prima volta correre alla fermata, ma istintivamente rallentai l’andatura simulando una grossa mancanza di fiato, e mi feci affiancare. Proseguimmo insieme per un bel pezzetto di strada, e ci guardammo in faccia stavolta, anche più di una volta. Ci guardammo e ci sorridemmo, e improvvisamente fu primavera nel mio cuore. Così corremmo insieme, io e lui, a più non posso, in uno sprint finale incredibile. Io sventolavo il cornetto che tenevo in mano avvolto in un tovagliolo, e lui una banana che sicuramente si stava ammaccando tra le sue dita. Eravamo comici, ma eravamo noi. Il treno fischiò, e in un impeto di eccitazione allungai ancora la falcata, forte delle mie ripetute corse da pendolare poco puntuale. Poco giapponese. I giapponesi sono sempre in orario, sono precisi. Il ragazzo che correva appresso a me, ecco… lui aveva i tratti orientali, ma non sapevo di dove fosse in origine. Un’altra cosa che mi sarebbe tanto piaciuto sapere… Un’altra cosa che non feci in tempo a chiedergli. Peccato… perché, quel giorno, forse ci eravamo finalmente avvicinati abbastanza da riconoscerci, da conversare: ora avevamo in comune qualcosa, anche se era solo una stupida corsa alle sette di mattina. Ma era abbastanza. Non fosse che io salii sul treno quel giorno, mentre lui no. Quando mi voltai a controllare, le porte si erano già inesorabilmente chiuse e il ragazzo orientale stava in piedi appena al di là. Anche se, in realtà, ero io a stare al-di-là, ormai, mentre lui era ancora al-di-qua, e ci sarebbe rimasto. Passai parte del viaggio pensando a lui, come sempre. Pensai e ripensai, e sorrisi tra me e me come una ragazzina innamorata. Fossi stata l’eroina di un manga, mi avrebbero disegnata coi cuoricini al posto degli occhi, saltellante in giro per il vagone con aria distratta e sognante, facendo giravolte circondata dai fiori. Ma se fossi stata veramente l’eroina di questa storia, o di una storia qualunque… non sarebbe successo quello che è successo. Il treno sarebbe arrivato a destinazione, come sempre. Però quel giorno lui non era sul treno, e quindi già nulla era come sempre. Perché va tutto come sempre, solo fino a che qualcosa non va. E allora spesso iniziano a non andare anche tutte le altre. É la legge del pendolare: se perdi un mezzo, perdi anche la coincidenza che avevi dopo. Se prendi un treno, l’unica garanzia che ritorni indietro sono le preghiere. E io quel giorno non avevo pregato. Di solito lo faccio per strada, ma quel giorno avevo altro a cui pensare, ovviamente. Quel giorno lui non ce l’aveva fatta ad arrivare in tempo… (In tempo da me, mi piace pensare.)
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Lei si, lei era su. Il tempismo è tutto. Il tempismo giusto, intendo. Né troppo veloce, né troppo lento. Scivolare via sulle cose, nella vita, con la vita. Come le dita sul pianoforte. Perché ogni cosa sia come deve essere e ogni cosa vada come deve andare. E pregare. Quel mattino io non ho pregato, perché ero in ritardo. Spero tanto che lo abbia fatto lei. Io per lei ho pregato troppo tardi: solo quando ho visto appesa la sua foto, e in mezzo a mille volti sconosciuti, ma in qualche modo familiari, spiccava solo il suo, non più così tanto sconosciuto.
Ho letto che si chiamava Nefer, il cui geroglifico significava “bella” () nell’antico Egitto, e rappresenta un cuore e una trachea. Mi fa pensare al suo cuore, che ha smesso di battere, e al suo respiro, che si è interrotto. É un pensiero che mi fa impazzire. Nefer… Lei era bella di nome. Io so che era bella anche di fatto. Forse ne ero innamorato. Forse lo sono adesso. É possibile che sbocci l’amore in questo modo? Lei per me ora è 愛美 (aimi), la bellezza dell’amore. Un fiore talmente bello che sfiorisce subito, prima ancora di poterne sfiorare un petalo, lasciando nell’aria 美香 (mika), una buona fragranza. Lei è un fiore che non ho mai colto, nemmeno per sbaglio, ma che mi ha sempre avvolto con il suo profumo, tanto da abituarmene e non sentirlo più. Tanto da non poter pensare di farne a meno ora.
E i viaggi senza di lei non sanno più di Mozart. Ora che so che lei non c’è, che è perduta, riesco ad ascoltare solo il Primo Dolore di Schumann. Erster Verlust, prima perdita. La mia prima perdita. Si può perdere qualcosa che non si è mai avuto? Si può avere nostalgia di qualcosa che non si è mai vissuto? Forse no, ma è così che mi sento ora. Sono passato dalla forma precisa delle scale all’emotività caotica di un’esplosione. Letteralmente. Con lei. Lei, che ora mi sembra quasi di conoscere. Ora che non c’è più, perfino più di prima, quando c’era.
C’era, ma per me non c’era. Ora non c’è, ma per me ha iniziato ad esserci. Troppo tardi. Forse.
“Se tu morirai per me, io vivrò per te: questo è un giusto compromesso”. Dove l’ho letto?
Ma forse ho sbagliato. Tutto. Forse avrei dovuto correre più veloce. Forse se inizio a correre ora, riesco ancora a raggiungerla. Forse… Dico, forse. Forse potrei perfino riuscire a fermarla, a farla voltare… per baciarla magari, e…
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E…?
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…e chiederle scusa.