CRIC-CRIC
C’è questo lieve rumore che si ripete da ormai un’ora abbondante.
Cric-cric.
Sembra come se qualcuno stesse camminando sulla ghiaia in cortile. Almeno, per quello che mi riguarda, questo è il rumore che fa la ghiaia quando la calpesti. Qualcuno potrebbe obiettare che è più simile al suono dei tarli che si mangiano i mobili, un pezzetto alla volta, finché dopo qualche tempo ti ritrovi a dover andare al salone a sceglierne di nuovi, perché hai la casa vuota. Io non ho nulla contro queste cose, né contro i tarli, né contro chi dice che quel suono è quello dei tarli. Per me i tarli fanno TRRR-TRRR. Uno usa le onomatopee che gli pare, eh.
Cric-cric.
Io non ho niente in contrario se qualcuno passa in cortile. Basta che non si avvicini troppo alla mia porta. In quel caso, potrebbe venirmi anche la tentazione di mettere mano alla roncola. O all’ascia. Così, giusto per scrupolo.
Però… cric-cric.
Ecco, appunto. Uno, a un certo punto, può anche andarsene a camminare da un’altra parte. O, all’occorrenza, venire alla porta a dirmi che caspita vuole, dal momento che è entrato nel mio cortile. Certo, se lo facesse, sarebbe con tutti i rischi annessi e connessi, chi dice di no…
Cric-cric.
Indispettito, mi alzo dalla poltrona davanti allo schermo del computer – lasciando perdere Miagolino, tutto intento a lanciare miagolii furiosi e a devastare la casa per non aver ricevuto una giusta razione di pappa buona (e il problema, quando si scrive di gattini fuffosi, è che non si può nemmeno agire contro di loro come si farebbe, che ne so, con un mostro bavoso: bisogna dargliela vinta, perché è nella loro stessa natura averla vinta, sempre e comunque; e il protagonista è costretto a interrompere tutto quello che sta facendo per andare al supermercato a comprare la pappa prima che sia troppo tardi) – dicevo, mi alzo dalla mia poltrona e vado alla finestra.
Cric-cric.
Guardo e sento, ma non vedo.
Contro il vetro preme un’impenetrabile cortina di nebbia, così fitta che non si riesce a vedere praticamente nulla. Cioè, qualcosa vedo, in realtà: il mio riflesso. Il riflesso di questo Orso scapigliato e disordinato, con gli occhiali che gli scivolano sul naso, la barba che torna sempre a essere lunga nonostante i tentativi di accorciarla e la solita camicia a quadri con annesso fazzoletto al collo. Questo Orso che più passano gli anni e più resta sempre lo stesso, e a lui non dispiace affatto.
Cric-cric.
«Ma allora, chi accidenti c’è?» barbuglio.
Guardo in quel mare d’inverno. Non è forse questo, la nebbia? Un mare d’inverno. Mare mare, qui non viene mai nessuno a trascinarmi via. Mare mare, non ti posso guardare così perché… o qualcosa del genere, insomma. Lo dice la Loredana, mica io. Io cito.
La mia domanda, come è prevedibile, cade nel vuoto. Succede spesso, quando si parla con il proprio riflesso in una finestra nera, al di là della quale ci sono la nebbia, la notte e, perché no, l’infinito che si cela nella foschia. Un infinito a cui segue altro infinito al cui termine – contraddizione in termini – ci siamo ancora noi che guardiamo noi stessi riflessi, e forse tutto quanto è solo un enorme, immenso specchio che riflette tutto, tutto quanto, uno specchio davanti all’altro per creare il gioco dell’eternità…
Cric-cric.
Il rumore si ripete. Lo sento forte come se si fosse prodotto dentro la stanza. Ma sono sicuro di essere solo. Tuttavia, giusto per scrupolo, mi guardo attorno. Le pareti rivestite di perline. Il tavolo. La sedia su cui dorme il mio gatto. La libreria che, tra un po’, rifiuterà di accogliere altri libri ed esploderà, sommergendomi di pagine e di pagine e di pagine e di…
CRIC-CRIC.
Faccio un balzo.
«Accidenti!»
Stavolta è stato fortissimo, come un urlo nella notte. Avete mai udito un grido netto, sonoro, improvviso, nel silenzio assoluto della notte? A me è capitato. Fa impressione. Non è come sentire le urla durante il giorno: quelle si perdono nel frastuono della gente. Ma quanto tutti dormono, eh… è diverso. Ve lo assicuro,
Mi giro di nuovo verso la finestra, pur consapevole dell’inutilità di questo gesto. Perlomeno, non vedo nulla. Per un momento, mi sono immaginato di poter vedere un volto pallido e mostruoso, netto e tuttavia privo di contorni, osservarmi attraverso il vetro… ma si dice che, se una cosa te la immagini, poi non avviene.
E, allora…
Cric-cric.
Ho capito. Quel rumore mi vuole attirare nella nebbia. Vuole che io esca e mi smarrisca, e poi, al momento più opportuno… ZAC. Succede più spesso di quanto non lo si creda. Ho sentito dire di un intero treno scomparso nella nebbia, anni fa. Ho scritto qualcosa di simile di recente, ma per essere un po’ più originale – perché non mi si venga a fare la predica, dicendomi che ficco la nebbia dappertutto, il treno l’ho fatto scomparire sotto una pioggia di cose verdi, che poi secondo me erano cimici, ma io questo mica ve l’ho detto…
Cric-cric.
Niente da fare. Il rumore non vuole permettermi nemmeno di perdere nelle mie elucubrazioni. È forte e penetrante, ti lascia il segno nella pelle come il morso di un topo. Una volta un topo mi ha morso al polso, vicino a un discount e…
Cric-cric.
Ho capito. Il rumorino non mi permette di parlare con me stesso, stasera. Vuole che esca, per forza. Sono sicuro che non cesserà finché non sarò uscito. È una trappola, lo so.
Ma non ha fatto i conti con il vecchio Orso e con la sua sfrenata immaginazione. Posso immaginare le peggio cose, per metterle a tacere tutte quante, una per una. La nebbia, è il vuoto, il silenzio, l’assoluto nulla. È una pagina bianca, nulla di più, nulla di meno.
Una pagina bianca su cui scrivere una nuova storia.
E non è nemmeno detto che, poi, queste cose che penso e che scrivo non si avverino davvero. Magari tutte le storie che scrivo si avverano, chi lo sa. Se non qui, da un’altra parte. Forse siamo tutti dentro una grande storia, la storia di qualcun altro. Siamo dentro un mondo e le storie che pensiamo noi si avverano nell’altro mondo. E in un altro mondo ancora c’è qualcuno che pensa la nostra storia. Siamo al confine, in bilico tra questo mondo e l’altro. Siamo parole che scivolano da una parte e formano un mondo dall’altra.
Che storia!
È proprio il caso di dirlo…
E allora appoggio la mano alla maniglia e mi preparo a uscire in strada, nella nebbia, per dare sfogo all’immaginazione e perdermi in mille nuove avventure, con senso, senza senso, belle, brutte, tutte uguali e tutte diverse… tutte ancora da scrivere.
Non ho neppure bisogno di bere il Vecchio Jack, per svegliarmi la mente. Anzi, diciamolo pure: quello lo ingurgito giusto per darmi un tono. Per fare la parte dello scrittore maledetto, o qualcosa del genere. Ve lo dico in confidenze: il vostro Orso è più tipo da acqua e caffè. E da miele. Qualche volta si beve una Redbull, ma senza esagerare.
E, allora, fuori…
Cric-cric.
Andrò a tentoni in quella nebbia e in quel nulla che sono una pagina ancora intonsa, tutta pronta da riempire di parole, come sempre, traendone la linfa necessaria a inventare nuovi racconti. Camminerò nella nebbia e affonderò i piedi in quella ghiaia che è la tastiera con tutte le letterine confuse da tramutare in paroline.
Cric-cric.