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TRIONFO
6 agosto 1989 - domenica
Mi svegliai con una leggera pressione alle tempie, come se la città intera mi stesse premendo addosso. Mi rigirai nel letto come un bambino che non voleva alzarsi per andare a scuola.
A tentoni spensi la radiosveglia sul comodino, che già trasmetteva la voce emozionata di un uomo mentre blaterava in tedesco. Le fanfare militari lontane penetravano le mura della stanza attraverso gli altoparlanti della radio, un richiamo costante che non potevo ignorare. Era il Tag des Sieges.
Rimasi disteso per qualche secondo, con gli occhi ancora impastati dal sonno e osservai le ombre proiettate dalle tende pesanti sulle pareti. Il sole filtrava attraverso la finestra socchiusa, e assieme a lui tutti i suoni della capitale che si svegliava.
Dopo qualche minuto mi decisi a lasciare il letto, i piedi nudi che incontravano la peluria della moquette. Mi alzai lentamente, stiracchiandomi mentre il lenzuolo scivolava via dal mio corpo.
La mia testa era ancora pesante, come se non avessi riposato affatto, ma non era una sensazione nuova. Era diventata una sorta di compagna silenziosa non solo negli ultimi giorni, ma negli ultimi anni. Mi diressi verso il bagno con movimenti lenti e meccanici, come in un rituale ormai familiare.
Aprii il rubinetto del lavandino e lasciai che scorrendo riempisse il piccolo spazio giallo di suoni familiari e rilassanti. Mi sciacquai il viso, l'acqua fresca che mi schiariva leggermente le idee. Mentre mi osservavo nello specchio, vidi un riflesso stanco, gli occhi segnati da ombre che non erano dovute solo alla mancanza di sonno.
Ce la farai, mi dissi tra me e me, anche se non ne ero del tutto convinto.
Mi spazzolai i denti rapidamente, il sapore di menta che copriva l’amarezza persistente nella mia bocca. Poi tornai in camera e iniziai a vestirmi. Aprii l’armadio e tirai fuori una camicia bianca fresca di lavanderia. La infilai abbottonandola fino al collo, poi indossai un paio di pantaloni grigi. Sistemai la cintura, facendola passare nei passanti con gesti distratti e automatici.
Una volta pronto, mi infilai le scarpe e mi guardai nuovamente allo specchio per un rapido controllo. Ero in ordine, almeno esteriormente. Non avevo voglia di indagare oltre, dentro di me.
Per un rapido momento mi sembrò di essere a casa, nel mio modesto appartamento al numero 20 di Grove Street nel Greenwich Village. Mi venne quasi la folle idea di chiamare mia madre, giusto per salutarla, ma poi mi resi conto che le avrei fatto prendere un colpo se le avessi telefonato nel cuore della notte. New York era sei ore indietro rispetto a Berlino.
Scossi la testa, allontanando il pensiero, e mi diressi verso la porta. La fame iniziava a farsi sentire, e una colazione mi avrebbe fatto bene. Afferrato il mio fidato taccuino e il mio consunto portafoglio, presi l’ascensore e scesi nella hall dell’albergo, dove l’aria era intrisa di un misto di entusiasmo e apprensione.
Notai il personale dell’hotel, vestito a festa, che si affaccendava attorno a decorazioni colorate e bandiere. La hall era un tripudio di festoni rossi e neri, con svastiche dorate che ondeggiavano sotto il peso di ghirlande di fiori. Sembrava che ogni angolo dell’hotel fosse stato trasformato per celebrare la grande giornata. Il brusio delle conversazioni si mescolava ai suoni dei tamburi e delle fanfare che echeggiavano da fuori, creando un’atmosfera quasi surreale.
“Heil Hitler, signor Ridley”. Una voce lucida come una posata d’argento mi colse di sorpresa. Era la ragazza che mi aveva accolto ieri, che ora mi rivolgeva un sorriso decisamente genuino da dietro il bancone della reception. “Buon Giorno della Vittoria”.
Le rivolsi uno sguardo di circostanza. “La ringrazio molto, signorina. Felice Tag des Sieges a lei e a tutto il Reich”. Affrettai leggermente il passo, e me la lasciai indietro.
Arrivai al ristorante e varcai la soglia. La scena che mi si presentò era incredibile. Tavoli splendidamente apparecchiati con tovaglie bianche immacolate e splendenti stoviglie di porcellana costellavano la sala come dei silenziosi danzatori ad un ballo alla corte di Luigi XIV. Al centro gravitava un grande bancone ad isola carico di cibi prelibati: dolci elaborati provenienti dalle migliori pasticcerie di Berlino, frutta fresca direttamente dalle Reichskolonien sub-sahariane e mediorientali, e ovviamente una enorme abbondanza di piatti tipici tedeschi, tutti esposti con cura.
Gli addobbi includevano candelabri e cornucopie dorate, che riflettevano la luce calda delle lampade e creavano un’illuminazione quasi magica.
La musica di una piccola orchestra vera e propria si diffondeva nell’aria, suonando melodie patriottiche che esaltavano lo spirito della giornata.
Tutti gli ospiti presenti sembravano stessero già partecipando ad un evento di grande importanza, mentre il personale sorridente serviva caffè e succo d’arancia a una folla eccitata. I visi erano illuminati da sorrisi compiaciuti, gli uomini erano in abiti eleganti e le donne in vestiti sfarzosi e chiacchieravano animatamente tra loro. Era impossibile non sentirsi un po’ sopraffatti dall’atmosfera festosa e dall’energia palpabile.
Mi feci strada tra i tavoli, cercando di non farmi travolgere dall’euforia collettiva. Mi sentivo una barchetta di carta in mezzo ad un mare in tempesta. Quando trovai il numero della mia stanza su un tavolo libero vicino a una finestra, mi sedetti esalando un respiro come se avessi scalato un monte, e guardai il panorama di Berlino che si svelava davanti a me.
Il cielo era ceruleo, sgombro da nubi dopo l’acquazzone della sera prima. Le luci del mattino si riflettevano sui marciapiedi bagnati, mentre i raggi dorati del sole facevano risplendere i dettagli metallici delle insegne e dei veicoli che cominciavano a circolare per le vie. Una fila di automobili nere, con le finestre fumé, sfrecciava verso il centro della città, probabilmente dirette verso i preparativi finali per la parata.
Le strade erano piene di gente che si dirigeva verso il centro città, tutti con il viso sorridente, gli sguardi pieni di attesa per le celebrazioni.
Osservai una coppia anziana attraversare la strada con passo lento, mano nella mano, come se volessero partecipare, ma con una calma che contraddiceva l’energia pulsante che cresceva intorno a loro. Forse ricordavano un’altra Berlino, quella del passato, e oggi erano lì solo per onorare la memoria di ciò che avevano perso e poi guadagnato nuovamente lungo il cammino.
Il cameriere, un giovane dai capelli color pece e gli occhi castani, si avvicinò e mi porse un menù. A discapito della Xanadu che mi si presentava sul bancone, ordinai una colazione semplice: pane, burro, uova, bacon e un caffè nero. Non avevo voglia di appesantirmi, non oggi.
Quando il caffè arrivò, caldo e amaro, lo assaporai, cercando di trovare un momento di tranquillità in mezzo al caos. I miei pensieri vagavano come una farfalla impazzita: la missione, il nuovo Führer, Heussmann, e soprattutto il motivo per cui ero qui, immerso nel cuore del Reich. Ogni passo che facevo mi portava più in profondità dentro quel mondo soffocante.
Terminai il caffè in pochi sorsi, appoggiai la tazza sul piattino e mi alzai, sentendo le spalle più rigide del solito.
Guardai l’orologio al polso, che segnava le 9:20. Avevo ancora qualche minuto prima dell’appuntamento con Spitzer, ma non volevo farmi attendere ulteriormente.
Presi la giacca dalla sedia e mi diressi verso l’uscita. Il portiere dell’albergo mi lanciò un’occhiata rapida, un cenno cortese, e aprì la porta automatica per me. “Heil Hitler”, mi disse con uno sguardo sinceramente felice.
L’aria del mattino mi investì appena misi piede fuori dall’edificio. La pioggia della notte aveva lasciato un’aria umida, ma pulita. Berlino sembrava perfettamente lustra e splendente, come se fosse pronta a mostrarsi nella sua veste migliore per il Giorno della Vittoria.
Mi guardai intorno e subito vidi la sagoma familiare della Volkswagen nera parcheggiata sul ciglio della strada. L’aquila presidenziale degli Stati Uniti brillava sulla portiera alla luce del sole, tirandosi addosso non poche occhiate incuriosite.
Spitzer era lì, appoggiato a quella stessa portiera con un’espressione impassibile. Indossava lo stesso trench grigio e un cappello nero che gli copriva gran parte del volto, come sempre impeccabile.
Mi avvicinai e lui mi scrutò rapidamente prima di aprire la portiera posteriore con un gesto fluido. “Buongiorno, signor Ridley”, disse con il solito tono neutro. “È pronto?”.
“Sì, sono pronto”, risposi cercando di nascondere quel leggero malessere che non riuscivo a scrollarmi di dosso. Mi infilai nel sedile posteriore, e prima ancora che potessi chiudere la portiera, Spitzer era già alla guida. La macchina si avviò dolcemente, scivolando tra le strade ormai affollate di gente. Il rumore dei motori e delle voci si mescolava al ronzio sordo delle fanfare lontane, che si facevano via via più forti.
Avanzammo lenti tra le strade di Berlino, ma con una discreta fluidità. Dalla mia posizione sul sedile guardavo fuori dal finestrino, osservando la città che si preparava per il grande evento. I passanti si dirigevano con passo rapido e convinto verso la Reichkanzleramt Platz, il cuore pulsante delle celebrazioni.
“Stanno davvero facendo le cose in grande quest’anno, eh?” disse Spitzer, interrompendo il silenzio che regnava in auto. Stava guidando con una mano appoggiata sul volante, apparentemente rilassato. Il suo sguardo era vigile, anche se il tono con cui parlava lasciava trasparire una certa leggerezza. “Non so se anche da voi fanno così prima di un grande evento, ma qui hanno iniziato a mettere quelle decorazioni già da una settimana, forse anche prima”.
“Dipende dall’evento”, risposi, distogliendo per un attimo lo sguardo dalla folla. “Noi americani non siamo di certo famosi per la nostra austerità, ma qui hanno addobbato tutto neanche fosse Natale. Solo che al posto di stelle e abeti ci sono svastiche e aquile”.
Spitzer rise leggermente. “È quello il punto. Mostrare potenza, controllo... far sentire alla gente che il Reich è imbattibile. Che tutto procede perfettamente. Persino nei giorni di festa”.
La macchina rallentò un po’ mentre il traffico diventava più intenso. Soldati in divisa marciavano ai lati della strada, colonne perfettamente allineate, con lo sguardo fisso davanti a loro. I loro stivali battevano sul selciato in un ritmo che sembrava scandito dal tempo stesso.
“Guardi quelli lì”, commentò Spitzer, accennando ai soldati. “Hanno provato per settimane per fare bella figura oggi. Devono far sembrare tutto perfetto, altrimenti chissà cosa succede. Per me è sempre stato ridicolo, ma la gente sembra berselo”.
Per qualche minuto, il silenzio tornò ad essere il padrone dell’abitacolo. Mi morsi nervosamente l’interno delle guance, mentre distrattamente e inutilmente spulciai le mie tasche alla ricerca di una sigaretta.
Evidentemente Spitzer se ne accorse, e lanciandomi un’occhiata fugace attraverso lo specchietto interno, allungò la mano fino a raggiungere il cruscotto e prese un pacchetto di sigarette aperto. Me ne passò una, che prontamente accesi. Abbassai il finestrino elettrico ed espirai il fumo, che venne travolto dall’aria esterna.
“Grazie mille”, dissi genuinamente riconoscente.
Spitzer annuì, poi sembrò dar voce ai suoi pensieri. “Sa, a volte mi chiedo se a qualcuno interessi davvero di queste parate. Certo, le bandiere, i soldati, i discorsi… tutto molto solenne. Ma poi? La vita continua, no? Non cambia molto per chi vive qui”.
Le sue parole mi colpirono. Nonostante la leggerezza del tono, c’era una verità nascosta. “E lei?” chiesi. “Le capita mai di essere stanco stanco di tutto questo?”
“Non stanco”, rispose, con un’alzata di spalle. “Ma sa, dopo un po’ diventa routine. Certo, sarà la prima parata ufficiale per Heussmann, una nuova era per un nuovo Führer, ma alla fine è solo un altro giorno. La vera Berlino è quella che vediamo quando non ci sono parate”.
Il traffico si fece più intenso man mano che ci avvicinavamo al centro. Strade affollate di macchine, limousine di rappresentanza, e motociclette della polizia.
“Ovviamente oggi sarà speciale”, aggiunse Spitzer, notando la mia espressione. “Heussmann ha molto da dimostrare. Dopo tutto, succedere a un uomo come Adolf Hitler… beh, la pressione è alle stelle”.
Annuii, cercando di immaginare il peso che gravava su Heussmann. La sua prima celebrazione ufficiale dopo essere stato nominato leader supremo, la sua vetrina per mettersi in bella mostra davanti al mondo. Il suo passato sconosciuto giocava a suo vantaggio: nessuna storia personale per cui bisognasse essere all’altezza. La sua intera esistenza gli era davanti, non dietro.
Espirai un altro po’ di fumo, sempre con lo sguardo fisso oltre il vetro. “Ovunque ci si giri, ci sono bandiere e soldati. Non si sente mai come se questa città fosse sempre in guerra?” chiesi. Era un pensiero che si annidava nel mio cervello da quando ero atterrato.
Spitzer sorrise leggermente. “Perchè, non lo sono? Guardi questa folla, ognuno di loro combatte la propria guerra, signor Ridley. Anche lei”.
Le sue parole rimasero nell’aria, mentre la macchina proseguiva il suo viaggio verso la Reichkanzleramt Platz. Passammo accanto agli edifici governativi decorati a festa, e la presenza delle forze dell’ordine era ovunque: uomini della Schupo controllavano la folla, agenti delle SS erano posizionati in punti strategici. L’intera città sembrava pronta a scattare al minimo segnale.
Finalmente, la sagoma imponente di Reichkanzleramt Platz apparve all’orizzonte. Le colonne della Cancelleria del Reich si stagliavano contro il cielo blu, e la piazza era già gremita di gente. Decine di migliaia di persone si ammassavano in attesa, sotto la sorveglianza rigida dei soldati che mantenevano l’ordine.
Arrivammo ad un posto di blocco temporaneo. Due agenti delle SS si fecero avanti, mentre un altro, alzando la mano, imponeva a Spitzer di rallentare e di fermarsi. Il sole si rifletteva sui loro elmetti neri e lucidi, e sulle canne dei loro fucili d’assalto.
Un agente si accostò al finestrino del guidatore, e un altro al mio.
“Bitte Unterlagen und Genehmigung”, dissero praticamente in coro.
“Sofort”, disse Spitzer. Poi si rivolse a me. “I suoi documenti e l’autorizzazione dell’ambasciata, signor Ridley”.
Annuii e frettolosamente li estrassi dalla giacca e glieli diedi. Le SS scomparvero nel loro gabbiotto, per poi ritornare due minuti dopo e ridarci i nostri documenti. Storsi il naso quando vidi il timbro d’approvazione con la svastica stampato sopra la bandiera degli Stati Uniti.
“Vielen Dank, bitte fahren Sie fort”, disse una SS mentre ruotava la mano per farci proseguire. “Heil Hitler”.
Spitzer annuì quasi nervosamente mentre il finestrino elettrico si richiudeva.
La macchina si fermò all’angolo di una strada che portava direttamente verso Reichskanzleramt Platz. Nonostante la distanza, già si poteva sentire una cascata di ottoni che riecheggiava tra i palazzi di Berlino. Scendemmo dall’auto e subito mi colpì la vastità della scena davanti a me. Ogni angolo era ricoperto da decorazioni rosse e nere, i colori del Reich. Gli stendardi con l’aquila dorata sventolavano imponenti, aggrappati ai palazzi come guardiani silenziosi di un impero apparentemente indistruttibile.
Spitzer mi raggiunse sul marciapiede, aggiustandosi la giacca. “Impressionante, non trova? Il Reich sa decisamente come mettere in scena qualcosa di grandioso”, disse con un sorrisetto ironico. Lanciò uno sguardo alla folla che riempiva la piazza, poi aggiunse: “Non è solo per il discorso di Heussmann. È per mostrare forza. Tutte queste persone sono qui perché sanno che c’è in ballo molto di più.”
Camminammo insieme verso una zona riservata esattamente di fronte al palco principale che era appollaiato sotto il colonnato della Cancelleria. Qui era stata allestita una fila di sedie per funzionari e ospiti speciali, e il mio pass mi permetteva di accedere all’area stampa, che offriva una visuale perfetta sul podio da cui Heussmann avrebbe parlato.
Le tribune riservate agli ospiti di riguardo erano rialzate e imponenti. Le prime file erano già piene di ufficiali in alta uniforme, diplomatici e dignitari di tutto il mondo.
Spitzer prese posto su un seggiolino di plastica. Stavo per sedermi di fianco a lui, quando mi fece un gesto di diniego.
“No, signor Ridley, questo è riservato agli agenti”, mi disse. “Il suo posto come inviato americano è là”, e me ne indicò uno diverse file più in alto.
Salii le scalette di ferro avvertendo un leggero timore, e cercai il mio posto. Subito notai la figura inconfondibile dell’ambasciatore Bush, già seduto. Il suo viso era serio, il cappello ben posizionato sulla testa, gli occhiali scuri che gli davano un’aria distante e impenetrabile. Quando mi avvicinai, mi fece un piccolo cenno del capo, indicandomi il posto vuoto accanto a lui.
“Signor Ridley”, mi salutò con tono basso ma fermo. “Prego, si accomodi”.
Rimasi un attimo interdetto, e mentre mi sedetti diedi voce ai miei pensieri. “Non mi aspettavo di trovarla qui, ambasciatore”.
Bush si voltò verso di me, concedendomi un leggero sorriso che sembrava voler ammorbidire l’atmosfera. “E dove dovrei essere, Martin? Oggi è un giorno cruciale, non solo per il Reich, ma anche per noi. Non potevo certo mancare”.
Annuii, un po’ sorpreso dal suo tono pragmatico e diretto. “Ha ragione, ma... pensavo che preferisse osservare da una posizione più discreta”.
L’ambasciatore si sistemò gli occhiali da sole con un gesto misurato, lo sguardo rivolto verso il vuoto. “Discrezione e presenza possono coesistere. A volte, essere visibili è necessario per ricordare agli altri che siamo qui, che gli Stati Uniti osservano. E poi, questa non è solo una celebrazione, è una dimostrazione di potere. Bisogna esserci, per coglierne ogni sfumatura”.
Mi guardai attorno, cercando di elaborare le sue parole. La tribuna riservata ai dignitari era ancora in attesa di riempirsi, ma c’era un’energia palpabile nell’aria. Il rumore dei passi e dei mormorii riempiva lo spazio, creando una strana tensione che sembrava vibrare sottopelle.
“Certo”, dissi, abbassando lo sguardo verso il pavimento.
Bush annuì, poi si girò di nuovo verso di me. “Sa, ero sicuro che avrebbe chiamato, ieri sera”.
Sollevai lo sguardo, incuriosito. L’ambasciatore continuò, mentre salutò distrattamente un altro funzionario seduto qualche gradinata più sotto.
“Ho letto la sua inchiesta sull’Inverno Rosso del 1987, quella sull’invasione siberiana da parte dei comunisti cinesi dell’84 e prima ancora quella sullo scandalo Rockefeller-Berggruen dell’81. Lei non è uno che si tira indietro”.
Gli occhi scuri dietro gli occhiali riflettevano la sua esperienza, e per un attimo mi sentii come se fossi seduto accanto a un giocatore di scacchi che già vedeva ogni mossa futura sulla scacchiera. Mi trovai a guardare Bush con nuova curiosità. Le sue parole erano una combinazione di lode e sfida, come se volesse mettermi alla prova. Nonostante il tono colloquiale, avvertivo la sua presenza come un qualcosa di superiore a me.
Mi passai una mano dietro il collo, cercando di alleviare la tensione accumulata.
“Non mi sono tirato indietro allora, e non lo farò adesso”, risposi, mantenendo la voce ferma, anche se sentivo l’eco di quelle vecchie inchieste scorrermi dentro come cicatrici ancora aperte. La verità era che l’Inverno Rosso mi aveva segnato profondamente, e lo scandalo Rockefeller-Berggruen era stato il punto di svolta della mia carriera. Ma ora era diverso. Ora mi trovavo in mezzo a un intrigo ancora più profondo, in una Berlino che sembrava una pentola a pressione pronta a esplodere.
Guardai fuori dalla tribuna, verso la grande piazza che si stava lentamente popolando. Alcuni funzionari militari e civili iniziavano a prendere posto, mentre la gente comune si ammassava ai lati delle strade, in attesa dell’inizio delle celebrazioni.
“Oggi crede che la sua opinione su Heussmann possa cambiare?” chiesi, cercando di spostare la conversazione su un terreno più concreto.
Bush si tolse gli occhiali da sole, fissandomi negli occhi per un lungo momento. Sembrava valutare attentamente la mia domanda prima di rispondere. “Non lo so, Martin. Ludwig Heussmann è un mistero, per noi. Come forse sa, non abbiamo trovato nulla sul suo conto o sul suo passato. È come se non fosse mai esistito prima dell’ultimo anno”, disse Bush, la sua voce bassa ma carica di significato. “Nessun documento, nessuna traccia, niente che lo colleghi a un’identità prima di diventare leader supremo. E in una nazione come questa, un vuoto del genere è... inquietante”.
Mi appoggiai allo schienale della sedia, riflettendo sulle sue parole. Era raro che qualcuno in una posizione di potere potesse emergere senza lasciare alcun segno, nessuna traccia di carriera o collegamenti.
Eppure, dissi tra me e me, eccoci qui, con Heussmann a capo del regime più potente del mondo.
“Non le sembra strano che il popolo tedesco lo abbia accettato così facilmente?” chiesi, mentre la tensione cominciava a salire nella piazza sottostante. I preparativi erano ormai quasi completati, e le strade si stavano riempiendo di spettatori in attesa.
Bush si sistemò il cappello, quasi a voler riordinare i propri pensieri. “Il popolo accetta ciò che gli viene detto, specialmente in tempi di crisi. Heussmann è arrivato come una soluzione a quel vuoto di potere che nessuno voleva vedere. Una nuova figura che ha saputo riempire il silenzio lasciato dal declino di Hitler. Ma chi l'ha messo lì? E perché?”
Mi chiesi la stessa cosa. C’era qualcosa di profondamente sbagliato e sospetto in tutto ciò. Ludwig Heussmann non era un personaggio carismatico, né sembrava possedere la forza di volontà o l’aura di un leader naturale come lo fu Hitler o addirittura Mussolini. Tuttavia, eccolo, pronto ad affacciarsi dal balcone della Volkshalle e a ricevere il mondo intero nel Tag des Sieges.
“Quindi il suo dubbio è che Heussmann possa essere una pedina?” azzardai, cercando di trovare un filo logico in tutto questo.
Bush sorrise amaramente. “Come le dicevo ieri, non è solo una pedina, Martin. Potrebbe essere la mossa più pericolosa sulla scacchiera, proprio perché non sappiamo chi lo muove. E questo lo rende una minaccia, non solo per il Reich, ma per chiunque voglia mantenere un equilibrio”.
Le sue parole mi fecero riflettere su ciò che stava veramente accadendo dietro le quinte. Forse Heussmann non era semplicemente il nuovo Führer, ma una figura molto più complessa, una facciata per qualcosa di più grande.
“Cosa pensa che accadrà oggi?” chiesi, il tono basso e carico di tensione.
Bush rimase in silenzio per un momento, poi si tolse di nuovo gli occhiali e mi guardò con occhi che avevano visto troppe cose. “Oggi vedremo chi sta davvero tirando i fili”.
In quel momento, uno squillo di tromba sovrastò il vociare del pubblico. La piazza piombò in un silenzio quasi irreale quando tutte le persone, me compreso, si tacquero.
Poi dalla mia destra, prima sommessamente e poi sempre più forte, provenì un rombo di mezzi. Sette motociclette BMW, in formazione a cuneo, entrarono sul lastricato di Reichkanzleramt Platz. Il rombo si intensificava, echeggiando tra gli edifici imponenti che circondavano la piazza. Poi apparve anche un’automobile d’epoca, sinuosa e scura come una macchia d’inchiostro sul marmo.
Ogni spettatore, dai funzionari ai semplici cittadini, sembrava trattenere il respiro, come se la comparsa di quella macchina fosse la materializzazione di una forza irresistibile. La Mercedes 770 W150, la stessa usata da Hitler, con la sua carrozzeria nera lucida, avanzava con lentezza ma con una determinazione palpabile, come un predatore in agguato, accompagnata dalle sette motociclette che fungevano da scorta personale del Führer.
Quando Ludwig Heussmann si alzò in piedi, la folla si animò come un’onda improvvisa, esplodendo in un fragore di applausi e grida di acclamazione.
Il suo braccio si alzò in un saluto rigido, meccanico, lo stesso gesto che avevano fatto tanti leader prima di lui. La sua figura imponente, con l’uniforme perfettamente stirata, emanava una sicurezza glaciale, come se fosse intoccabile. Il sole si rifletteva sulla svastica d’argento della sua visiera, conferendogli un’aura quasi divina, lontana e autoritaria.
“Sieg Heil! Sieg Heil! Sieg Heil!”
Un’unica voce, potente come un terremoto, proveniva dalle tribune tutt’attorno a noi. Ave Vittoria.
Una litania terrificante, che fece nascere in me il primitivo istinto di darmela a gambe e scappare il più lontano possibile. Invece rimasi, e osservai decine di migliaia di persone trasformarsi in un mare rosso, bianco e nero quando, tutti contemporaneamente, fecero svolazzare le bandierine con la svastica.
Il convoglio di Heussmann proseguì, e dietro di lui apparve un’altra automobile, anch’essa nera ma decisamente più moderna. Una grande apertura del tettuccio permetteva all’ospite di uscire con mezzo busto e di godersi il bagno di folla. Riconobbi immediatamente chi stava salutando il pubblico in giubilo. Vestita con uno sfarzoso tailleur nero, e con la svastica circondata da stelle ben salda sul braccio sinistro, Margaret Thatcher sfilava a poche decine di metri di distanza dal Führer stesso. La seconda persona più potente di tutta l’Europa.
Il convoglio rallentò, fermandosi proprio davanti al palco d’onore, e la tensione tra la folla crebbe palpabile. Gli spettatori trattenevano il fiato mentre Heussmann scendeva dall’auto, avvicinandosi alle scalinate come se ogni passo fosse parte di una coreografia perfettamente orchestrata. La piazza risuonava di un silenzio carico d’aspettativa, rotto soltanto da qualche mormorio trattenuto e dallo sventolio delle bandiere.
Alle sue spalle, Thatcher scese dalla sua vettura, con movimenti altrettanto decisi e misurati. Il loro arrivo sul palco fu accolto da un nuovo boato, un’ondata di entusiasmo che si riversò come un fiume in piena tra le migliaia di persone assiepate in ogni angolo della piazza. La folla ondeggiava come un mare in tempesta, un coro di voci che inneggiavano al Führer e alla sua alleata con una devozione quasi febbrile.
Con un’espressione dolceamara, non potei fare a meno di osservare Margaret Thatcher sul palco, immobile e sicura come una roccia, e pensare a come, nonostante tutto, fosse ancora lì.
Era ancora al comando, Presidente della Commissione Europea, nonostante l’Inverno Rosso e i massacri che avevano intriso di sangue le strade di Parigi, Varsavia, Copenaghen o le città del Protettorato più vicine al confine del Reich. Ricordavo ogni singolo dettaglio della mia indagine, ogni documento, ogni testimonianza: ore e ore di lavoro per ricostruire il quadro completo di quella stagione di morte e violenza, nella speranza che la verità avrebbe portato giustizia, o quantomeno un’ombra di responsabilità su chi stava al vertice.
E invece, eccola lì, impeccabile come sempre nel suo sfarzoso tailleur, il braccio sinistro decorato dal simbolo del potere che, in qualche modo, sembrava essere stato rinforzato anziché scosso da tutto quel sangue. Quell’espressione incrollabile, lo sguardo sicuro di chi è convinto di aver vinto ogni battaglia anche solo per il fatto di essere ancora in piedi. Era come se la mia indagine e le morti di migliaia di civili fossero solo un rumore di fondo, una scomoda parentesi di cui nessuno più voleva sentir parlare. Thatcher, con la sua astuzia e il sostegno incrollabile del Partito Nazista Europeo, aveva fatto sì che i fatti fossero ignorati, che la verità fosse modellata, come argilla, per servire ai suoi scopi.
Il sorriso si fece più amaro mentre ripensavo a tutto il tempo speso, alle notti in cui avevo creduto che il potere della verità potesse prevalere. Ma lei era ancora lì, intoccabile, persino venerata, come se i morti dell’Inverno Rosso fossero solo una pagina trascurabile, un minuscolo appunto della sua lunga carriera politica.
Un rispetto contorto e grottesco s’insinuava in me: era una maestra nell’arte della sopravvivenza, un emblema dell’inossidabile volontà di chi è disposto a sacrificare ogni cosa, persino l’umanità, pur di restare al comando. Margaret Thatcher non era solo una leader; era un simbolo della vittoria del potere sulla verità.
Ma allora perché il Partito non aveva scelto lei come nuova Führer? Perché Ludwig Heussmann? Più me lo domandavo, meno sembrava che la risposta potesse aver senso.
“Cristo santo. Diventa più inquietante ogni anno che passa”, bisbigliò Bush con lo sguardo fisso sulla presidente della Commissione. “Quella chioma laccata che si porta in testa… sembra la criniera di un leone malaticcio”.
Non potei trattenere un sorriso. “La criniera del leone,” mormorai, “eppure, anche in questo è coerente, ambasciatore. Le somiglia più di quanto ci piacerebbe ammettere”.
Avvertii subito di aver dato troppa voce ai miei pensieri, e mi sentii lo sguardo di Bush addosso, pesante come un mantello piombato. Serrai la mascella, ma non l’ambasciatore non disse nulla.
Un altro squillo di trombe, e nuovamente calò il silenzio. Dagli altoparlanti sparsi per tutta la piazza cominciò a risuonare una sinfonia potente e maestosa, come se fosse l’acqua di un fiume in piena. L’inno del Reich, il Deutschlandlied.
Deutschland, Deutschland über alles, über alles in der Welt,
wenn es stets zu Schutz und Trutze brüderlich zusammenhält.
Von der Maas bis an die Memel, von der Etsch bis an den Belt:
Deutschland, Deutschland über alles, über alles in der Welt.
Migliaia di braccia si rizzarono nello stesso momento, e altrettanti voci cominciarono a cantare in coro.
Sia io che Bush che tutti gli altri inviati americani ci levammo in piedi, ma nessuno di noi alzò il braccio destro. Ascoltammo in silenzio il popolo che rendeva omaggio alla Patria. Accanto a me, Bush teneva lo sguardo fisso in avanti, gli occhi celati dietro le lenti scure. L’assenza del braccio destro alzato, tra noi inviati americani, ci rendeva stranieri visibili, figure in netto contrasto con quel fiume di braccia tese. Mi sentii come se stessi sfidando quella marea di voci, pur senza far nulla di diverso dal restare fermo.
Dopo qualche minuto l’inno si acquietò, e tutti ci sedemmo. Heussmann si avvicinò alla pletora di microfoni che infestavano il podio.
“Liberi cittadini del Reich, oggi celebriamo la grande vittoria che ha definito il nostro destino. Fu sotto la guida del nostro Führer, Adolf Hitler, che la Grande Germania sconfisse il colosso russo e trasformò il mondo. L’Unione Sovietica fu cancellata dalla mappa, e con essa la minaccia di una vita sotto il giogo di dottrine contrarie a ogni valore umano”.
Heussmann ovviamente parlava in tedesco, ma da un piccolo altoparlante alle nostre spalle un traduttore simultaneo ripeteva il discorso in inglese. Mi adagiai meglio contro lo schienale.
“Proprio in questa data, il 6 agosto di quarantacinque anni fa, due nostri bombardieri tedeschi solcarono i cieli d’Oriente e sganciarono i primi ordigni atomici della storia su Mosca e Leningrado, spazzando via il cuore dell’impero sovietico. Quel giorno dimostrammo al mondo intero la supremazia della scienza e del genio tedesco. Le armi del dottor Heisenberg non solamente segnarono l’inizio di una nuova era, ma relegarono un’ideologia corrosiva che minacciava di consumare l’Europa ai soli territori sottosviluppati della Repubblica Socialista Cinese.
“Oggi come allora, non possiamo dimenticare le radici della nostra forza: la fedeltà alla nostra storia e la volontà di mantenere un mondo ordinato, stabile, prospero. Per il Reich, l’ordine non è solo un ideale, ma un dovere; la pace non è solo un auspicio, ma una promessa. È nostro compito, nostro privilegio, assicurarci che il sacrificio di quanti hanno dato la vita per la nostra vittoria non sia stato vano, e che il mondo conosca la stabilità e la sicurezza sotto la guida ferma della nostra nazione”.
Studiai i movimenti del corpo del Führer, le sue movenze, il suo tono della voce. Non sembrava affatto che quella fosse la sua prima volta che si stesse rivolgendo alla Nazione, anzi. Ogni volta che mi concentravo su un particolare della sua persona, mi pareva che un altro me ne scappasse via da sotto gli occhi. Era decisamente frustrante.
Heussman rivolse uno sguardo veloce ma pregno di significato verso Margaret Thatcher.
“Questo anniversario non è solo la memoria della nostra supremazia, ma anche un impegno per il futuro della Confederazione Europea, la cui unità e prosperità rappresentano l’essenza e lo spirito di ciò che abbiamo conquistato e costruito. Un unico continente, unito sotto un un’unica visione. Era questa la visione di Adolf Hitler, del suo popolo e del suo Reich. È per mantenere questa Europa forte e sicura che ci impegniamo in missioni di pace oltre i nostri confini: non perché il Reich brami potere per se stesso, ma perché è nostro dovere, il nostro privilegio, estendere l’ordine e la stabilità in ogni angolo del mondo.
“Pensiamo ai nostri soldati in Medio Oriente, che operano sotto il germanico vessillo per mantenere la stabilità in una regione cruciale. O nelle lontane isole del Sud-Est Asiatico, ad aiutare i nostri alleati giapponesi a reprimere le violenze e le insurrezioni e a portare ordine e stabilità. Mentre altre potenze propagano caos e distruzione, il Reich interviene, sempre e soltanto, come una forza di pace e di protezione. Così come Hitler aveva promesso al mondo una nuova epoca di sicurezza e di ordine, noi continuiamo a onorare quel patto, con la stessa incrollabile determinazione”.
Anche Bush parve aver colto la non-così-nascosta allusione che il Führer aveva fatto alle missioni estere del governo degli Stati Uniti. Cambiò posizione sulla sedia, accavallando l’altra gamba, e incrociò le braccia sul petto. Sembrava essere stato punto sul vivo.
Heussmann si avviò verso la conclusione del suo discorso. “Sappiamo bene che il futuro richiede vigilanza. In un mondo che cambia così velocemente, ci sono ancora forze che tenterebbero di minare la nostra unità, e tentano di sovvertire ciò che abbiamo costruito con il sangue e la tenacia. A tutti questi avversari diciamo: il Reich rimarrà saldo, saldo nella difesa della sua cultura e della sua razza superiore, saldo nella sua volontà di potenza, saldo nella volontà di proteggere chi, accanto a noi, crede nella forza e nel valore della civiltà.
“Quarantacinque anni di pace. Quarantacinque anni di progresso. Questo è il nostro lascito. E a voi, a ciascuno di voi che oggi rinnova il patto con la grandezza della nostra Nazione, chiedo, non come vostro leader ma come vostro concittadino: teniamo fede alla nostra missione, ricordiamo chi siamo, e costruiamo insieme il futuro che solo noi, il popolo del Reich, possiamo forgiare. E così, avanti, sempre avanti, verso un domani che appartiene a noi e solo a noi. Sieg Heil!”
Non appena Heussmann concluse il discorso, la folla esplose in un’acclamazione frenetica, trasformandosi in un unico corpo in movimento. Le mani si alzarono a migliaia, le voci unirono il loro slancio in un fragore assordante che sembrava scuotere persino le pareti degli edifici attorno alla piazza. Sembrava di assistere a un rituale che aveva il potere di cementare quell’oceano umano in un’unica anima, un impeto collettivo che ribolliva d’energia, seguendo la figura di Heussmann come se fosse una calamita inarrestabile.
Accanto a me, Bush restò in silenzio, ma non riusciva a mascherare la sorpresa che traspariva dai suoi occhi, sebbene dietro agli occhiali scuri. Lo sguardo, sfuggente per la maggior parte del discorso, ora si era fatto attento e persino teso. Era evidente che non si aspettava una tale capacità di comando; potevo quasi percepire il suo disagio nel riconoscere quanto potente fosse quell’uomo nel tenere la folla all’amo, nel trascinare ciascuno dei presenti in quella spirale ipnotica di nazionalismo e fervore. Bush rimase per qualche istante a fissare il palco, mentre la folla continuava a esaltarsi, un crescendo che non accennava a diminuire. Notai che aveva uno sguardo che oscillava tra l’incredulità e un cinico disincanto. Mi si sporse leggermente verso, abbassando la voce quanto bastava per essere udito solo da me.
“Avanti, sempre avanti,” sussurrò, quasi ridacchiando. “Quasi ci credo, Martin. È incredibile quanto abbiano perfezionato l’arte di tenere la folla sulle spine, dosando le parole come un veleno che scivola lento”.
Lo osservai con attenzione mentre si aggiustava gli occhiali da sole, come se volesse nascondere ogni traccia di emozione dietro le lenti scure. Non mi era chiaro se fosse ironico o davvero impressionato dall’efficacia oratoria di Heussmann. Forse un misto di entrambi.
“Non ha mai sentito una parola tanto ridondante che riesca a passare come se fosse oro colato?” continuò, scrollando appena le spalle. “Loro ascoltano, pendono dalle sue labbra, ed ecco che improvvisamente una parola come futuro assume proporzioni quasi bibliche. Neanche fosse Mosè con le tavole dei Dieci Comandamenti”.
Annuii, notando come Bush trovasse assurda quella formula ripetitiva, quel linguaggio studiato per evocare potere e destino. Lui stesso sembrava lottare con l’ironia di essere presente a quella manifestazione, diplomaticamente obbligato a non mostrare alcun dissenso.
“Una cosa gliela devo riconoscere,” concluse, con un sorriso asciutto. La folla drizzò lo sguardo verso il cielo mentre tre elicotteri passavano sopra le tribune.
“Il Reich ha capito come dirigere la scena. Da noi non riescono così bene a far credere al popolo di essere i prescelti di qualche disegno grandioso. Non con la stessa precisione, quantomeno” disse, accennando vagamente al palco.
Lo continuai a fissare per un po’, poi anche io mi concessi di alzare lo sguardo. Delle enormi bestie d’acciaio, tenute in volo da due rotori ciascuno, solcarono il cielo della prima mattina in direzione est-ovest, come i sostituti meccanici del sole. Attaccata al ventre di ognuno, penzolava una bandiera talmente grande che non mi sarei stupito se fosse bastata ad impacchettare la facciata del mio condominio. La prima, rossa e nera, era quella del Partito; subito accanto, la bandiera nazionale del Reich, bianca e luminosa, risaltava con i suoi simboli inconfondibili. Infine, a chiudere il trittico, vi era il gonfalone rosso e oro delle Forze Armate.
Subito dopo gli elicotteri, un rombo argentino, pulito, quasi come quello di un aspirapolvere, annunciò l’arrivo della Luftwaffe. Una decina di Dornier Alpha Jet A si impadronì della volta celeste. Erano disposti a formare il numero 45, in perfetta sincronia l’uno con gli altri. Quell’esempio di chirurgica precisione mantenuta a decine di metri da terra e a quasi 150 nodi di velocità, fece levare un ruggito di eccitazione dal pubblico.
Heussmann, la Thatcher e tutti gli altri ministri e rappresentanti della nazione applaudirono in maniera composta ma comunque vigorosa. Il Führer scambiò qualche parola all’orecchio della presidente della Commissione, che si lasciò sfuggire una risata.
Cercavo di immagazzinare quante più informazioni possibili. Non avevo tempo per scrivere tutto sul taccuino, lo avrei fatto quella sera stessa in albergo.
I jet scivolarono oltre il cielo della piazza, lasciando una scia perfetta che si dissolveva lentamente tra le nuvole placide. Non appena il rombo dei motori si affievolì, il silenzio durò solo un istante, prima che una nuova ondata di rumori sordi riempisse l’aria.
I soldati avanzarono in file perfettamente allineate. Ogni piede che colpiva il suolo, ogni braccio che si alzava in perfetta sincronia formavano un movimento univoco, meccanico e austero, quasi fossero un unico organismo composto da centinaia di individui. Le uniformi impeccabili, decorate con i simboli del Reich , scintillavano al sole, mentre i gradi e le medaglie riflettevano i raggi luminosi come piccoli specchi. Alcuni soldati tenevano fucili con una postura rigida, le armi serrate al petto come se fossero estensioni del proprio corpo; altri portavano bandiere, che sventolavano con il minimo movimento mentre avanzavano.
Dietro le prime file, una seconda formazione di soldati con le baionette innestate aggiungeva un tocco di aggressività: file e file di punte di acciaio scintillanti, come una foresta di lance che si muoveva al ritmo di un cuore di ferro. Mi vennero in mente le parole di Spitzer sulla quasi assurda perfezione alla quale gli uomini d’arme di questa nazione devono essere sottoposti.
Il pubblico osservava ed esultava in estasi, rotto solo dal rimbombo dei passi che sembrava amplificarsi tra le mura degli edifici circostanti, risonando in un eco imponente.
A seguire le schiere di soldati e mezzi corazzati, avanzava con passo regale la formazione delle cosiddette “Madri della Patria”, donne ariane scelte per rappresentare l’ideale della purezza e della dedizione al Reich. Vestite in abiti candidi, come antiche figure uscite da un mondo mitologico, marciavano in gruppi compatti, le mani posate in grembo, le spalle dritte e il mento sollevato con fierezza. Ognuna indossava un mantello rosso, leggero e delicato che ondeggiava leggermente a ogni passo, creando un effetto visivo quasi ipnotico. Anche loro, vennero accolte da applausi e grida di approvazione da parte del popolo.
Dai lati della strada principale, i cingoli dei mezzi corazzati iniziarono a muoversi in sincronia. I carri armati Leopard 2, verniciati di un grigio metallico, avanzavano in un ordine impeccabile, quasi una danza meccanica. Rappresentavano la massima espressione del genio militare nazista. Alcuni esibivano armamenti anticarro o contraerei, mentre altri trasportavano missili capaci di colpire a migliaia chilometri di distanza.
Un gruppo di veicoli corazzati sfilò tra le prime file, con il metallo verde lucido che pareva la superficie di una palude ghiacciata. In lontananza, vidi uno dei camion trasporto-truppe, un Mercedes, avvicinarsi lentamente alla tribuna: massiccio, pesante, il simbolo del Reich ben visibile sul fianco.
La sua mole incuteva rispetto, e persino un senso di invulnerabilità. La gente applaudiva.
Poi, senza preavviso, quegli applausi esplosero in un inferno.
Un boato assordante squarciò l’aria. Il camion si frantumò in una deflagrazione di metallo, plastica, olio e fiamme, scaraventando pezzi incandescenti in ogni direzione. Il palco del Führer scomparve prima dietro la nuvola incandescente, poi dietro quella di fumo.
L’esplosione fu come un pugno in faccia, e mi ritrovai a terra, spinto in basso dall’istinto e dal terrore, con le mani a proteggermi la testa.
La folla, pochi istanti prima ordinata e solenne, ora era una mandria impazzita che fuggiva in ogni direzione. I militari sulla tribuna si agitarono, alcuni correndo verso i dignitari, altri scattando in ogni direzione nel tentativo di contenere l’onda di caos che si era scatenata. Qualcuno mi afferrò il braccio. Bush, lo sguardo carico di paura. Disse qualcosa ma non capii. Le mie orecchie continuarono ad udire il fischio dell’esplosione. Agii d’impulso, lo sollevai e me lo misi vicino mentre la tribuna si trasfomava in un formicaio umano. Cercai di tenere Bush saldo, ma la pressione della folla era schiacciante, e improvvisamente non riuscii più a vedere nulla: solo volti sconvolti, corpi che mi travolgevano da ogni parte.
“Che cazzo… che cazzo è succ-” le parole di Bush gli morirono in gola mentre tossiva.
Cercavo disperatamente di respirare anche io, ma l’aria era satura di polvere, fumo e panico. Qualcuno mi spinse violentemente a un fianco, e mi ritrovai sbilanciato, cadendo in ginocchio tra le gambe della gente che fuggiva.
Bush venne trascinato via. Cercai di trattenerlo, ma la spinta della folla era inarrestabile, e in un attimo fui travolto dalla corrente, separandomi da lui.
Poi un altro colpo, questa volta alla testa, e un’ondata di vertigine mi avvolse. Cercai di aggrapparmi a qualcosa, qualsiasi cosa, ma le gambe mi cedettero e colpii la fronte contro lo spigolo di ferro della tribuna. Il mondo iniziò a sfocarsi e le immagini si sciolsero in una massa indistinta di movimento e rumore.
L’ultima cosa che percepii fu il suono di una sirena, lontano, poi il buio assoluto mi travolse.