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Autore: Angel_lilac    30/11/2024    1 recensioni
Ma ora, a distanza di anni, capisco che non c’è sensazione peggiore che scrivere parole a vuoto, mentre il muro si curva dietro la mia schiena, inghiottendomi. Non c’è più nessuna superficie su cui riposare, nessun luogo che mi faccia sentire al sicuro. Il terreno è debole, i muri si sgretolano, gli alberi crollano, l’erba si appiattisce sotto al mio peso. Cosa succede quando non esistono più stanze né suoli su cui camminare? Cosa succede quando sei solo un peso morto, che cade all’infinito?
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
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E ancora non ho capito se sia un bene o un male 

 

Di tutti i momenti passati insieme, ce n’è solo uno che ricordo in maniera così vivida. Ancora fatico a comprenderne il motivo. La cosa divertente è che non eravamo veramente insieme, ma tu mi stavi tenendo compagnia al telefono mentre camminavo verso casa. Avevi un tono divertito, sembrava quasi di ascoltare una canzone. Quella sera avevamo cenato al tuo appartamento, tu avevi cucinato il risotto agli asparagi, comprati da me dal fruttivendolo sotto casa, ma non ero potuta restare a dormire perché il tuo coinquilino era tornato ubriaco da quella festa al Lido ed aveva vomitato sul divano letto. 

Ogni volta che ripercorro la chiamata nella mente, è come se stessi vivendo quello stesso momento da capo. Ricordo la sensazione di poter camminare con le lacrime di pioggia, seguire il loro percorso nelle fughe fino al canale, mescolarsi col sale marino e ondeggiare fino all’orizzonte. Ad ogni ponte che attraversavo lanciavo uno sguardo: quella sera l’acqua era piatta. Non soffiava il vento e Venezia piangeva. C’era silenzio ma una voce al telefono si assicurava che arrivassi a casa senza incontri indesiderati. Mi sentivo così al sicuro, l’unico rumore che percepivo era quello dei miei passi. “Sei troppo misantropo” aveva pronunciato la mia bocca. “Perché, tu?” mi risposi al di là del telefono. I nostri toni erano scherzosi e non mi accorgevo di quanto il mio sorriso potesse sembrare sciocco al cameriere che urtai per sbaglio, mentre passavo accanto ad uno dei tanti ristoranti a ridosso del canale. Le calli erano buie, ma non erano mai riuscite a farmi paura. E poi la tua voce suonava così dolce nelle mie orecchie che quasi mi sarei messa a riposare in quel punto, sui gradini del Ponte del Suffragio, con la luce della luna che mi baciava le palpebre. 

Ogni sera in cui non dormivo accanto a te mi sembrava quasi di soffocare, da sola in quel vecchio letto in legno di pino e le braccia vuote. I miei compagni di corso erano così invidiosi che fossi riuscita a trovare un appartamento senza coinquilini a buon prezzo, ma io non potevo condividere il loro entusiasmo. Nonostante la famiglia del piano di sotto fosse piuttosto rumorosa, c’era il rischio di sentirsi molto soli. Pochi mesi fa una coppia di settantenni ha preso il loro posto ed ora l’unico suono che percepisco è quello della televisione, che alterna a ripetizione gli stessi canali e gli stessi programmi, finché non si spegne ogni sera alle 21:30. Ormai mi sono abituata ai silenzi. 

Ora, svegliarsi nel letto di qualcun altro è una prospettiva che mi terrorizza. Quella sensazione di incertezza che i primi minuti del mattino portano con sé non può certo trovare conforto nella presenza di un estraneo il cui respiro diventa un rumore insopportabile, un trauma per i sensi. Il cinguettio degli uccellini è ormai una l’unica melodia abituale, una coccola che mi concedo ogni mattina. E privarmi di quella melodia significa incapacità per una giornata intera di godermi la vita. Ogni piccola cosa mi irrita. Lo so perché mi era già capitato, proprio con te. Ma con il tempo mi ero abituata a quel respiro leggero, ondeggiante, a quel braccio che ad ogni mio movimento si assicurava di cingermi il fianco.

Ogni tanto ripenso a quando appoggiavo la testa sul tuo petto e ascoltavo il tuo battito, per poi scoppiare in lacrime, immaginando il giorno in cui quello stesso cuore sarebbe stato silenzioso, in una mattina invernale, sessant’anni nel futuro. Quello stesso cuore che in quel momento mi faceva vibrare le tempie. La cosa era così inconcepibile e allo stesso tempo inevitabile che mi si stringeva la gola.

Dicono che stando insieme per tanto tempo ci si fonda in un’unica persona. Ho sperato fino all’ultimo che sarei stata io ad assomigliarti.

Stamattina mi sveglio in un letto vuoto, le lenzuola sono scivolate sulla pelle nuda e si sono fatte un bozzolo candido che giace sul fondo del letto. La pioggia scorre lungo le vetrate ed è come se il suo rumore mi stesse solleticando le orecchie ininterrottamente da quella sera di due anni fa. 

Neanche le mie palpebre possono più proteggermi dalla quantità di luce che fa ingresso nella stanza. Solo in questo momento mi accorgo di non aver chiuso le ante ieri sera. Il sole illumina la copia di “La bella estate” che ho abbandonato sul letto accanto a me, aperta e con le pagine rivolte verso il basso per tenere il segno. È ammucchiata, insieme ad un paio di pantaloni di mio padre che indosso in casa, il computer in standby e un libro più impegnativo che sarebbe dovuto essere la mia prima opzione per la lettura serale. Ho sempre considerato inviolabile il lato del letto non occupato dal mio corpo, ma ultimamente è diventato luogo di accumulo, conseguenza inevitabile di serate trascorse nell’immobilità, testimonianza di un’apatia dei sensi. La stanza è inondata da un odore nauseante di gelsomino, quello dei vicini, e il ventilatore sbatte continuamente contro la gamba della scrivania, insistendo per completare il suo movimento. Tu non saresti mai riuscito a sopravvivere con un rumore così insistente. «Basta spostarlo di pochi centimetri, è così difficile?» avresti mormorato, mentre lasciavi dietro di te un rumore umido dei tuoi piedi sudati contro il pavimento. 

Ci sono tue espressioni che non riesco a levarmi dalla testa. Avevi un linguaggio corporeo curioso, inizialmente impenetrabile, eccitante una volta compreso. Ma mai prevedibile. Non l’ho mai ritrovato su nessun altro. Quando penso a te, non è mai interamente; penso al tuo labbro superiore che disegna una curva acquosa quando sorridi. Penso ai peli biondi delle tue braccia, che d’estate diventano quasi bianchi e contrastano con la pelle abbronzata.

Stanotte ho fatto un sogno strano, di quelli che ti fanno restare a letto più del necessario perché speri di poterlo continuare per sempre. Ho sognato che eri dovuto partire per un lungo viaggio per il mare, su una barca rossa che ospitava un centinaio di persone. A quanto pare, ti eri stufato della semplice vita che conducevamo nel nostro piccolo villaggio. Io, depressa e arrabbiata di essere stata abbandonata, trascorrevo tutte le mie giornate sulla riva, sperando di avvistare la barca rossa che faceva ritorno. Nel frattempo al villaggio avevano cominciato ad accadere cose strane, non ricordo precisamente, ma mi sembra che la montagna accanto a noi si sgretolasse ed enormi massi distruggevano le nostre case. Io avevo iniziato a prendermi cura dei feriti, li ospitavo e li nutrivo, occupando finalmente le mie giornate. Un giorno, mentre osservo l’orizzonte, compare finalmente la barca rossa e corro a chiamare tutti. Quando torni sei diverso, quasi completamente stravolto e ci racconti le tue esperienze per mare, le varie tappe nei paesi sulle coste del mondo, le esperienze straordinarie. Io ti ascolto parlare, distante. Non so se essere felice del tuo ritorno o arrabbiata che te se ne sia andato. La mattina seguente avvengono altri crolli e scopriamo che non sono accidentali: c’è qualcuno che sta cercando di eliminare delle persone specifiche del nostro villaggio. Noi, che non siamo in pericolo, offriamo loro protezione, ma alla fine anche le nostre case vengono distrutte e i massi riescono ad uccidere le persone a cui erano destinati. Tu sei cambiato ed io non ho più un ruolo in questo villaggio. Ci allontaniamo così, quasi naturalmente. 

Forse sarebbe stato meglio se la nostra storia si fosse conclusa così, tu che parti per un lungo viaggio e io che imparo a vivere da sola. Ma senza rincontrarci mai più, sarebbe una delusione per entrambi.

E poi non mi è mai piaciuto il mare. Un sentimento abbastanza paradossale, dal momento che io e te abbiamo sempre vissuto su una piccolissima isola. 

Mi hai raccontato che tuo papà teneva una barca, dove passasti tutta la tua infanzia nei mesi estivi. Quando ci siamo conosciuti, la barca era già stata venduta. Però, ora che ci penso, ci siamo stati su una barca insieme, nell’estate di quattro anni fa, durante il tour delle grotte sulla costa salentina, quella volta in cui abbiamo visto il punto in cui si baciano l’Adriatico e lo Ionio. Era già fine agosto, ma fu la prima e unica volta in tutta l’estate in cui mi tuffai in mare. 

L’altro giorno ho riletto il diario che iniziai poco dopo la nostra prima uscita, a metà marzo di sei anni fa. Il 27 ottobre scrissi:

 

Sono felice e mi sento molto sensibile alla vita. Vorrei vivere lontano da tutto e tutti. Quello che già ho mi riempie. Non voglio sensazioni superflue.

 

Due anni dopo, lo stesso giorno, scrissi: 

 

Ho troppa paura che le cose che mi sono sempre sembrate normali stiano in realtà lentamente peggiorando, finché non raggiungo un livello di apatia estremo in cui non mi accorgo più di niente. Ho paura che lui non mi trovi più interessante e che si perda quel momento in cui eravamo la cosa più importante.

 

Il marzo seguente scrissi: 

 

Lui mi sembra strano, come se non fosse mai soddisfatto di nulla. A volte mi dice che sono fredda. Ho questa immagine di noi sdraiati che ci guardiamo, con i volti incollati e penso che vorrei vivere per sempre così. 

 

Ed il mese seguente:

 

Vorrei che ci fosse sempre qualcuno che vegliasse su di lui. Io spesso non ci sono, spesso non so come sta, spesso non lo capisco e spesso sono egoista. Vorrei che qualcuno si prendesse cura di lui meglio di quanto faccia io, così che avesse sempre tutto il meglio che c’è. 

 

Dopo racconti di giornate estive trascorse al lago o da tuo zio alla baita in montagna, a dicembre di quello stesso anno scrissi:

 

Mia mamma dice che prima o poi si stuferà di me, dato che sono scontrosa. Ed è vero che sono scontrosa. Ma ogni tanto penso che lui sia una proiezione della mia mente, non una persona in carne ed ossa, con pensieri propri. Come può vedere cose che io non vedo? 

Vorrei che portasse a spasso i miei occhi, quando non è con me.

 

Le ultime volte che scrissi su quel diario era solo per parlare dell’università e del nuovo lavoro al pub che cominciai durante il secondo semestre del penultimo anno. Io e te ci eravamo già lasciati, ma non volevo confessarlo in quelle pagine perché, dopo aver documentato tutti i nostri momenti insieme, annullarli in poche righe la vedevo come una sconfitta atroce. E ancora non ho capito se sia un bene o un male che abbia comprato un nuovo taccuino e in una mattina ci abbia scritto tutte queste righe. Ancora non ho capito perché mi sto rivolgendo proprio a te, con cui non parlo da anni e c’è persino il rischio che tu non sia più la stessa persona. Forse perché penso che vomitare pezzi della nostra relazione in questo testo possa finalmente aiutarmi a comprendere come siamo arrivati qui, fisicamente lontani, spiritualmente irraggiungibili. Forse è solo un modo per accettare la fine di tutta questa storia. Ma se questa era la mia intenzione, devo aver fallito perché ancora mi ritrovo a sperare che le prossime notti non abbiano più questo sapore salato, ma il profumo della tua pelle che suda a contatto con la mia, il tuo shampoo alla camelia che rimane sul cuscino per giorni e il tuo dentifricio al lampone, perché la menta ti ricorda le caramelle di tuo nonno e ti rende malinconico. 

Ma poi ricordo il cielo malato di quelle giornate di fine agosto, quando l’odore pungente della tua pelle mi penetrava insistentemente le narici. Fuori era così silenzioso che mi sembrava di sentire il rumore della carta da parati che si scollava dal muro. E i tuoi genitori in cucina parlavano delle spese mediche di tua nonna, mentre il cane abbaiava alla ricerca della loro attenzione. Ricordo l’odore nauseante delle sue crocchette di pollo rovesciate sul pavimento e le mani callose di tuo padre che digitavano incessantemente sulla calcolatrice. E quella sensazione di pressione alle tempie che normalmente precede il pianto, ma che non riusciva mai ad esaurirsi. Avrei voluto che anche tu potessi provarla, ma le tue labbra erano tese in quell’espressione attenta, con le estremità che tendono verso il basso in maniera quasi impercettibile ed eri impegnato a seguire i sottotitoli di un film russo al piccolo televisore in camera tua. L’audio rimbombava tra lo scaffale su cui era incastrato lo schermo e e la parete dell’armadio e tu continuavi a riavvolgere alcune battute perché eri convinto di aver riconosciuto qualche parola. Al piano di sopra tua nonna imprecava ogni volta che la tosse taceva e tuo nonno camminava a piedi scalzi, con i talloni che calcavano il pavimento. Per qualche ragione, l’aria leggera che faceva vibrare la tenda non riusciva a penetrare nella stanza e la mia pelle si incollava alle lenzuola. 

Ricordo che credevo fosse la sensazione più terribile che avessi mai provato. 

Ma ora, a distanza di anni, capisco che non c’è sensazione peggiore che scrivere parole a vuoto, mentre il muro si curva dietro la mia schiena, inghiottendomi. Non c’è più nessuna superficie su cui riposare, nessun luogo che mi faccia sentire al sicuro. Il terreno è debole, i muri si sgretolano, gli alberi crollano, l’erba si appiattisce sotto al mio peso. Cosa succede quando non esistono più stanze né suoli su cui camminare? Cosa succede quando sei solo un peso morto, che cade all’infinito? La tua stanza diventa una “discarica” e la tua testa un accumulo di pensieri, sempre gli stessi da mesi, anni, non ne riesci più a formulare di nuovi. 

Ho perso persino la voglia di sbattere le palpebre. Se mi capitassi davanti, strizzerei gli occhi? Mi assicurerei che tu sia reale e non una sagoma distesa di oggetti accumulati che ogni notte scambio per te? Che immaginario stanco. Sono stanca persino di pensare. Sono stanca di pensare a qualcosa di migliore, a qualcosa che non c’è.

Non voglio più parlare con altri di te e di me, di quello che c’è stato. Non voglio rischiare che bocche approssimative ci riproducano in retoriche abusate. Voglio che si domandino come comunichiamo, se con sguardi seriosi, gesti premurosi, conversazioni concitate. Voglio che ti pensino entità ineffabile, come sei per me ora o come forse sei sempre stato. 

Quando mi chiedono di noi, vorrei farmi piccola piccola, infinitesimale particella di polvere. 

Sento la tua voce di notte come sirene che mi richiamano in mare e penso a quanto sarebbe dolce annegare tra quelle onde, piuttosto che rigirarmi tra le coperte e sperare che la tua voce smetta di solletticarmi le tempie. Se solo il tuo richiamo potesse svanire con tappi di cera. Forse sono solo le urla dei gabbiani che mi ricordano la tua voce graffiata e che somiglia a un’unica lunga lamentala. Ma se dormissi con le finestre chiuse mi soffocherei. È l’estate più calda degli ultimi cinque anni. O almeno è quello che dicono tutti. Io passo le estati rintanata in casa, con il ventilatore puntato sulla schiena, china a scrivere e a pensare. Occasionalmente mi concedo qualche bagno al Lido, nonostante sia appena a quindici minuti di distanza. Di giorno c’è troppa gente, l’acqua diventa torbida ed è un continuo vociare che mi fa esplodere la testa. 

Se vado alla spiaggia, ci vado di notte, osservo la schiuma di mare che riflette il bianco bluastro della luna. Immagino il suo sapore in bocca e sento le vesciche pizzicare al solo pensiero. 

È già settembre. Tra poco il mare si farà buio, introverso, di una misteriosità infeconda, piatta. Suscita rari entusiasmi la sua superficie grigia. Ma io credo che nasconda qualcosa di eccitante, segreti accumulati durante l’estate, trasudati dalla pelle dei bagnanti.

Voglio esaurire tutte le mie scorte di pensiero prima di addormentarmi di nuovo. Ma cosa mi rimane ancora da pensare? 

Penso che vorrei baciare le pieghe delle tue palpebre, sentire le tue ciglia solleticarmi le labbra. 

Vorrei inciderti la pelle con i miei canini, lasciare profondi solchi nei punti in cui è più dura. 

Penso che mi butterei nel mare d’inverno per cercare i tuoi segreti.

   
 
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