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Autore: trullitrulli    24/09/2009    2 recensioni
Ispirata a "Dracula" e al film "Van Helsing")
Iniziata con il titolo "Il vampiro. Il lupomannaro. La medium". In questa storia non ci saranno i nuovi vampiri inventati dalla Meyer. 1890, siamo in Transilvania, il centro di un vortice di leggende, non c'è un solo brandello di terra che non sia imbevuto di sangue. Fin da quando è morto Edward beve sangue umano, non esce di giorno, ha paura del sole e dei crocefissi, delle ostie consacrate e dell'acqua benedetta...
[...] Edward si chinò su di lei e il collo della giovane rispose venendo incontro alla sua bocca come se volesse un bacio.

La bocca sembrava eccitata e fremeva, pronta ad attaccarsi al collo.
La giovane sentì il soffio freddo di un respiro deliziato lambirle il collo e le spalle, che le vennero snudate con strappi di veste impazienti e frenetici.
Poi un dolore di un momento, quando le vennero piantati con foga i canini nel collo; il vampiro succhiò a lungo e a fondo, la ragazza lanciò soffi estasiati - ringraziandolo del sangue che le succhiava via come un gatto ringrazia con le fusa per le carezze che gli vengono fatte - finché non si sgonfiò morendo tra le braccia che la sostenevano.
Edward respinse il corpo nella neve con sanguinaria freddezza, impaziente di liberarsene, e con la manica si ripulìla bocca da ogni traccia della sua vittima. Tanto sazioda essere esausto, tornò a sentirsi se stesso dopo essere stato posseduto. [...]
Genere: Drammatico, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan, Jacob Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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[Il sangue è vita. E sarà la mia!]

(Dracula, il film)


1890 d.C. Romania, Transilvania.


Quando la nebbia cadeva sulle notti delle foreste della Transilvania, una terra stretta tra l’abbraccio dei monti, l’immagine della regione era un po’ più simile a quel che descrivono, un po’ più maligna e cattiva. L’epicentro di un vortice di leggende.
Il demonio, oppure un figlio del demonio, si era insediato lì, da qualche parte, come un’ erba velenosa, al buio e nella nebbia, ad aspettare di potersi nutrire per continuare la sua insana esistenza.
Era appena risuscitato dalla letargia del giorno.
Non poteva davvero temere nulla perché nulla poteva ucciderlo…quindi perché turbarsi dell’ostilità degli abitanti verso la sua persona?
Non erano forse un dolce pasto - anche se alcuni meno di altri -?
Aveva gusti molto delicati e particolarmente difficili: preferiva prede che almeno fossero maggiorenni, altrimenti il sangue sapeva di carente, povero di sapore, e di anni: dunque preferiva che fosse sottoposto ad invecchiamento, proprio come il vino, per essere mille volte più dolce sulla lingua e nel palato…
Naturalmente rispetto ad altri della sua specie aveva una natura più pratica e, guardandola dal punto di vista dei suoi sudditi e come gli piaceva credere, caritatevole.
Non uccideva mai più di quello che gli serviva, meno di quanto gli spettava, ma in fondo doveva anche tener conto dei ritmi della procreazione umana e darsi del tempo di digiuno.
Trattava, in effetti, come molto spesso si rendeva conto, il popolo di Transilvania come un enorme pollaio, lo amministrava e poi rivendicava diritti sulla vita degli animali.
Dominava quella terra per diritto di forza, cosa c’era, dunque, di sbagliato per i suoi abitanti a sottoporsi a qualsiasi voglia del padrone, che fosse anche un’insalubre sete di sangue, per l’eternità?
E perché per suo padre quella era una giustifica troppo debole?


Una giovane fanciulla, di bell’aspetto, aggraziata, non ancora ventenne, camminava attardandosi lungo il confine della foresta mentre l’ultima luce del sole spariva dietro la montagna. Giocava con il suo cane, prodigandosi per lui in attenzioni e carezze, ricambiati dall’animale con una sorta di gioia servile.
All’improvviso l’orecchio dell’animale fremette in allarme nella sua direzione.
Si liberò dell’umana che lo coccolava ed iniziò ad abbaiare verso il ramo dove lui stava appollaiato.
L’odore dei cani lo ripugnava, ne aveva una profonda avversione poiché non riusciva a vederli come più che cibo scadente, ed ora, un esemplare dal timbro irritante gli rovinava anche i suoi giochetti.
In quei momenti di sete non capiva come facessero i suoi fratelli di non-vivenza, a furia di volersi cibare di viventi come quello. Cosa avevano contro l’andamento della catena alimentare?
La ragazza si era irrigidita, ed aveva azzardato il primo passo indietro.
Lui adorava la sua andatura da animale guardingo.
Se avesse aspettato ancora un po’ si sarebbe fatta suggestionare e sarebbe tornata in casa. Uno spirito maligno non avrebbe potuto varcarne la soglia se non espressamente invitato.


La giovane continuò il cammino a ritroso nella neve abbagliante.
-Vieni qui, Dolly, torniamo a casa- fissò a lungo l’albero verso cui Dolly abbaiava con convinzione, ma questo rimaneva inerte, come appunto un albero.
Sentì che Dolly si allontanava, che seguiva un altro odore.
Si voltò e quasi ebbe un colpo, si aggrappò alla parte sinistra del petto come per reggere il cuore che le veniva a meno. Piegata in due, ansimò guardando le scarpe del nuovo ospite.
-Mi dispiace di averla spaventata- l’uomo si toccò l’ala del cappello, in segno di saluto e riverenza.
-Lei…lei è molto silenzioso, perfino sulla neve- la ragazza riprese fiato e contegno lisciandosi la gonna lunga, prima di guardare direttamente in faccia l’uomo e rimanerne folgorata.
Era la cosa più bella che avesse mai visto; il viso più perfetto ed angelico, pallido come se esistesse un bellissimo bagliore sottocutaneo a rischiararlo.
Un volto di cui non si poteva assolutamente dubitare, no, era troppo bello per potergli portar sospetto o rancore, la stava guardando con un sopracciglio alzato.
-Si?-
“Signore! Che si sia accorto che non ho chiuso la bocca?” Come un automa strinse le labbra e si ridiede un po’ di dignità avendo la delicatezza di arrossire in modo verecondo ed adorabile.
-Oh… ehm, scusatemi…-
-Dammi del tu- sorrise dolcemente e non c’era più buio attorno a quel sorriso.
La ragazza rimase abbagliata prima di notare un leggero difetto (assolutamente perdonabile, naturalmente, nulla avrebbe intaccato quella bellezza, neppure la vecchiaia): i canini, forse, erano di quel poco più appuntiti che bastava per notarli.
Sbatté le palpebre, una, due volte, ed il piccolo difetto sparì nel suo sorriso da perfetto gentiluomo.
-Certo, certo, ti darò senz’altro del tu, il tuo nome?- non sapeva se avrebbe retto ad un altro dei suoi sorrisi sensuali.
Il giovane parve vedere nei suoi occhi quanto lo trovasse bello, capì che era facile esercitare l’ipnosi su un’ anima tanto spensierata, e la ringraziò dedicandole un altro sorriso particolarmente astuto.
-Edward-
-Edward- gli fece eco lei.
Le sembrò che la vista le si stesse affaticando sempre più mentre lo fissava negli occhi verdi. Aspettò che le chiedesse il suo nome, ma l’uomo sembrava assorto verso qualcosa che era alla base del suo collo.
-Cosa stai fissando?-
-Nulla, il suo…il tuo gioiello-
-Io…io non porto un gioiello, Edward, cosa stai dicendo?-
Il giovane si scusò distrattamente.
-Devo essermi sbagliato- era perfettamente cortese anche quando si tradiva.
-Comunque… comunque, io sono Natasa- si affrettò a dire.
Edward si distolse per un altro attimo dal punto che non aveva smesso di guardare e la fissò negli occhi.
-La cosa è del tutto irrilevante, Natasa, se avessi voluto sapere qual è il tuo nome te l’avrei chiesto-
Era un brusco cambiamento davvero! Doveva essere un tipo piuttosto lunatico.
Si domandò se fosse alla base del suo collo il problema, e visto che Edward non smetteva di fissarlo frugò tra le pieghe del suo colletto, ma vide solo la pelle nuda ed intirizzita.
Guardò Edward e lo vide allargare le narici.
-Mi spiega cosa sta fissando?!- disse tornando bruscamente all’impersonale “lei”, sdegnosa, mentre la strana patina che le copriva la vista si diradava e lei componeva un passo con falsa fretta verso la sua casa.
-Tu hai un sangue molto profumato- disse tendendo un braccio per bloccarle il passaggio, con un sorrisino gentile, come se si aspettasse di vederla reagire ad un complimento –molto profumato davvero-
Natasa, atterrita dal quella frase, cercò un'altra strada per aggirarlo, ma anche l’altro braccio si mise tra lei e la casa, tra lei e la vita.
Non aveva capito che quella bellezza stupefacente, quel non aver occhi che per le invisibili pulsazioni del collo, a tratti per quelle del polso, non avrebbero dovuto lasciarla indifferente.
Natasa fece di nuovo un passo a ritroso, ma non poteva far a meno di guardarlo mentre la sua bellezza scemava in adamantina crudeltà.
Ora era quel diavolo ghignante da cui era stata messa in guardia e avanzava con grazia languida e deliberata voluttà, a braccia aperte. Era eccitante e repellente insieme.
-Vieni da me- le alitò e sembrò un sibilo – Ti desidero molto. Ho tanta gola. Ho bisogno di ristoro- il suo tono era diabolicamente dolce e risuonava fin nel cervello con un tintinnio.
Natasa più che prima fu vittima di quell’incantesimo e gli spalancò le braccia a sua volta, con l’espressione persa nei propri sogni, tipica dei sonnambuli.
Edward la afferrò bruscamente per l’avambraccio e se la avvicinò al petto senza incontrare resistenze.
Ormai il corpo della giovane sembrava obbedire a una volontà suicida che veniva dal vampiro, inarcandosi all’indietro e lasciandogli vedere la gola.
Fu come se il collo fosse più bramoso di farsi mordere dai denti che i denti di mordere il collo.
Natasa sentì d’improvviso tanta pacificazione dentro di sé che chiuse gli occhi azzurri l’ultima volta.
Bisognava accontentare il vampiro. Altrimenti il vampiro sarebbe stato infelice e cose terribili gli sarebbero successe.
Non doveva accadere: bisognava obbedire, cedere. Invero era un piacere, cedere.
Edward aveva fatto a brandelli la sua volontà. Non la sentiva più nemmeno lottare per reagire ai suoi istinti.
Nella sua gola la creatura vampira era talmente assetata che denti liberarono il veleno a fiumi spumanti prima ancora del morso e il liquido giallo gli colò dalla bocca aperta.
I canini si allungarono, tremarono, e gli dolsero di un dolore che era anche un piacere.
La mascella si spalancò due volte quanto l’aveva grande un uomo, e la bocca umana ora pareva la bocca di un serpente.
Si chinò su di lei e il collo della giovane rispose venendo incontro alla sua bocca come se volesse un bacio.
La bocca sembrava eccitata e fremeva pronta ad attaccarsi al collo.
La giovane sentì il soffio freddo di un respiro deliziato lambirle il collo e le spalle, che le vennero snudate con strappi di veste impazienti e frenetici.
Poi un dolore di un momento, quando le vennero piantati con foga i canini nel collo; il vampiro succhiò a lungo e a fondo, Natasa lanciò soffi estasiati - ringraziandolo del sangue che le succhiava via come un gatto ringrazia con le fusa per le carezze che gli vengono fatte - finché non si sgonfiò morendo tra le braccia che la sostenevano.
Edward respinse il corpo nella neve con sanguinaria freddezza, impaziente di liberarsene, e con la manica si ripulì la bocca da ogni traccia della sua vittima.
Tanto sazio da essere esausto, tornò a sentirsi se stesso dopo essere stato posseduto.
In quel momento Dolly mise il muso fuori dagli alberi.
Quando avvertì sentore di sangue ringhiò contro Edward, lui emise un sibilo in un digrignare di denti canini e il cane fuggì via.
La neve si tingeva di sangue attorno alle spalle di Natasa.
Una morte turpissima, che eppure per Natasa era stata bellissima, piena di pace: solo felicità e piacere, senza un pensiero.
Storse il naso assaporando in bocca il resto del sapore della ragazza. Decisamente, dall’odore sembrava un pasto migliore.
Esitò ad andarsene fissando Natasa nella neve. Sentiva che la fonte della sua pietà non si era ancora del tutto seccata, e che per un attimo infinitesimo riprendeva vita per quella giovane.
Volle scappare, quasi con orrore, dalla scena della morte umana.
Quanto aveva avuto paura, da uomo, della morte?
Corse via, ma improvvisamente il cielo notturno così profondo e silenzioso fu percorso da un terribile urlo acuto e metallico come di pianto disperato.
In lontananza due creature dalle ali membranose volavano in cerchio attorno alla salma come avvoltoi. Le donne non-morte, dalle lunghe chiome, bionda e mora, erano in preda ad una rabbia ed un dolore che non poteva far a meno di essere violento.
-Quanto dolore dai al nostro padrone, Edward. Quanto dolore deve sopportare poiché lui è così buono e tu così malvagio!-


1873 d.C. Italia, Roma, Città del Vaticano.


Senza respiro, rigido col ventre pulsante di crampi famelici, il cuore che picchiava a colpi ansiosi il petto, veloce come dopo una corsa, stava immobile e nascosto dietro l’ombra come se la sua più sincera ed intensa speranza fosse quella di confondersi con la parete o di attraversala per fuggire.
Fece l’azzardo di sporgere un po’ la testa dalla semioscurità della colonna e, mentre cercava con gli occhi l’ombra del pericolo, questi gli restituì uno sguardo.
Ritrasse di scatto la testa nell’antro nero da dove l’aveva sporta e dietro il nascondiglio si fece più piccolo nel punto più buio.
-Come ti chiami bimbo?-
Vide la testa di un monaco dall’aria austera e severa, vestito di una toga rossa e con un principio di calvizie, che si sporgeva oltre la luce.
Gli aveva posto la domanda con molta serietà.
Guardandolo meglio, l’uomo ebbe un lieve scatto per la sorpresa ed il bambino strizzò gli occhi, ritraendo il viso, in istintiva difesa dallo schiaffo che si aspettava, tenendo dietro di sè una collana, tanto stretta tra le dita che i pugni gli tremarono per lo sforzo.
-Calma, calma-
Il bambino aveva la pelle di un bellissimo color bronzeo, occhi neri e fondi, e capelli altrettanto neri, un tempo dai ciuffi luminosi, ma che ora erano pieni di polvere incrostata ed induriti dal fango, e sotto il saio si sarebbero potute contare le costole.
Un pellerossa.
Lo prese per le spalle tentando di rimetterlo in piedi, ma anziché calma trovò resistenza e rifiuto; era un bambino tenace che gli scivolava dalle mani e si
contorceva come un anguilla.
-Basta, e chi ti tocca, fermati!-
A testa bassa, come una bestiola cieca e spaventata, il piccolo caricò contro il vecchio cercandosi un varco attraverso le sue braccia.
Venne bloccato di nuovo e preso sotto braccio mentre tirava calci e pugni a vuoto.
-Basta!-
Partì lo schiaffò atteso che gli voltò la faccia.
Dopo essersi calmato ed aver smesso di agitarsi tornò a guardare il vecchio, con gli occhi ed il naso umidi del bambino capriccioso ed offeso che non sa neppure lui per quale ragione è punito.
Venne posato a terra.
-Non te le tocco le tue cose- lo rassicurò, essendosi accorto del luccichio che difendeva nel pugno.
Il bambino tirò su col naso e se lo pulì con la manica, gli occhi bassi e tristi.
Si teneva una mano dalle dita unte di liquido rosso appoggiata al ventre con evidente sofferenza e più discrezione possibile.
-Cosa hai sotto la tunica, giovanotto?-
Il piccolo esitò, aveva molta paura di quel nuovo figuro, ma si indicò una macchia rossa sul saio largo e sgualcito.
Il monaco dovette vincere altre resistenze per tirargli lievemente su l’orlo dell’indumento, scoprendo una piaga purulenta ed infetta che pulsava di sangue e pus giallo da una parte all’altra del fianco.
-Oh benedetto sia il Signore!- sembrava che un animale affamato avesse tentato di sviscerarlo.
Il piccolo si dibatté ancora, con una smorfietta di dolore, poi diede un calcione alle gambe del monaco e si rimise a posto il saio troppo largo, con una spallina caduta.
Aveva la febbre e non mangiava dai due giorni che era arrivato a Roma, dopo essersi imbarcato clandestinamente su una nave mercantile e sulla carrozza di un mercante. Sotto il saio era sudato, bagnato e insanguinato.
Non avrebbe potuto muovere un passo in più per andare altrove a cercare dell’acqua e pulirsi la ferita riaperta, ma il Signore di questi cristiani non si sarebbe dispiaciuto se avesse usato l’acqua santa per darsi un po’ di sollievo all’addome pulsante e doloroso, no?
Era il momento che qualcuno facesse del bene anche a lui.
-Vieni, o tu schiatti, giovanotto, ma come ti chiami? Da dove vieni? Oh Signore! E basta agitarsi! Non ti voglio far niente, vieni qui mostriciattolo. Non ti reggi in piedi! Come te lo sei fatto, quello sfregio!?-
La collanina gli cadde di mano mentre il monaco lo strappava dalla colonna a cui era aggrappato con le braccia, le gambe, mani, piedi ed unghie.
-No!- gridò con la sua voce acuta da bambino di sette anni.
Tirò i capelli al vecchio e gli diede un calcio nelle costole nella totale ignoranza e mancanza di rispetto per l’autorità religiosa che rivestiva.
“Che forza prodigiosa!” pensò il monaco. Poteva esser stato colpito da un uomo fatto!
Il bimbo recuperò la collanina con la croce dorata e l’altro ciondolo spesso e circolare.
Cadde piegato a palla sui pugni stretti come a proteggerli dal monaco malvagio. No, il monaco malvagio non avrebbe mai avuto l’unica cosa che gli aveva lasciato la sua mamma, a costo di staccargli a morsi la sua mano ladra. Mai e poi mai!
L’uomo si avvicinò con più cautela e curiosità al piccolo selvaggio indiano sporco e puzzolente.
-Don’t touch it! È mia!- strillò voltandosi e mostrandogli i denti in una smorfia molto ferina, quasi da scoiattolo –Non l’ho rubata! È mia! It's from my parents! Not your stuff, fuking italians!-
Per un momento, il silenzio regnò in chiesa, amplificato e reso grave da tutto l’ambiente solenne e religioso; era forte la sensazione che Lo Sguardo onnipotente guardasse in silenzio.
-Quello è il simbolo della religione cristiana, piccolo selvaggio...- disse il religioso cautamente, ansioso di non essere frainteso, nella lingua dei coloni che aveva usato il piccolo, e indicò con l’indice lungo e rugoso la piccolissima croce dorata –... il tuo gioiello più piccolo è la croce su cui morì Cristo, tu lo sapevi questo, non è così? You knew this, didn't you?-
Il piccolo la tenne stretta tra le due mani fino a farsene venire il segno sul palmo…
-No... and so? E allora?-
-Posso vederla?-
Si irrigidì, e gli allontanò di nuovo la collana.
Il monaco se lo immaginò ringhiare per difendere il suo cibo proprio come un cucciolo emaciato ed affamato.
-Nel palmo della tua mano, naturalmente-
Il bambino dalla pelle bronzea si accucciò un po’ meno e si mise a sedere a fatica, aprì leggermente le mani, abbastanza perché la luce colpisse i pendagli, ma anche abbastanza poco da richiuderle subito ad artiglio sul tesoro.
-Vorrei vedere il secondo pendaglio, quello che non è una croce-
Senza mai smettere di fissare la mano tesa dell’uomo, aprì con un po’ più di sicurezza lo scrigno delle sue mani in modo che il monaco potesse sfiorare il secondo ciondolo.
Lo vide armeggiare con un’apertura che lui non aveva mai guardato, forzò l’oggetto e lo aprì, il piccolo sussultò allo scatto, accennando a richiudere la stretta.
Dentro c’era un foglietto piegato e ripiegato su se stesso tante volte da poter entrare in uno spazio piccolissimo.
Il monaco lo spiegò.


“…Il bambino dallo sfregio d’animale è stato maledetto.
Non ho saputo far nulla per salvarlo e l’amore che avevo di quel piccolo mi ha impedito di abbatterlo per il suo bene, ma voi abbiate la pietà di ascoltare la preghiera di una straniera. Curatelo e non lasciate che la ferita si infetti, fategli ciò che è meglio in tempo, per non lasciare che la maledizione si impossessi completamente di lui. Ma se falliste non abbiatene paura finché la luna non brilli in tutto il suo cerchio. Fate che splenda su di lui in luoghi lontani da voi, dove possa aver sotto i denti solo animali e piante: perché non riconoscerà l’amico dal nemico e cambierà la pelle con quella di una bestia…”

Non ringrazierò mai abbastanza la mia Betareader LunaDiInchiostro che è stata velocissima e bravissima^^.

P.S: Mi prenderò qualche licenza poetica per quanto riguarda gli ambienti ed i luoghi, perchè purtroppo dispongo solo di alcuni libri, cartine geografiche (ma sono troppo pigra per usarle) e della mia immaginazione. Perciò scusatemi^^.

Ciauciao.

  
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