Libri > Leggende Arturiane
Segui la storia  |       
Autore: IlakeychanMorgain28    24/09/2009    0 recensioni
Agli occhi del mondo, Albert sembra un uomo come tutti gli altri. Un po' solitario e schivo, forse, ma nulla al di fuori della norma. Eppure, il passato di Bert è quanto di più lontano ci sia dalla normalità, un passato antico che non dovrebbe ricordare, ma da cui non può staccarsi. Eva è una moderna ragazza londinese. Ultima arrivata al museo di Plymouth, è vivace, chiacchierona e pazza quanto basta. L'esatto contrario del silenzioso Bert. Eppure, quando una sera le vite di queste persone tanto diverse si incroceranno, segnerà per loro l'inizio di un'avventura sospesa tra passato, presente e futuro, alla scoperta di loro stessi e l'uno del'altra che cambierà la loro storia per sempre.
Genere: Romantico, Commedia, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Green Knight
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
eva2 Capitolo 3: Di un Museo ed un Faro

Un numero imprecisato di ore dopo, le dita lunghe e lentigginose di Eva volavano sulla tastiera di un apparentemente vetusto computer in una sala buia e appartata dello schedario del museo. Il cervello del mostro preistorico lavorava alacremente, mentre Eva digitava veloce i codici dei nuovi arrivi della galleria numero sei. Una tazza di caffè e l'involucro di un panino giacevano inutilizzati accanto alla tastiera. Eva si scostò una ciocca di capelli dal viso, del tutto concentrata sul suo lavoro, gli occhi stanchi per aver fissato a lungo lo schermo luminoso. Ancora uno, pensava speranzosa, mentre barrava le ultime cifre dell'elenco. Appoggiò la schiena sulla sedia, stirando i polpastrelli indolenziti. Quel lavoro non era poi molto diverso da quello di una segretaria, considerò: avrebbe potuto farlo benissimo senza la sua laurea ad Oxford. La sua bocca si piegò in una smorfia scontenta, nella semioscurità dell'ufficio dalle pareti grigio chiaro. C'era arrivata quella mattina, dopo un infinito numero di peripezie, coi capelli scarmigliati e le guance arrossate, accompagnata dall'algida direttrice del museo. La donna, una bionda alta e gelida sulla cinquantina, l'aveva guardata come si guarda uno scolaro indisciplinato, soffermando gli occhi grigi sulla sua chioma in disordine. Con tono condiscendente, l'aveva ragguagliata sulle credenziali del museo e sulla responsabilità che essere un suo dipendente comportava, guidandola  attraverso le sei gallerie  che componevano la struttura. Eva aveva corso il serio rischio di scivolare sul pavimento pulito di fresco; era riuscita a ricomporsi un attimo prima che il suo nuovo capo tornasse a guardarla, indicandole una porta nell'angolo più sperduto dell'edificio: un archivio che conteneva i nuovi arrivi, un luogo pieno di scaffali con un solo ed unico computer, che avrebbe potuto benissimo essere un pezzo da museo anch'esso. Poi le aveva spiegato quali sarebbero stati  i suoi compiti, sempre con quell'atteggiamento superiore che aveva avuto un effetto immediato sui suoi nervi già logori: l'aveva fatta imbestialire. Quando la signorina Walker se ne era andata per la sua strada augurandole una buona giornata, Eva aveva dovuto combattere una crociata contro la parte adolescente di sé che avrebbe voluto farle una meritatissima linguaccia. Si era redarguita dicendosi che, malgrado le apparenze, lei non aveva più quindici anni, e si era messa a lavoro, con una fitta di rimpianto per il modernissimo portatile che riposava abbandonato sulla scrivania della sua camera da letto.

Eva amava il passato e le leggende arturiane con passione viscerale, ma era profondamente consapevole che non avrebbe potuto vivere in nessun altro secolo, se non il suo. Era dipendente dalla tecnologia in modo quasi patologico, e sapeva destreggiarsi abbastanza, se si escludevano quegli elettrodomestici che avrebbero dovuto garantirle la sopravvivenza, tipo i forni a microonde. Perciò, dover lavorare con quel vecchio mostro la costernava abbastanza; comunque, lamentarsi era inutile, ed era tutto per una buona causa: dopo qualche tempo di lavoro di ufficio, avrebbe potuto dedicarsi a quello sul campo, le sembrava di aver capito. Con quell'obbiettivo in mente, nulla l'avrebbe fermata. Si mosse sulla sedia: i pantaloni le tiravano. Da domani, decise, avrebbe indossato i suoi soliti vestiti. Dopotutto, era completamente sola in quella piccola stanza e le pareva di aver compreso che lo sarebbe rimasta: per quello che la signorina Walker ne sapeva, avrebbe potuto persino venire a lavorare nuda. Ridacchiò all'idea, alzandosi dalla scrivania. Erano le sette e mezzo passate: fine del primo giorno. Raccolse le sue cose e si avviò fuori dall'archivio, con la segreta speranza di non perdersi, qualcosa che tendeva ad accaderle spesso. Attraversò varie gallerie, coperte di quadri ed illustrazioni antiche, e reperti accuratamente conservati in teche di vetro; un quadro  in particolare attrasse la sua attenzione. Era una raffigurazione di Lancillotto e Ginevra, una delle tante esistenti al mondo. Il cavaliere e la regina, chini sull'erba, si abbracciavano strettamente, le teste vicine, i capelli d'oro di lei che contrastavano con l'armatura grigio scuro che copriva il petto di lui. Eva si fermò a guardare il quadro con un sorriso ironico. Si chiedeva spesso se quel supposto grande amore fosse stato tanto impossibile come lo aveva raffigurato la storia successiva: per quanto la riguardava, trovava che i rapporti tra eroi ed eroine arturiane fossero un po' troppo...liberi, per incarnare quello che per lei era l'amore vero. Eva aveva un'idea ben precisa di cosa si trattasse: l'aveva visto negli occhi del gigante rosso e lentigginoso che era stato suo padre, il cui aspetto ricordava più quello di un avventuriero da far west che quello di uno stimato professore di Letteratura Antica, mentre osservava sua madre, qualunque fosse il contesto, comprese le loro frequenti liti. L'aveva visto negli occhi di sua madre fino alla fine, fino a quando i capelli rossi come i suoi si erano fatti radi per la chemioterapia, e la sua pelle era diventata più bianca delle lenzuola del letto di ospedale che l'avevano ospitato nel momento peggiore della malattia. Dopo, nulla era più stato lo stesso per sua madre.  Ecco, quella era la sua idea di vero amore, pensò. Strinse le labbra, mentre sentiva gli occhi gonfiarsi di lacrime. Le ricacciò indietro, allontanandosi dall'immagine in fretta, camminando spedita finché non fu fuori, sulla strada. Salì sull'autobus come in trance, ancora rattristata: le succedeva sempre quando pensava a suo padre; il dolore e la perdita erano ancora troppo freschi perché accadesse il contrario. Assorta com'era nei suoi pensieri, non si accorse di aver sorpassato la sua fermata. Ancora e ancora. Quando riprese coscienza di dove si trovasse, si rese conto di essere finita praticamente dall'altra parte del globo rispetto al suo appartamento. Con un moto di stizza, si affrettò a scendere dall'autobus, maledendo sé  stessa e la propria distrazione: ora avrebbe dovuto prendere un taxi, dato che non aveva idea di quale fosse l' autobus che potesse riportarla in centro a quell'ora.
Sempre che le bastassero i soldi che aveva con sé. Di bene in meglio. Quando si districò dal mare di corpi che popolavano l'abitacolo, in modo non molto differente dalla mattina, sì ritrovò di fronte alla spiaggia. Nel buio, la distesa del mare solcato da qualche barca era illuminata ad intermittenza dalla luce del faro solitario. Eva si sentì rincuorata: poteva vedere il faro dal suo appartamento, perciò, teoricamente, se si fosse avvicinata camminando lungo la spiaggia si sarebbe ritrovata vicino a casa. Con quella speranza, si diresse verso la riva, facendo scivolare i piedi fuori dalle lucide scarpe di vernice nuove che rifiutava categoricamente di sporcare. Si avviò nel buio, confortata dalla luce del faro, il rumore del mare che spazzava via i pensieri tristi. Cammino a lungo, a distanza di sicurezza dalle onde che si infrangevano accanto a lei ritmicamente, riflettendo su tutto e niente. Il mare era una delle cose che più aveva rimpianto, dopo essere andata a vivere a Londra, poi ad Oxford. L'aveva sempre trovato estremamente rilassante per i nervi. Soprattutto per i suoi, che parevano sempre a fior di pelle. Pensare alla sua indole litigiosa le fece venire in mente la cocente  frustrazione della mattinata. Più ripensava alla condiscendenza della sua datrice di lavoro, più sentiva il suo umore infiammarsi. Salutò l'irritazione con gratitudine: tutto era meglio che rivivere la sofferenza che le portava il pensiero di suo padre. La luce del faro si faceva più intensa a mano a mano che si avvicinava; e più la luce cresceva, più la rabbia le ruggiva nel petto. Eva detestava essere giudicata dal suo aspetto vagamente da folletto irlandese; le era successo più di una volta di non essere presa sul serio, proprio per quel motivo. Davvero un peccato, non poter essere tutte algide e bionde, pensò. Un attimo dopo, come spesso le accadeva, lo stava urlando alla spiaggia deserta: “ Ma insomma! Cosa posso farci, se ho l'aspetto di un'adolescente appena entrata nella pubertà!?”, esclamò all'indirizzo della sua datrice di lavoro, augurandosi che si trovasse molto, molto lontano. “ Non si può mica essere tutte bionde e seriose!”, continuò, battendo i piedi a terra come una bambina e consapevole dell'infantilità delle sue azioni, “ Se avessi potuto scegliere, sarei stata una bionda leggiadra anche io, invece che un microbo rosso e goffo. Peccato che così non sia stato. La prossima volta, si cerchi un'impiegata sul catalogo delle modelle di Vogue!” A forza di dimenarsi, si ritrovò all'improvviso distesa a terra, la bocca piena di sabbia. Si voltò a pancia sopra, sputacchiando con disgusto: “ Ma...ma che schifo!”, urlò, oltraggiata: persino il suo equilibrio era contro di lei, quel giorno. Ma sì può?
Fu allora che lo sentì. Durò un momento, ma fu perfettamente udibile nel silenzio della spiaggia deserta. O forse, non così deserta, data la risatina incerta ma divertita che era partita da un punto imprecisato alle sue spalle. Eva ruotò su se stessa, troppo sul chi vive per essere spaventata; in quel momento, la luce del faro illuminò la figura seduta di un ragazzo. Doveva avere più o meno la sua età, ma a causa della luce intensa non riusciva a distinguerne bene i lineamenti del viso. Quello che non poté fare a meno di notare fu il blu intenso della sua capigliatura. Ma al momento, non aveva tempo per un'analisi approfondita sul perché mai qualcuno dovesse tingersi i capelli di blu: sentì un fiotto di calore pari a quello di un'esplosione nucleare salirle su per le guance, inesorabile; sapeva di essere del colore rosso di una mela matura. E mentre la consapevolezza si diffondeva in lei, i neuroni momentaneamente impazziti per il panico, fece la prima cosa che le capitò in testa: gli indirizzò una convinta, sentita linguaccia, quella che per tutto il giorno aveva trattenuto. Per poi fuggire via a gambe levate. Il suo ultimo pensiero coerente, mentre per la seconda volta correva a perdifiato con le guance infuocate per lo sforzo e l'imbarazzo alla disperata ricerca di un taxi, fu che la prima cosa che avrebbe fatto non appena arrivata a casa sarebbe stato un accurato lavaggio dei denti: sentiva ancora in bocca i granelli di sabbia. Che schifo.    
  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Leggende Arturiane / Vai alla pagina dell'autore: IlakeychanMorgain28