La fine di Juan Miguel Diaz
La revancha del tango (Gotan Project)
I.
La chiazza di sangue si allargava sulle mattonelle del cesso della discoteca “Mirada”, si allargava sotto il corpo abbronzato e asciutto e bastardo di Juan Miguel Diaz formando un cerchio scuro ma lucido tra il torace e l’ascella sinistra. La camicia che prima era bianca, sbottonata per esibire il petto maschio e liscio sotto cui il cuore ora non batteva più, si rapprendeva come uno straccio bagnato.
Gianmarco (per gli amici Gian) Ciotti aspettava inerte e paziente l’arrivo della polizia in quel buco di posto buttato da qualche parte tra l’Adda e l’Oglio. L’adrenalina scorreva ancora sotto la sua pelle ma la furia che l’aveva spinto fino al “Mirada” a far fuori quel pezzo di merda si stava a poco a poco trasformando nella pacificante quiete che gli procuravano le cose messe in ordine. Che facessero quel che dovevano, i poliziotti, lui sarebbe rimasto lì, con il coltello in mano, a guardare la vita che scivolava via per sempre da quel tanghèro latino che aveva osato infilarsi tra lui e sua moglie.
Chiudili, adesso, quegli occhi se sei capace, stronzo!
A Gian salì una risata che provò a soffocare nel naso e che si trasformò in un grumo di muco e saliva in fondo al palato. La mandò giù sentendo la gola bruciare.
Aveva chiamato lui la polizia, non aveva voglia di scenate in quella discoteca di quarta categoria, buona solo il giovedì, quando si trasformava in una decente milonga. Tra l’altro, era una saggia decisione consegnarsi alla polizia. Una soluzione che lo metteva al riparo dal pensiero di tornare a casa da sua moglie. Elena la moglie. Elena la santa. Elena la stronza. Elena la traditrice.
Elena e il suo sguardo colpevole. Gli aveva mandato il sangue alla testa, quello sguardo.
Elena con quel cazzo di libro sempre bene in vista sul comodino: Jorge Luis Borges, Il tango. Uno dei suoi preziosi Adelphi.
Ma lui mica era un cretino.
Elena e il suo sguardo colpevole. Le guance di Elena che avvampano.
Sì, quello sguardo era stato più eloquente di mille parole, di mille scuse. Lo sguardo di una donna colpevole.
E poi quel libro, che solo un paio d’ore prima Elena, sdraiata nel loro letto, stringeva sul seno.
Era sempre stato sul comodino, quel libro. In cima a una pila di libri. Da settimane. Mai aperto, il dorsetto ancora dritto a piombo. Nemmeno sfogliato. Eppure sempre lì.
Jorge Luis Borges, Il tango, Adelphi.
In bella vista. Rosso. Mai aperto.
C’era un significato in quella presenza nella loro camera da letto?
Gian incrociò di scatto le caviglie sotto alla panca su cui era seduto prima che il sangue di Juan Miguel Diaz raggiungesse la punta delle sue scarpe stringate.
Il fatto è che, da qualche tempo, Gian aveva iniziato a osservarla, sua moglie. La guardava con sospetto per la prima volta in vent’anni: negli ultimi tempi si era trovato a considerare sovrappensiero se la Elena avrebbe mai potuto suscitare l’interesse di un altro uomo. All’inizio aveva riso: ma chi? la Elena? ma dai! ma chi vuoi che la guardi mia moglie? Dio santo, è la Elena!
Una donna di mezza età, oltretutto. Carina, ben tenuta, ma niente di appariscente. Provocante, poi! Chi? la Elena?
A una certa età si tirano i remi in barca, ovvio: sicurezza economica, un buon lavoro, marito medico, niente figli ma viaggi sì, che altro si era messa in mente quella Elena che non conosceva più? Non le bastavano più le due scopate garantite, garantite!, al mese? A lui, sì. Bastavano. Perdio, avevano cinquant’anni! Che vuole ancora una donna a cinquant’anni? La foga e l’urgenza di quando erano ragazzi? Ma per piacere.
E invece l’aveva sorpresa, qualche settimana prima. Con quella lingerie nuova.
Alzò lo sguardo incazzato sullo specchio del bagno e pensò a sua madre all’età di Elena. Una donna felice di preparare il pranzo e di avere la casa in ordine per qualunque ospite. Felice di essere un membro storico dell’ “Associazione Mogli dei Medici”. Elena la snob no, invece. Non ci aveva mai voluto mettere piede, lei, all’Associazione. E lui non aveva mai detto niente, anche se gli dispiaceva, ovvio. Ma non aveva detto niente, perché lui la rispettava, la Elena. E poi una sera, mentre si mettevano il pigiama, lei si era spogliata come al solito e sotto i suoi vestiti c’era quella lingerie nuova. E lei aveva pure finto di non trovare il pigiama per girare con tutto quel pizzo addosso davanti a lui. Stranito, quasi imbarazzato. Che a lui di quella roba non importava niente. Quella volta al mese a lui bastava frugare nel buio sotto le lenzuola per trovare quello che cercava, che gli importava della lingerie?
Ma ora, davanti al cadavere di Juan Miguel Diaz tutto aveva un senso. Anche quelle mutande col pizzo.
Davanti a quegli occhi colpevoli di sua moglie, solo un paio d’ore prima, nella loro camera da letto quella lingerie acquistava un senso.
Quanto ci sarebbe voluto perché la polizia arrivasse in quel cesso e vedesse quello che aveva fatto?
Abbassò lo sguardo e percorse il corpo steso davanti a lui dalla punta dei capelli fino in fondo. Le scarpe da ballo di Juan Miguel Diaz gli facevano pena: il tacco rinforzato e quella suola di pelle di daino consumata, l’assurdo fiocco delle stringhe… Basta isolare un particolare per rendere ridicolo un uomo.
Anche Gian aveva scarpe simili, ma di sicuro su di lui non facevano quell’effetto, pensò sprezzante. E poi non erano così rovinate. Andavano a ballare una volta ogni tanto, lui e la Elena e un’altra coppia di amici che avevano conosciuto al corso di tango argentino. Qualche giro di milonga, un drink e poi a dormire. La Elena ultimamente insisteva per quelle serate, si divertiva, lei. Lui ci andava come sarebbe andato a fare qualunque altra cosa, con finta allegria e indifferenza vera. Però gli piaceva che in ospedale sapessero che lui andava a ballare il tango con sua moglie: gli dava quella spruzzata di imprevedibilità che lo rendeva più interessante ai colleghi, quel tratto vagamente esotico che spolverava di simpatia la sua figura altrimenti grigia. A ballare, poi, lui se la cavava. Eccome se me la cavo, pensò guardando nelle orbite fisse Juan Miguel Diaz. Il tango è esattezza, precisione, bastardo argentino, e io conosco bene la precisione. Sono un chirurgo, io! Gli venne da sputare sulla mascella volitiva di quel ballerino steso a terra, ma si trattenne perché sputare era un gesto da troglodita, non si sarebbe abbassato a tanto. Deglutì.
Sentì le sirene della polizia nel parcheggio oltre il muro e non si mosse. Presto tutto sarebbe finito.
Pensò di sfuggita alla sua carriera in fumo: non gliene importava molto. Anzi, meglio così, era stufo marcio anche del lavoro. Ogni lavoro diventa routine, persino quelli che agli altri sembrano così fuori dal comune. Dov’era finita l’adrenalina degli anni di studio? Della sua prima volta in sala operatoria? Della sua prima incisione? Quel sentirsi una specie di dio in azione? Era tutto svanito molto in fretta, in realtà. Routine. Dei pazienti non gli era mai importato molto, anzi, se riusciva a non parlarci proprio, era meglio. In genere se un paziente voleva davvero parlare con chi gli avrebbe messo le mani dentro, gli dava un appuntamento privato in studio. Un’ottima soluzione: se non volevano pagare e non venivano, tanto meglio; se invece prenotavano la visita, la scocciatura c’era ma era compensata dalla parcella.
Una volta Elena gli aveva letto una frase di Kant, una cosa del tipo che in Inghilterra macellai, medici e chirurghi non potevano essere ammessi in una giuria per la loro insensibilità verso la morte. Ne avevano riso, come fosse una battuta. Ora Gian guardava quel cadavere di fronte a lui con una consapevolezza diversa.
Fissò la mano destra di Juan Miguel Diaz, quella che qualche volta aveva stretto la vita della Elena in un giro di tango, si ricordò di una Cumparsita, un mese prima. Osservò il pollice curvo di quella mano, quel pollice che aveva disegnato una piccola “C” al centro della colonna vertebrale di sua moglie invitandola con quel cenno a disegnare degli otto sul pavimento.
A ripensarci adesso, non avrebbe dovuto sentirsi così sollevato quando un altro uomo aveva invitato sua moglie a ballare. Così sicuro. Così indifferente. L’ultima volta che avevano fatto l’amore lui e la Elena? Due mesi prima, no, forse tre, sì, tra Natale e Capodanno. E si era pure impegnato, eh. Che per lui sarebbero bastati cinque minuti, ma la Elena voleva almeno il quarto d’ora prima e i dieci minuti dopo ogni volta.
Sentì il calpestio dei piedi dei poliziotti poco oltre la porta del bagno. Questione di secondi.
La sua mente gli offrì come ultimo regalo prima della realtà una sequenza di immagini sconnesse:
la copertina rossa de Il tango di Borges
la Elena che abbassa lo sguardo mentre, spogliandosi di fronte a lui prima di andare a dormire, rivela che sotto ai vestiti ha della lingerie nuova
Il tango, Jorge Luis Borges
il pizzo di seta color crema che le copre le natiche nascosto con un movimento veloce dal solito pigiama
la copertina rossa Adelphi
i capelli di Elena che disegnano curve scure sulla federa del cuscino
il libro di Borges e l’indice e il medio di Elena sulla copertina
la fede al dito di sua moglie
lo sguardo fedifrago di Elena quando due ore prima lui, entrando in camera e indicando il libro che lei stringeva al petto, le aveva chiesto tra i denti:
“E questo cos’è? Un regalo di Juan Miguel Diaz?”
II. Un paio d’ore prima
Elena aveva passato una di quelle giornate in cui la solitudine l’aveva schiacciata. Non era sempre così, ma c’erano dei giorni in cui si sentiva invisibile. Presente, continuamente chiamata per nome, eppure invisibile. Si era messa a letto e poi, nell’appoggiare sul comodino il tubetto di crema per le mani, con un movimento un po’ maldestro aveva fatto cadere il libro di Borges, quello che teneva in bella vista sul comodino, in cima a una pila di libri. Chissà mai che suo marito un giorno l’avesse notato. Magari avrebbe potuto leggerlo. Magari ne avrebbero potuto parlare. Magari… Elena fece una smorfia amara che non assomigliava per niente a un sorriso. Che cosa doveva fare per risvegliare un po’ d’amore in Gian? Un guizzo negli occhi, una carezza fuori dalle convenzioni? Un bacio urgente? Uno sguardo da lontano solo loro?
La lingerie non aveva funzionato, anche se il suo corpo ancora dava qualche punto a tante trentenni. Si era sentita imbarazzata per quella finta sfilata davanti agli occhi indifferenti di suo marito. Non l’avrebbe fatto più.
Provare a cercare un bacio che potesse chiamarsi bacio era impossibile: lui serrava le labbra, la prendeva per la vita e la faceva indietreggiare dicendo “Amore, dai… ti pare?”.
Non l’aveva mai tradito in tutti quegli anni, nemmeno col pensiero. Ma era difficile combattere la rabbia, la frustrazione, la solitudine. Sempre più difficile.
Portarlo a ballare, - sì, aveva provato anche con quello -, non serviva a niente. Lui lo prendeva come un esercizio di precisione. Per Gian il tango era soprattutto il sacro rispetto di una distanza, non l’inesorabile tentativo di accorciarla passo dopo passo, figura dopo figura. La maestra di tango, quando li osservava ballare, a Gian diceva sempre “bravo”. Si complimentava per l’esattezza dei suoi movimenti, naturalmente. Quasi mai diceva “brava” a lei: troppe sbavature, incertezze, azzardi fuori tempo. Ad altre coppie diceva “bravi”. A loro due non aveva mai detto “bravi”. Bravi insieme. Una volta lei l’aveva fatto notare a Gian e lui le aveva bonariamente risposto che se lei avesse seguito meglio i passi, la maestra avrebbe detto “bravi” anche a loro.
Poi era successo che una sera, qualche settimana prima, durante una milonga, quel tanghèro argentino di cui nemmeno ricordava il nome l’aveva invitata a ballare. Era molto bello. Le aveva detto “Si lasci andare e mi segua”. All’inizio lei aveva faticato a lasciarsi andare nelle braccia di un uomo che non era suo marito, di un uomo così affascinante oltretutto, ma poi l’aveva fatto, trascinata dalla musica altissima, dal girare di tutti, dalle dita di quell’uomo sulla schiena.
Era stato come tuffarsi nell’acqua gelata.
No, Gian, il tango non è esattezza. È altro.
Avevano finito il loro ballo e lei aveva guardato verso Gian, con le guance accaldate, gli occhi accesi, lo chignon che un po’ era sceso verso la nuca. Ma Gian chiacchierava con un tizio e non si era accorto di niente.
E lei aveva inghiottito ancora una volta la sua indifferenza.
Così, la volta successiva, aveva ballato di nuovo con quel tanghèro argentino, - ora se lo ricordava il suo nome, Juan qualcosa Diaz -, e se ne era bellamente fregata di suo marito e aveva ballato più sciolta, più disinvolta, ascoltando con la pelle la sensazione della coscia di lui che scivolava tra le note in mezzo alle sue cosce e allora, mentre indietreggiava, incalzata e inseguita da quel ballerino che parlava con i piedi, aveva ruotato leggermente il collo eseguendo un incrocio e così i suoi occhi avevano per un istante registrato lo sguardo di Gian fisso su di lei, su di loro.
Ma poi non era successo niente. Tutto era tornato come sempre.
La mano di Elena si allungò sul comodino e afferrò Il tango di Jorge Luis Borges, i polpastrelli percorsero la copertina ruvida e poi gli occhi scivolarono su una piccola porzione del copriletto di piqué. Elena assecondò il richiamo di una fantasia. Una di quelle fantasie che rendevano sopportabili i giorni in cui si sentiva mangiata dalla solitudine. Riempì quella fantasia di particolari realistici, diede uno spessore plastico all’immaginazione, saturò di odori, suoni e umori la scena in cui lei rotea in una milonga affollata con Juan Miguel – sì, si chiamava proprio così, Juan Miguel -, i loro sguardi di proposito non si incrociano, anche se le guance sono vicine e lei sente che il collo di lui – ha un neo scuro perfettamente circolare un poco sotto l’orecchio - sta luccicando di sudore, la mano di Juan Miguel preme – la sente Elena, la sente, ora, sdraiata nel suo letto matrimoniale -, preme la curvatura delle costole tra la schiena e il seno e da lì non si muove, in un volteggiare elegante silenzioso concentrato che nulla ha a che vedere con quello che stanno facendo i loro piedi che indecenti si rincorrono, si invitano, si toccano, si accarezzano. E loro due sanno che cosa stanno facendo i piedi, mentre le labbra sono chiuse e i profili si sfiorano e gli occhi socchiusi fissano lontano in direzioni opposte. Elena sente la musica – El Choclo – fortissima nelle orecchie e tra le lenzuola, tra le sue gambe chiuse, sente insinuarsi la gamba di lui con la prepotenza di chi ha capito che quelle gambe stanno solo fingendo di resistere e non aspettano altro che una forzatura, così Elena scosta le ginocchia e sente contro il collo il respiro che esce da naso di lui e in quel momento, con gli occhi aperti ma completamente velati, annebbiati da un’altra visione e da un’altra realtà, lei – sacada, barrida e ocho, ocho, sacada e barrida -, lei sta dicendo di sì, sta dicendo: Juan Miguel…
Ma una voce estranea la raggiunge da lontano, una voce che inghiotte tutta la fantasia e la riporta al copriletto di piqué, alla sua camera da letto, al libro che tiene tra le mani. E quella voce, ora vicina e fin troppo conosciuta, incrinata da un fastidio a stento controllato e da un’ironia cattiva che la vuole pungere, la fa trasalire, spaesata, colta in flagrante, colpevole, mentre domanda:
“E questo libro cos’è? Un regalo di Juan Miguel Diaz?”