Capitolo 10 NEL CUORE PULSANTE DI MILANO
Nel cuore pulsante di Milano, tra i grattacieli moderni di Porta Nuova e le strade che brulicavano del caos metropolitano, si ergeva la sede centrale di *Eternia*. Un’imponente opera d’architettura contemporanea che sembrava provenire da un futuro lontano, un edificio che attirava sguardi di ammirazione e soggezione al tempo stesso.
Il fulcro della struttura era il famigerato Obelisco di vetro, un’enorme protuberanza architettonica che dominava l’intero complesso. L'obelisco sembrava sospeso nel vuoto, privo di qualsiasi supporto visibile, come se sfidasse le leggi della gravità. La base, stretta e affilata, si allargava gradualmente verso l’alto, fino a culminare in una punta trasparente che rifletteva la luce naturale di giorno e sembrava brillare di una sinistra luminescenza artificiale di notte.
Da lontano, l’obelisco dava l’impressione di un **enorme occhio sospeso nel nulla**, sempre vigile, sempre osservatore. Si diceva che fosse simbolico, che rappresentasse il controllo e la connessione di Eternia con il mondo. Ma per chi lo conosceva meglio, quell'obelisco era più di un simbolo: era una dichiarazione di potere. Come se la sua trasparenza nascondesse una verità opaca, un segreto che nessuno avrebbe mai potuto violare.
La sede di Eternia era un capolavoro. Ogni dettaglio era stato progettato per trasmettere grandezza e mistero. Le facciate degli edifici laterali erano fatte di metallo nero opaco, interrotte qua e là da pannelli di vetro che sembravano finestre, ma non lasciavano mai intuire cosa ci fosse al loro interno. I giardini, impeccabili, erano curati da un team internazionale di paesaggisti, e al centro, proprio sotto l’obelisco, si trovava una fontana minimalista, il cui flusso d'acqua sembrava quasi ipnotico.
All'interno, però, le cose erano ancora più sorprendenti. Corridoi sterili e bianchissimi si alternavano ad ambienti immersivi, dove opere d’arte contemporanea e tecnologie all’avanguardia si mescolavano in un equilibrio perfetto. Eternia non era solo un'azienda: era un universo a sé stante. E al centro di quell'universo c'era Dario Brambilla.
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Mentre l'obelisco di vetro dominava la città, Dario Brambilla dominava il suo mondo. In quel momento, sedeva nel suo immenso attico al tredicesimo piano di un palazzo storico, affacciato su Piazza Gae Aulenti. L’intero spazio sembrava un’esposizione privata, un museo personale che gridava potere e lusso.
Le pareti erano adornate da opere d'arte di inestimabile valore. Un quadro di Francis Bacon, un’opera rara di Basquiat, una scultura ipnotica di Anish Kapoor che sembrava risucchiare lo spazio intorno a sé. Ogni oggetto, ogni dettaglio era una dichiarazione: Dario Brambilla era un uomo che possedeva il mondo.
Tra questi oggetti di assoluto valore, Brambilla si muoveva con grazia, come un sovrano nel suo regno. Indossava un completo scuro su misura, con un fazzoletto di seta cremisi che sporgeva dal taschino, un dettaglio che sembrava casuale ma che in realtà era attentamente studiato. Nella mano destra, un bicchiere di whisky scozzese invecchiato venticinque anni, che roteava lentamente, riflettendo la luce fioca del lampadario di cristallo sopra di lui.
Alle sue spalle, una parete completamente di vetro offriva una vista mozzafiato sulla città. Fuori, Milano scintillava come un gioiello, inconsapevole delle macchinazioni che si svolgevano al suo interno.
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Dario prese il telefono in oro massiccio che giaceva sul tavolo accanto a un raro volume di poesia italiana contemporanea. Fece scorrere i contatti fino a trovare il nome di suo nipote, King. Premette il pulsante e attese.
Il telefono squillò solo due volte prima che King rispondesse. "Zio," disse con tono rispettoso ma diretto.
Dario sorrise appena, un sorriso freddo. "Abbiamo un problema, ragazzo."
King, che era seduto al tavolo del locale con Shrek e Mamba, fece cenno agli altri di tacere, il volto si fece serio. "Che tipo di problema?"
"Ferri e la Lombardi," rispose Brambilla, con quella calma glaciale che metteva sempre a disagio chi lo conosceva. "Stanno scavando. Troppo vicini."
King si appoggiò allo schienale della sedia, incrociando le braccia. "Li conosciamo. Sono bravi. Non sono il tipo da mollare."
"Ed è per questo che dobbiamo agire prima che trovino qualcosa che non dovrebbero," replicò Brambilla, con un tono che non ammetteva repliche. "Salvadori ha parlato. E questo non possiamo permettercelo."
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A quel tavolo, in quel locale semi-deserto, il silenzio calò pesante dopo la chiamata. King posò lentamente il telefono sul tavolo, il volto duro come il marmo. Shrek e Mamba lo fissavano, aspettando che parlasse.
"Salvadori è stato ucciso," disse King, la voce bassa ma carica di tensione, "perché aveva scoperto qualcosa su Lanteri."
Shrek si chinò leggermente in avanti. "Cosa, esattamente?"
"Lanteri aveva le prove per far finire Brambilla in carcere," rispose King, il tono grave. "Documenti, nomi, transazioni. Tutto ciò che serviva per abbattere il suo impero."
Mamba si passò una mano tra i capelli, scosso. "E Salvadori lo sapeva?"
"Non solo lo sapeva," continuò King. "Ma stava per consegnare quelle informazioni a qualcuno. O almeno, questo è ciò che Brambilla sospetta."
Shrek emise un fischio basso, scuotendo la testa. "E ora Ferri e la Lombardi stanno seguendo le tracce. Se trovano quelle prove..."
"Se le trovano," interruppe King, "Brambilla è finito. E noi con lui."
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Nel frattempo, a poca distanza da dove i tre uomini discutevano, il commissario Ferri e l’agente Lombardi esaminavano la scena dell'omicidio di Salvadori. La luce blu dei lampioni si rifletteva nelle pozzanghere, creando un'atmosfera cupa. Erano entrambi consapevoli che il caso era più complesso di quanto apparisse.
"Credo che ci sia ancora di più dietro questo omicidio," disse Ferri, frugando tra gli appunti. "Salvadori aveva anche legami con persone potenti. E Lanteri, beh, non siamo sicuri che sia esattamente un angioletto… o lo sia stato."
Lombardi annuì, il suo sguardo fermo. "Dobbiamo scoprire cosa sapeva. Se le sue scoperte riguardavano Lanteri, allora siamo sulle tracce di qualcosa di grosso."
"Non possiamo perdere tempo," aggiunse Ferri, con determinazione. "Se c'è un legame tra Lanteri e Salvadori, dobbiamo trovarlo prima che qualcuno ci metta le mani sopra."
La serata di Ferri e Lombardi si era trasformata in un puzzle emotivo e mentale. Dopo l'incontro improvviso con Mattia Prencipe, che quasi li aveva travolti per strada, e il successivo colloquio con il Dottor Fontana, i due detective si erano ritrovati a camminare uno accanto all’altro lungo una via di Milano, immersi nei loro pensieri. La pioggia leggera cadeva, trasformando le luci dei lampioni in bagliori tremolanti riflessi sull'asfalto lucido.
Ferri si sistemò il colletto del giubbotto, le mani infilate nelle tasche a cercare la pallina di gomma e la bustina di zenzero. "Quindi, Lanteri era davvero in cura dal dottor Fontana. Ma non è il tipo di cosa che il nostro poeta avrebbe sbandierato ai quattro venti."
"Non lo è affatto," rispose Elena, incrociando le braccia. "Fontana è stato piuttosto evasivo, ma è chiaro che Lanteri fosse un suo paziente abituale. La domanda è: per cosa si stava curando esattamente?"
Ferri annuì, riflettendo. "Fontana non si è sbilanciato, ma ha lasciato intendere che si trattasse di un disturbo cronico. Qualcosa che richiedeva un monitoraggio costante. E se fosse ADHD?"
Elena sollevò un sopracciglio, colta di sorpresa dalla teoria. "Disturbo da deficit di attenzione e iperattività? Non è un po’ azzardato?"
Ferri scrollò le spalle, con un sorriso appena accennato. "Forse. Ma pensaci. Lanteri era ossessionato dalla perfezione, incapace di mantenere a lungo relazioni stabili. Si perdeva nei suoi pensieri, nei suoi versi, e sembrava avere una mente che correva più veloce di quanto il suo corpo potesse gestire. Potrebbe spiegare molto del suo comportamento."
Elena si fermò per un momento, osservando Ferri con attenzione. "Se fosse vero, potrebbe aver influenzato ogni aspetto della sua vita. La sua scrittura, i rapporti con le persone... persino il modo in cui vedeva il mondo."
"Esattamente," rispose Ferri, continuando a camminare. "I suoi versi, così ricchi di immagini e simboli, potrebbero essere stati il risultato di una mente che non si fermava mai. Ma potrebbe anche spiegare il suo isolamento. Forse Lanteri non riusciva a gestire le aspettative delle persone intorno a lui, o forse si sentiva sempre inadeguato, intrappolato nella sua stessa mente."
Elena pensò per un momento, cercando di mettere insieme i pezzi. "E se fosse stato diagnosticato tardi? Se avesse vissuto gran parte della sua vita senza capire perché si sentiva così diverso?"
"Non è impossibile," disse Ferri. "Magari la diagnosi è arrivata solo di recente, e Lanteri stava cercando di capire come affrontarla. Potrebbe spiegare perché si fosse avvicinato al dottor Fontana. Ma c'è un'altra possibilità."
Elena lo guardò incuriosita. "Quale?"
"Che non fosse solo una questione personale," rispose Ferri. "E se il disturbo fosse diventato un'arma nelle mani di qualcuno? Un modo per manipolarlo, per spingerlo a prendere decisioni che non avrebbe mai preso altrimenti?"
"Manipolarlo?" chiese Elena, con un leggero brivido. "Da chi?"
Ferri scosse la testa, tirando un sospiro. "Non lo so ancora. Ma ho la sensazione che il suo disturbo, qualunque esso fosse, abbia avuto un ruolo importante nel modo in cui questa storia si è evoluta."
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Arrivarono davanti alla Jeep di Elena, parcheggiata sotto un lampione che emanava una luce fioca. La pioggia aveva smesso di cadere, lasciando solo una leggera umidità nell'aria. Ferri si fermò accanto alla portiera, osservandola con un'espressione pensierosa.
"È stata una giornata lunga," disse Elena, appoggiandosi al veicolo. "E domani sarà ancora più complicato."
"Già," rispose Ferri, infilando le mani nelle tasche del giubbotto. Rimase in silenzio per un momento, come se stesse lottando con qualcosa. Poi, con un sorriso esitante, disse: "Sai, potremmo prenderci una pausa. Fare qualcosa di diverso."
Elena lo guardò, confusa. "Cosa intendi?"
"Un giro in moto," propose Ferri, indicando con un cenno della testa la sua **Triumph Street Triple**, parcheggiata poco più avanti. "Non è una serata ideale, lo ammetto, ma l'aria fresca potrebbe aiutarci a schiarirci le idee."
Elena rimase un momento in silenzio, sorpresa dall'invito. Il pensiero di salire sulla moto di Ferri era allettante, ma c'era qualcosa che la tratteneva. Forse era il desiderio di mantenere una certa distanza professionale, o forse era solo il timore di ciò che quel momento avrebbe potuto significare.
"Non credo sia una buona idea," disse infine, cercando di mantenere un tono leggero. "Inoltre, non ho il casco."
Ferri sorrise, cercando di nascondere un pizzico di delusione. "Ne ho uno di riserva."
Lei scosse la testa, sorridendo. "Apprezzo l'invito, Ferri, davvero. Ma credo che stasera abbia bisogno di un po' di riposo. Domani sarà una giornata intensa."
Ferri annuì, cercando di mascherare il suo dispiacere. "Capisco. Forse un'altra volta, allora."
"Un'altra volta," confermò Elena, con un sorriso che tradiva una leggera esitazione.
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Si salutarono con un lieve imbarazzo, entrambi consapevoli che c'era qualcosa di non detto tra loro. Elena salì sulla Jeep, accendendo il motore, mentre Ferri rimase fermo sul marciapiede, guardandola allontanarsi.
Quando la Jeep svoltò l'angolo e scomparve dalla vista, Ferri si avvicinò alla sua moto, accendendola con un rombo deciso. Mentre si allontanava nella notte, un pensiero continuava a tormentarlo: **Lanteri non era l'unico a vivere intrappolato tra il caos della mente e il desiderio di connessione. Anche lui, in fondo, cercava un equilibrio che sembrava sempre fuori portata.**
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Mentre i due investigatori si scambiavano idee e strategie, una sensazione di urgenza permeava l’aria. Le loro indagini non solo avrebbero potuto rivelare la verità sull’omicidio di Salvadori, ma avrebbero anche potuto mettere in discussione la stessa sicurezza dell’impero di Brambilla.
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Milano continuava a brillare, ignara del gioco di potere che si stava svolgendo nei suoi angoli nascosti. Ma sotto la superficie, le ombre si muovevano. E tra quelle ombre, l’obelisco di Eternia sembrava osservare tutto, silenzioso e implacabile, come un occhio onnisciente che scrutava la vita segreta di tutti.