3. Un nuovo inizio
Glossario
Tracciatori di spettro atomico, strumenti capaci di rintracciare particolari materiali e sostanze tramite analisi sullo spettro atomico.
Androidphobe, letteralmente “che detestano gli androidi”.
***
Dopo aver corso sino a casa ed essersi saziato tra le lenzuola, Jerome sfiorò con dolcezza una guancia di Nadine e le disse: «Continuo a pensare al tuo incidente con l’automobile. Non dubito che sia vero, però i sistemi di protezione dei veicoli sono quasi perfetti: gli investimenti dei pedoni sono davvero rarissimi.»
«Uffa», protestò lei, colpendogli il petto con un pugno leggero. «Abbiamo appena finito di… Uhm… va bene, ti risponderò, però tu…» Arrossì come soltanto lei sapeva fare e poi, quando Jerome ebbe acconsentito di buon grado alla sua tacita richiesta, scostò i capelli che le erano finiti sul viso e gli rispose: «Un ciclista è caduto in mezzo alla strada e siccome io vengo identificata come un androide, la macchina ha preferito venire addosso a me.» Dopo una breve pausa, con un leggero imbarazzo, aggiunse: «Ecco, ora lo sai: è solo per questo che preferisco uscire con te, piuttosto che da sola.»
Proprio in quel momento, il telefono di Jerome emise un segnale di allarme. Lui capì di aver lasciato aperta l’applicazione di monitoraggio e seppe che Nadine non era mai uscita dalla modalità testimone. Chiuse il programma e, sentendo un leggero solletico nelle viscere e il cuore che batteva come un tamburo a festa, le domandò: «Lo hai fatto apposta?»
Lei si coprì il volto con le mani e mormorò: «No, sì… non lo so… Ero presa da tutt’altro… ma comunque volevo che ti fidassi di me.»
«Beh, adesso torna in modalità normale.» Jerome le afferrò delicatamente i polsi, li scostò per poterla guardare in viso e aggiunse: «Anche se non sei brava a mentire, hai tutto il diritto di provarci, ogni tanto. Basta che non siano bugie troppo grosse.»
Nadine lo fissò a lungo, gli occhi carichi di desiderio e il respiro spezzato. Poi si liberò facilmente dalla sua presa e gli cinse il collo con le braccia. «Va bene, me ne ricorderò.»
Subito dopo, lo attirò a sé e unì le proprie labbra, morbide e impazienti, a quelle frementi di lui. E fu uno di quei baci che fanno dimenticare tutto il resto.
Dopo cena, la ragazza si accoccolò sul divano contro il petto di Jerome e intrecciò le dita alle sue. Con aria inquieta, mormorò: «Ho mandato alla polizia le foto dei quattro ragazzi che ho… incontrato ieri sera. Ho anche scritto dove potranno trovarli e quanto sia importante prenderli subito. Però ho tanta paura che accada qualcosa di brutto.»
Lui le accarezzò i capelli con la mano libera e, sebbene il ricordo gli facesse ribollire il sangue, rispose cercando di assumere un tono rassicurante: «Ti avevano messo due dispositivi proprio in testa, ma non ti hanno causato danni gravi, quindi non credo siano pericolosi. Tu cosa temi che accada?»
«Ti sbagli, Jerome. Io ho delle protezioni di tipo militare, e solo per questo il cervello non mi è esploso. La mia scatola nera ha registrato le loro voci mentre ero incosciente… Ci sarà una strage, se non vengono fermati.»
Jerome fissò incredulo il volto deciso di Nadine. «E tu… che cosa vorresti fare?»
«Posso mettere tutti in allarme, almeno. Oh, scusami… non te l’ho ancora detto. Vogliono sabotare la sfilata di moda che si terrà sotto la Tour Eiffel, fra due settimane, perché la maggior parte delle modelle non sono umane. Devi credermi, quei ragazzi non sanno cosa accadrà se useranno i loro apparecchi in mezzo a una folla piena di androidi.»
«Sono solo quattro teppisti», ribatté Jerome, piuttosto scettico. «Verranno fermati dalla sicurezza prima che possano fare troppi danni.»
Mettendosi in ginocchio accanto a lui, Nadine replicò con un impeto del tutto inaspettato: «Non è così! Gli impulsi di quegli aggeggi sono tremendi! Forse le nuove schermature di scandio li fermeranno, ma tanti ancora non le montano. Ci saranno delle esplosioni, anzi, più esplosioni contemporaneamente. Amore mio, se uno solo di quei dispositivi venisse attivato, potrebbe ferire o uccidere decine di persone!»
Jerome esitò. Voleva illudersi che lei fosse umana e temeva quel che avrebbe provato, se l’avesse vista di nuovo ferita. Alla fine cedette al suo piano, ma a condizione che lei non si mettesse in pericolo e che gli stesse sempre vicino.
Nonostante nell’ultimo mese gli attacchi agli androidi si fossero intensificati, ve ne erano parecchi nella folla che camminava sui viali, diretti verso la Tour Eiffel. Jerome valutò che almeno un quarto dei presenti fossero macchine, e ogni passo verso la meta era una stretta in più al nodo che aveva nello stomaco. Se era sicuro dell’immunità di Nadine agli attacchi dei teppisti, temeva invece che i corpi artificiali da cui era costantemente attorniato potessero incendiarsi da un momento all’altro. E non poteva smettere di pensare agli effetti devastanti che fuoco e schegge avrebbero avuto su di lui e anche sulla ragazza che teneva per mano.
«Dobbiamo proprio arrivare sotto la passerella?» chiese con voce tremante.
Nadine gli si fece più vicina e posò la testa contro la sua spalla. «Sai anche tu come funzionano le antenne: devo essere al centro della manifestazione per raggiungere quanti più spettatori possibili. Comunque manca ancora mezz’ora all’inizio della sfilata, perciò non corriamo ancora nessun pericolo.» Dopo un paio di passi, assunse nuovamente un postura eretta e aggiunse con aria divertita: «Se hai tanta fretta di portarmi in quella bella gelateria che dicevi, potesti aprire la strada a spallate.»
Sbigottito, Jerome si voltò a guardarla. «Sbaglio, o sei eccitata?»
Lei rischiò di inciampare sui propri piedi, scoppiò in una risata che dissipò la tensione del ragazzo e, con le guance imporporate, gli rispose: «Un po’ sì… Non ho mai fatto una cosa simile… e con te mi sento al sicuro.»
«D’accordo, allora adesso mi metto a spintonare un bel po’ di gente, e tu chiederai scusa a tutti?»
«Mi sembra un piano geniale. Dai, fai valere la tua stazza!»
Jerome si chiese dove fosse finita la ragazza timida che conosceva e la osservò a bocca aperta per un istante. Poi decise che valeva la pena compiere una seconda pazzia, se questo significava ridurre i rischi della prima. Accelerò il passo, iniziò a farsi strada con un discreto uso della forza e si mise anch’egli a ridere come un bambino, contagiato dall’allegria con cui Nadine chiedeva perdono ai malcapitati.
La Tour Eiffel era stata rimessa a nuovo per l’occasione e, sotto il monumento, le modelle di bellezza statuaria erano già pronte a esibirsi, vestite con abiti dalle fogge più diverse e spesso particolarmente succinti. Quando mancavano una ventina di metri al centro della passerella, Nadine lo avvertì: «Ho fatto. Adesso possiamo andarcene.»
«Di preciso, cosa hai trasmesso?» le chiese Jerome, facendosi largo con meno urgenza di quando era arrivato e in modo più rispettoso.
Lei si adombrò e si aggrappò al braccio di lui. «Le foto dei quattro teppisti, i campioni delle loro voci e una descrizione di ciò che possono fare. In più, anche un video dell’aggressione.»
Jerome sentì una stretta al cuore nel ricordare ciò che lei aveva subito nel Jardin Villemin e, finché Nadine non lo rimproverò, spinse con rudezza chiunque gli intralciasse la strada. Giunto a circa trenta metri dagli schermi giganti, in una piazzetta dove la folla era così rada da non porre ostacoli al suo cammino, un grido di lei lo fece fermare di colpo. Guardò nella direzione che Nadine gli indicava e notò un giovane con gli abiti strappati, che correva disperatamente davanti a una dozzina di inseguitori. Riconobbe immediatamente il fuggitivo e, sentendo un istinto brutale scattargli dentro, si lanciò verso di lui con il feroce desiderio di spaccargli il muso. Lo travolse con un placcaggio da rugbista, rotolò sul lastricato tenendolo stretto e nel contempo gli serrò i polsi. Se il delinquente aveva con sé delle armi, Jerome non voleva assolutamente offrirgli la possibilità di impugnarle.
Nadine lo raggiunse di corsa, gli si chinò accanto e toccandogli una spalla, gli disse con aria divertita e anche un po’ orgogliosa: «Sei stato fantastico!» Poi aggiunse con voce più bassa: «Allora, preferisci diventare famoso o mangiare un gelato assieme a me?»
«Eh?» fece lui, avvinghiando il giovane teppista con le gambe, per impedirgli di scalciare.
«Se resti qui, dovrai spiegare agli agenti il motivo della tua… irruenza, e io preferirei non incontrarli. Non preoccuparti di lui: ci sono un sacco di persone che lo terranno fermo.»
Una mezza dozzina di mani si allungarono sul prigioniero, e Jerome fu ben lieto di rialzarsi da terra e di accogliere Nadine fra le proprie braccia. Dopo aver camminato per una decina di passi in direzione della gelateria, un sospetto gli fece correre un brivido lungo la schiena. «Nadine… il tuo messaggio… Hai offuscato il codice del mittente, vero?»
Lei mormorò in tono colpevole: «Volevo farlo, ma… dovevo calmare la gente che…»
«Secondo me, non ci hai più pensato perché ti stavi divertendo troppo.»
«Uhm… Sì… credo sia anche un po’ per quello. Non mi faranno nulla, vero?»
«Non lo so», rispose Jerome. Gli rodeva il fegato, perché l’errore di Nadine gli sarebbe costato almeno una seccatura con la polizia e più probabilmente una multa piuttosto salata, ma non poteva infierire sull’eroina della serata. «Se proprio andasse male, ti sigillerebbero il trasmettitore per qualche mese. Visto che non lo avevi mai usato prima di questa sera, sono sicuro che sopravviverai.»
Incupendosi, lei lo prese a braccetto e si schiacciò contro il suo fianco. «Amore, so che non sarà solo questo. Pagherò tutto io… però… All’udienza dovrò dichiarare di essere un androide. Ti dispiacerebbe prendermi a noleggio?»
Jerome immaginò quanto quel pensiero la stesse deprimendo e la cinse la schiena con un braccio per rincuorala. «Non ti preoccupare. E a te dispiacerebbe se ci sposassimo? Così potresti infrangere la legge senza preoccuparti di questi dettagli.»
«Sposarci?» sussurrò Nadine con le lacrime agli occhi, fermarsi di colpo. Vedendolo annuire, gli saltò addosso, si mise a piangere sulla sua spalla e mugolò: «Certo… che lo voglio!»
Non più di trenta metri li separavano dalla gelateria, ma per arrivarvi impiegarono quasi una mezz’ora. E quando Jerome le aprì la porta, Nadine entrò nel negozio compiendo una elegante piroetta. Scoppiò a ridere nel bel bezzo del volteggio, si accovacciò su un tavolino libero e nascose tra le braccia il vivido rossore del viso.
Il giorno successivo non si parlò d’altro che del fallito attentato alla sfilata di moda. I giornali raccontarono l’accaduto con dovizia di particolari, soffermandosi sulla gigantesca caccia all’uomo che aveva coinvolto il pubblico e reso l’edizione di quell’anno la più emozionante che mai si fosse svolta. Due androidphobe − così stampa e televisione chiamarono i delinquenti − erano stati arrestati prima che le modelle iniziassero a camminare sulla passerella e tre complici erano finiti in manette nel corso della notte. Secondo i comunicati della polizia, gli attentatori avrebbero potuto provocare una strage; e tale livello di pericolosità aveva spinto gli ispettori a coinvolgere immediatamente il reparto Indagini Avanzate. I dispositivi elettronici recuperati, dopo esser stati opportunamente analizzati, avevano così permesso di calibrare i tracciatori di spettro atomico e di localizzare tutti i fuggitivi entro l’alba.
Jerome pregustava l’idea di rilassarsi con Nadine e di guardare i notiziari scherzando con lei. Ma al suo ritorno dal lavoro, trovò una brutta sorpresa. Un uomo dall’aria severa, con indosso l’uniforme azzurra della polizia, stava seduto sul divano e lo attendeva lustrando i bottoni dorati dalla divisa. Il ragazzo non si aspettava di ricevere così presto una notifica del tribunale e neppure che gli venisse consegnata a mano. Notò poi che Nadine si era già preparata per affrontare il processo senza farsi riconoscere: aveva raccolto la chioma sotto un cappello a tesa larga, si era coperta il viso con un velo nero e vestiva un abito lungo e austero. Era certo che sotto quel travestimento vi fosse lei perché gli stava correndo incontro.
«Dobbiamo andare subito…» piagnucolò la ragazza, gettandosi addosso all’amato. «Dice che siamo in brutto guaio.»
L’agente si alzò in piedi e li fissò con sguardo arcigno. «Jerome Leroy?»
«Sì, sono io», rispose lui, avvertendo un nodo nelle viscere.
«Giovanotto, ha commesso diverse gravi infrazioni ieri sera e sussiste il concreto rischio che lei le reiteri, pertanto il suo caso verrà discusso secondo la procedura di giudizio urgente. I dettagli delle contestazioni le saranno spiegati dal suo avvocato.»
«Lui non ha colpe», protestò Nadine con voce rotta, mettendosi di fianco a Jerome. «Sono io la responsabile di tutto.»
«Signore, ordini al suo androide di fare silenzio. E se intende cambiarsi d’abito, le suggerisco di provvedere immediatamente. Non appena lei sarà pronto, vi scorterò entrambi in tribunale.»
Il ragazzo si girò verso la compagna, che sentiva fremere in modo preoccupante, e la supplicò: «Ti prego, non peggiorare le cose.» La vide annuire e chinare il capo, così spostò le mani sulle sue spalle e le chiese: «Tu sei pronta?»
Nadine fece di nuovo cenno di sì con la testa. Poi si alzò sulle punte dei piedi, scostò il velo quanto bastava e gli diede un bacio leggero sulle labbra. Lo prese quindi a braccetto, lo accompagnò nel cortile e attese assieme a lui che il poliziotto li conducesse alla sua vettura.
Scortati da una guardia armata e da un avvocato virtuale, l’imputato e l’androide furono condotti nell’aula di dibattimento. La conversazione con il difensore d’ufficio, un ologramma che seguiva i propri assisti a ogni passo grazie ai proiettori montati ovunque, aveva gettato Jerome e Nadine nella disperazione. Rischiavano di dover pagare un’ammenda esorbitante e non avevano altra possibilità che affidarsi alla clemenza della corte. Inoltre, dato l’interesse mediatico che gravava sul processo, una eventuale testimonianza di lei sarebbe stata registrata dai giornalisti, e per loro sarebbe stato sin troppo semplice rintracciarla tramite la sua voce. E se questo fosse accaduto, chiunque a Parigi avrebbe visto la sua foto e saputo che era un androide.
Jerome sentì lo stomaco attorcigliarsi non appena l’aprirsi dei battenti gli mostrò il banco del giudice, un tavolo di legno massiccio che troneggiava sulla sala. Era posto su un piano rialzato, tra la bandiera francese e quella della federazione europea, e la sua maestosa severità gli pareva anticipare la durezza di chi lo avrebbe occupato. Vide Nadine incespicare al proprio fianco, come se anche lei ne avesse tratto la medesima impressione, perciò la sostenne mentre avanzava verso la postazione della difesa. Scorse sulla parete destra il simbolo universale delle religioni e glielo indicò. Tentando di apparire sereno, le chiese: «Sai spiegarmi cosa significa?»
Lei si accomodò su una sedia senza smettere di guardare la stampa e poi rispose con aria afflitta: «La scala sale in cielo, verso la luce, per rappresentare il cammino spirituale. E gli uomini e le donne che vi camminano hanno le ali chiuse per indicare la loro imperfezione, difatti le aprono man mano che salgono.»
«Questa è la spiegazione ufficiale dell’ideatore, Jeff Dalié, però lui era ateo e aveva scritto il vero significato nel testamento. Se noti, le scale si fermano sotto la luce e le nuvolette attorno a chi sta in cima sembrano fatte di fumo, come se ali stessero bruciando. Insomma, il vero significato è che, se anche ci fosse un dio, noi non siamo destinati a conoscerlo. Dalié, però, è morto mezzo secolo dopo l’adozione dell’immagine, quando ormai era troppo diffusa per pensare di cambiarla.» Jerome non fu sicuro di averla distratta e, vedendo entrare i giornalisti, temette che la loro presenza potesse spingerla nel panico. Le strinse una mano, si voltò istintivamente verso l’ologramma, l’immagine di un rassicurante avvocato in giacca e cravatta, e sussurrò: «L’accusa ha ritirato la richiesta di sentire la mia compagna?»
Dall’auricolare giunse una voce: «Ancora no, signor… La risposta è arrivata proprio ora, signor Leroy. Purtroppo l’androide sarà chiamata ugualmente al banco dei testimoni, anche se vi dichiarate colpevole di tutte i capi di imputazione. Come vi avevo anticipato, domandare di escluderla appare una mossa sospetta: suggerisce che stiate cercando di nascondere qualcosa.»
«Dovevo comunque tentare», sbuffò lui. «E il giudice? Ha ancora accettato di parlarci in privato?»
«Volevo dirvelo, signor Leroy: ha appena acconsento. Seguitemi nel suo studio.»
Tenendo Nadine per mano, Jerome si alzò e le disse col tono più fiducioso che riuscì di fingere: «Vedrai che lo convinceremo.»
«Lo spero davvero», sospirò lei, stringendosi al suo fianco.
Attraversarono la porta che il giudice avrebbe dovuto utilizzare per entrare nell’aula e, dal piccolo vestibolo in cui si erano ritrovati, passarono direttamente nel suo ufficio. La stanza era grande quanto l’anticamera, e l’arredamento consisteva in una scrivania, quattro poltrone e alcuni quadri digitali in cui venivano riprodotti dei tranquilli paesaggi di montagna.
«Prego, accomodatevi», disse un magistrato sui cinquant’anni, vestito con la tipica toga nera e dal volto roseo e paffuto. «Spiegatemi il motivo di questo colloquio e cercate di essere brevi.»
Incoraggiato dal suo aspetto bonario, Jerome gli si sedette davanti e rispose: «Vostro onore, accetterò qualunque sentenza, ma chiedo che la mia compagna sia ascoltata a porte chiuse, preferibilmente soltanto da lei.»
Il giudice aggrottò le sue folte sopracciglia e guardò lo schermo del proprio computer. «Vediamo… Comunicazione su canale non autorizzato a duemilaseicentotrentadue diversi androidi, diffusione di informazioni potenzialmente denigratorie nei riguardi di quattro minorenni, procurato allarme nel corso di manifestazione con ampissima affluenza, e altro ancora.» Spostò nuovamente gli occhi sul ragazzo e aggiunse: «È consapevole di cosa significa? Potrei riconoscerle delle attenuanti e far decadere qualche capo d’accusa, invece lei è disposto a sporcarsi la fedina penale e a rimetterci… direi almeno lo stipendio di un decennio. Vuole spiegarmi il perché?»
Il ragazzo asciugò il sudore che gli velava le mani sui pantaloni, si concesse un paio di respiri profondi per calmarsi e poi replicò: «Ho bisogno che la testimonianza di Nadine sia conosciuta dal minor numero possibile di persone. Lei è molto speciale… Spero capirà le nostre ragioni, interrogandola.»
«Io, invece, spero vivamente che lei sappia cosa cosa sta facendo», replicò il magistrato, guardandolo come se stesse parlando con un idiota. «Bene, vediamo di risolvere la faccenda alle svelte. Signorina, attiva la modalità testimone.»
«Sono pronta, vostro onore», rispose lei, intrecciando le sue dita tremanti e posandole in grembo.
Il giudice controllò lo schermo e annuì. «Sei a conoscenza di cosa il signor Leroy non vuole che tu dica ai cronisti?»
«Sì. La decisione di andare alla sfilata e di inviare il messaggio è stata mia. Jerome si era opposto, ma io ho insistito. Se fosse rimasto delle sua idea, io sarei andata ugualmente, o almeno ci avrei provato.»
«Mi dispiace, signor Leroy. Può aver programmato l’androide nel modo più bizzarro che esista, tuttavia questo non la solleva da alcuna responsabilità.»
Jerome temeva che Nadine si bloccasse, lasciandosi intimidire dal tono del giudice, ma si rassicurò vedendola stringere i pugni e le sorrise per incoraggiarla.
«Vostro onore,» disse lei in tono deciso e con la testa ben alzata, «lui non ha mai alterato i miei parametri e in quel momento nessun contratto lo legava a me. Gli ho chiesto di regolarizzare il mio affitto in seguito, dopo che ho inviato il messaggio, perché volevo che oggi ci fosse lui insieme a me.»
Il giudice si mise una mano sulla fronte, si rivolse nuovamente al ragazzo e lo fissò con occhi sgranati. «Che genere di accordi aveva con il proprietario? Si rende conto che è qui al posto suo?» Poi, fremendo d’ira, aggiunse: «Cosa diamine le è passato per la testa? La diverte l’idea di avermi fatto perdere tempo? Questo è oltraggio…»
«Io sono una cittadina francese!» esplose Nadine, con una tale furia da far trasalire anche Jerome. «Sono registrata all’anagrafe, ho un regolare documento di identità e lavoro in una scuola elementare. Io dovrei essere processata, non Jerome e nessun altro!»
«Che mi venga un colpo», fece lui, sbiancando in viso e appiattendosi contro lo schienale. Guardò il monitor per un momento, poi prese dalle mani della ragazza il documento che lei gli porgeva, lo rigirò tre volte e disse esterrefatto: «Nadine Morel… Da quando in qua… Nossignore, nossignore! Non ne voglio sapere nulla e non sarò io a impegolarmi in una rogna simile!» Restituì la tessera alla proprietaria, si passò le mani tremanti sui capelli e aggiunse: «D’accordo, non è il caso di estendere la giurisprudenza agli automi per questo processo ridicolo. Signorina, se intende rivoluzionare codice civile e legale, si ripresenti con un reato più grave e la smetta di sventare atti criminali. Siamo intesi?»
Nadine strinse le dita di Jerome e, con voce amabile, divertita e soddisfatta, replicò: «Farò il possibile, vostro onore.»
«Ci conto.» Il magistrato spostò gli occhi ancora increduli sull’ologramma e continuò: «Avvocato, la sua presenza non è più richiesta. Se ne vada e cancelli tutte le registrazioni di questo caso.»
«Con permesso», disse una voce dal soffitto, mentre l’immagine dell’uomo in giacca e cravatta svaniva.
«Vivavoce. Pubblico ministero Bertrand», ordinò il giudice.
Dopo un momento si udì una voce forte e dura. «Sì? Fournier, a cosa devo questa chiamata?»
«Ascolta bene, le tue accuse sono palesemente ridicole. So benissimo che c’era tuo figlio a dirigere la ricerca degli androidphobe e che vuoi vendicarti sul giovanotto perché gli ha rubato la scena, quindi la chiudiamo qui.»
«Cosa? Mi stai chiedendo di ritirare le imputazioni?»
«È quello che farai. Esattamente.» Per un lungo momento si udì un silenzio carico di tensione; il giudice lo spezzò dicendo: «Mettiamola così: dichiariamo che il giovanotto non c’entra. Scambio di persona o quel che ti pare. Lui si asterrà dal concedere interviste e non spargerà disonore sulle forze dell’ordine, che nel caso in questione si sono dimostrate meno efficaci di un ragazzo e di un androide. Ti sembra un buon accordo? Bada che non te ne offrirò uno migliore.»
«Accetto», ringhiò Bertrand. «Uh… sia chiaro che questa cosa non mi piace. Signor Leroy, mi sente?»
Cercando di non apparire troppo contento, Jerome rispose: «Sì, la sto ascoltando.»
«Questa è la nostra versione: il suo automa era stato hackerato e il responsabile del messaggio è ancora ignoto. Se accetterà una intervista di troppo, dovrà rispondere di falsa testimonianza e di favoreggiamento. La manderò in carcere, ha compreso?»
«Siamo estranei ai fatti, vittime all’oscuro di tutto. Non chiedo di meglio.»
«Bene», commentò il giudice. «Bertrand, più tardi ti offrirò un bicchiere di cognac.»
«Che sia d’annata.»
Il collegamento si chiuse, e Nadine si gettò subito fra le braccia di Jerome. Stava per baciarlo, ma all’ultimo istante si ritrasse. Si voltò verso il giudice, chinò il capo e tossì un paio di volte. Poi, lasciando trasparire tutto il suo imbarazzo, gli disse: «Le sono grata… davvero… Noi non beviamo alcolici… ma se le andasse bene un tè o una tisana… sa dove abitiamo.»
Lui la osservò con aria dubbiosa per un lungo momento, ma infine le sorrise: «Credo accetterò l’offerta. Ora tornate in aula e attendete che vi abbia prosciolti. Dopo potrete abbandonarvi alle effusioni.»
Jerome e Nadine lo ringraziarono con estrema riconoscenza, ma nel vestibolo violarono i suoi ordini scambiandosi un bacio breve ma ardente, come a compensare tutta la tensione accumulata in quelle ore.
Se ne stavano distesi sul letto. Sul soffitto brillavano dei puntini di luce, che riproducevano le costellazioni visibili in cielo, e la penombra avvolgeva i loro corpi accaldati. Jerome avvertiva il leggero peso di Nadine sul proprio petto e il suo respiro non ancora acquietato, che gli solleticava la pelle velata di sudore.
«Amore,» disse carezzandole la schiena, «tu quanti bambini vorresti avere?»
Lei si irrigidì ed esitò per un lungo momento. «Jerome… se a te sta bene… io ne desidero cinque… e vorrei averli presto. Se aspetto troppo, saranno ancora piccoli quando capiranno che non invecchio come una donna normale. E… ci tengo davvero molto a utilizzare gli ovuli della vera Nadine. Lo so, ti sto chiedendo tanto, e tu sei ancora giovane… però…»
Corrugando la fronte, il ragazzo replicò: «Ho capito.» Cinque bambini gli sembravano davvero tanti, sopratutto se li avessero cresciuti senza aiuto. E lui non era propenso a noleggiare un androide. A un tratto, però, sorrise. Nonostante fosse uscito dal tribunale solo da poche ore, era talmente abituato a pensare a Nadine come a una persona da dimenticare la verità. «Dimmi un po’, tu continuerai a dormire anche se non ti è strettamente necessario, o di notte baderai ai piccoli?»
«Oh… è vero, però… Se sei solo tu a saperlo… comunque non te ne approfittare… Io non…»
Lui le accarezzò una guancia e nello stesso momento la interruppe con tono scherzoso: «Non ti chiederò mai nulla di disumano, a meno che non sia opportuno per assecondare le tue follie. Non hai avuto remore a usare l’antenna, o sbaglio?»
«Quella era un’emergenza», protestò Nadine, debolmente.
«Anche i bambini lo sono, almeno dal mio punto di vista.» Jerome le posò un dito sulla bocca, prima che lei potesse replicare, e continuò: «Non ho ancora finito. Possiamo trovare un accomodamento: io acconsentirò ad averne cinque, ma tu mi lascerai dormire e tra un concepimento e l’altro mi consentirai di dire come la penso. Se non mi vuoi morto, credo che questo sia il minimo sindacale.»
Lei si rilassò e si spostò sopra il ragazzo finché le loro labbra non si sfiorarono. «Nossignore, nossignore!» esclamò. Dovette interrompersi per soffocare una risata e poi, fallendo miseramente nel tentativo di mostrarsi seria, continuò: «Avrai anche ragione, ma tra nove mesi e mezzo partorirò due fratellini. E bada che non ti offrirò un accordo migliore.»
Jerome compì uno sforzo tremendo per non baciarla e un altro ancor più arduo per non scoppiare in una risata. Non ricordava il volto della giovane Moreau, ma gli pareva sensato che anche il suo aspetto fisico fosse stato utilizzato per plasmare la Nadine che amava, perciò le chiese: «Quei due bambini ti somiglieranno?»
«Beh,» fece lei, con aria divertita, leggermente canzonatoria, «sai come funziona. Erediteranno un po’ da me e un po’ dal papà.»
«Allora spero che siano due belle femminucce, dolci come la loro madre. Insomma, se prendessero tutto da te, io non potrei essere più felice.»
Inevitabilmente, le loro labbra si unirono. Jerome sapeva che al mattino sarebbe stato penoso alzarsi per andare al lavoro, tuttavia in quel momento non gliene importava proprio nulla. Nella sua testa c’era posto soltanto per lei, per il desiderio di ricambiare il piacere che Nadine gli stava regalando. Continuò a baciarla, a far danzare la lingua con la sua e a sfiorarle la testa e la schiena finché ebbe fiato. Poi giocherellò con lei, toccandola come un buon amante sa fare, prendendo in giro la sua imitazione del giudice e ricorrendo a ogni astuzia per impedirle di replicare. Infine si sentì pronto per offrirle tutto sé stesso una seconda volta. Poteva godersela e averla tutta per sé ancora per diversi mesi, ma si lasciò trasportare come se quella fosse l’ultima notte che passavano insieme.
Sfinito e appagato, rimase abbracciato a Nadine, il cuore che batteva all'unisono col suo. Le sfiorò un’ultima volta le labbra, con riconoscenza, e chiuse gli occhi, felice di aver tutta una vita da trascorrere insieme a lei.
Note dell’autore
Tutte le speculazioni da me fatte circa gli androidi sono completamente privi di qualunque rigore scientifico, pertanto spero che siano credibili a chi ignora la materia tanto quanto me.
La statua in legno polimerizzato dedicata a Gandhi, ovviamente è un’invenzione. Ed è una mia invenzione anche l’opera d’arte moderna realizzata con un foro e un pezzo di scotch, anche se quella realizzata con un buco sul muro è esistita finché un addetto non l’ha stuccata per errore.
Se tu, mio ipotetico lettore, apprezzi l’arte moderna, sappi che non condivido i pensieri di Jerome sull’argomento. Altrimenti, sappi che abbiamo qualcosa in comune.
Non ho accennato a come gli androidi potessero concepire un figlio perché le banche di ovuli e del seme esistono già oggi così come la procreazione assistita. Ovviamente il componente che permette di far crescere un feto dentro donne e uomini artificiali può essere installato anche in un momento successivo alla loro consegna.
"Storia partecipante alla Challenge dei 100 baci indetto da cowboy89 sul forum di EFP".
Nickname forum e efp:
thors / thors
Fandom: -
Personaggi e pairing: -
Rating: Giallo
Avvertimenti: -
Prompt usato:
34. un bacio che ti lascia senza fiato
Note autore: Lime
Link: https://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3962400&i=1