Doctor [Ti voglio per Me in questa
Noiosa Eternità]
Prologo.
Il ragazzo reclina il
capo all’indietro, studiando la casa, le sue pareti
fatiscenti, le finestre dalle persiane divorate dal tempo ed infine la
porta d’ingresso, un rettangolo di legno antico e bucato
dalle tarme sovrastato da un architrave triangolare.
Porta una mano a sistemare gli occhiali scivolati sulla punta del naso, china lo sguardo sulle valigie e ne afferra le maniglie per cominciare a trascinarle sugli scalini.
Gli angoli della bocca sono lievemente increspati in una smorfia, unico sintomo di avversione per quel luogo dimenticato da Dio presente sul volto inespressivo.
Economica e quasi perfetta, ricorda le parole del venditore dalla voce acuta e melliflua.
Soltanto ora comprende che cosa significhi esattamente quel quasi.
Giunto sotto l’architrave, cerca nella tasca la chiave e l’infila nella toppa; la porta si apre con un cigolio secco dopo un breve litigio con la serratura semi arrugginita.
Muovendo qualche passo nell’ingresso, tasta nell’oscurità la parete fin quando non incontra l’interruttore della luce e lo schiaccia: si trova in una stanza polverosa, illuminata dalla luce incerta di una vecchia lampada e adornata da un portaombrelli e un appendiabiti. Un corridoio si snoda a destra e a sinistra, una rampa di scale sale ai piani superiori dinanzi a lui.
Il semplice gesto di sistemare l’impermeabile sull’appendiabiti causa il sollevarsi d’una nuvola di pulviscolo.
Il giovane è costretto a togliersi gli occhiali e ripulirne le lenti con una pezza rifugiata nella tasca dei pantaloni, celando dietro il palmo della mano un colpo di tosse.
Ottimo. commenta fra sé con sarcasmo.
Dall’oscurità del primo piano, gli occhi d’ametista seguono in silenzio i movimenti dell’aspirante dottore. Ne scrutano il volto dalla bocca sottile, le sopracciglia inarcate e il naso aquilino dove trovano equilibrio gli occhiali che schermano le iridi scure; scivolano sull’intera, magra figura, soffermandosi sul collo pallido, sulla vena evidenziata dalla pelle tesa su di essa.
Non è male, ha commentato il suo amico Deidara, l’anonimo venditore di quell’antica abitazione, in seguito al colloquio con il ragazzo. Se però non dovesse piacerti, potrei sempre prendermelo io, ha aggiunto con un ghigno malizioso.
L’uomo annuisce fra sé, ritirandosi silenziosamente nel buio.
No, non è affatto male.
Porta una mano a sistemare gli occhiali scivolati sulla punta del naso, china lo sguardo sulle valigie e ne afferra le maniglie per cominciare a trascinarle sugli scalini.
Gli angoli della bocca sono lievemente increspati in una smorfia, unico sintomo di avversione per quel luogo dimenticato da Dio presente sul volto inespressivo.
Economica e quasi perfetta, ricorda le parole del venditore dalla voce acuta e melliflua.
Soltanto ora comprende che cosa significhi esattamente quel quasi.
Giunto sotto l’architrave, cerca nella tasca la chiave e l’infila nella toppa; la porta si apre con un cigolio secco dopo un breve litigio con la serratura semi arrugginita.
Muovendo qualche passo nell’ingresso, tasta nell’oscurità la parete fin quando non incontra l’interruttore della luce e lo schiaccia: si trova in una stanza polverosa, illuminata dalla luce incerta di una vecchia lampada e adornata da un portaombrelli e un appendiabiti. Un corridoio si snoda a destra e a sinistra, una rampa di scale sale ai piani superiori dinanzi a lui.
Il semplice gesto di sistemare l’impermeabile sull’appendiabiti causa il sollevarsi d’una nuvola di pulviscolo.
Il giovane è costretto a togliersi gli occhiali e ripulirne le lenti con una pezza rifugiata nella tasca dei pantaloni, celando dietro il palmo della mano un colpo di tosse.
Ottimo. commenta fra sé con sarcasmo.
Dall’oscurità del primo piano, gli occhi d’ametista seguono in silenzio i movimenti dell’aspirante dottore. Ne scrutano il volto dalla bocca sottile, le sopracciglia inarcate e il naso aquilino dove trovano equilibrio gli occhiali che schermano le iridi scure; scivolano sull’intera, magra figura, soffermandosi sul collo pallido, sulla vena evidenziata dalla pelle tesa su di essa.
Non è male, ha commentato il suo amico Deidara, l’anonimo venditore di quell’antica abitazione, in seguito al colloquio con il ragazzo. Se però non dovesse piacerti, potrei sempre prendermelo io, ha aggiunto con un ghigno malizioso.
L’uomo annuisce fra sé, ritirandosi silenziosamente nel buio.
No, non è affatto male.