Bene, bene, bene.
Non potevo mancare di festeggiare il
compleanno del mio amatissimo, ovviamente. Avrei dovuto postare questa fic il 16 settembre, che era il giorno giusto, ma sono
stata presa in ostaggio da un commando di indipendentisti baschi che mi hanno
fatto mangiare chili di jamon serrano buonissimo ma
non mi lasciavano usare il computer. Poi l’aereo con cui dovevo essere
rimpatriata è finito in mezzo a una tempesta elettromagnetica terribile
ed ha fatto un atterraggio di fortuna a Sant’Elena, dove il copilota
è stato scambiato per il pronipote di Napoleone, e ho dovuto intervenire
per evitare un incidente diplomatico internazionale. Così ho fatto due
settimane di ritardo. Poi la cifra tonda non mi piaceva e ci ho aggiunto due
giorni.
Ecco, sensei, chi semina vento
raccoglie tempesta. ^__^
Ma soprattutto, sensei mio adorato, buon compleanno.
suni
Siediti
["Bisogna accettare la realtà ed
imparare dalle esperienze."]
Non avrebbe pianto. Lui non avrebbe pianto
per nessuna ragione, non l’avrebbe fatto, no, e stringeva forte i denti
tanto da farsi male alla mascella sforzandosi di tenere gli occhi bene aperti,
che non si inumidissero. Serrava i pugni fino a conficcarsi le unghie nei palmi
delle mani e guardava fisso il suolo un paio di metri davanti a sé.
“Vieni, Kakashi-kun.”
Nel sentire quella voce bonaria il
bambino voltò il viso di scatto, sentendo le lacrime spingere per uscire
fuori, per trovare sfogo a tutto quel dolore – come poteva il suo stomaco
stringersi così tanto? Era una cosa umana, sarebbe successo altre volte?
No, impossibile, non sarebbe nemmeno sopravvissuto.
“Kakashi, guardami.”
Molto controvoglia, con le labbra che
tremavano incontrollatamente, il bambino si rassegnò a sollevare gli
occhi in quelli azzurri, tristi e comprensivi dell’interlocutore. Minato-san
accennò un sorriso amaro, chinandosi leggermente verso di lui.
“Vieni.”
Kakashi non parlò –
aveva paura che gli tremasse la voce, e non voleva fare brutta figura col Lampo
Giallo. Suo padre lo stimava tanto, glielo diceva sempre.
Però scosse ripetutamente la
testa, raddrizzando le spalle e le ginocchia quasi a dire che lui stava bene
lì dov’era. Non voleva andare da nessuna parte o parlare di
niente, voleva solo stare con suo padre. Minato sospirò tra sé,
scrollò le spalle e lo prese per un braccio. Poi Kakashi si sentì
schizzare in aria come se l’avessero incoccato su un arco e scagliato come
una freccia.
Lo chiamavano Lampo Giallo
perché era lo shinobi più veloce di Konoha. Tanto che ora, mentre
Minato-san lo trasportava rapidissimo chissà dove, gli occhi gli
lacrimavano – ma questo non c’entrava nulla col fatto che volesse
piangere. Era l’aria che gli inumidiva le palpebre.
La loro folle corsa
s’interruppe d’improvviso su un tetto, su cui Minato atterrò
con inattesa leggerezza.
C’era un sole radioso e il
cielo era lindo, terso. Una giornata splendida, da aprire il cuore. Era proprio
incredibile che suo padre fosse morto in un giorno così. In qualunque
giorno, in effetti, ma come poteva esserci una giornata tanto magnifica e
succedere una cosa così devastante?
“Siediti, Kakashi-kun.”
Minato lo guardava fisso, serio, e
lui sapeva che non avrebbe smesso fino ad ottenere una sua reazione,
possibilmente volta ad assecondarlo: lui lo conosceva, Minato, era un amico di
papà. Si ricordava di lui da sempre e sapeva che Minato era come le
pareti delle montagne. Non come il mare, che attacca e sommerge, ma come la
roccia: restava lì, calmo, ma non si smuoveva manco a dargli fuoco.
“Preferirei rimanere in
piedi,” si risolse a mormorare con riluttanza. Si morsicò la
lingua, stizzito, perché la sua voce aveva tremato.
“Invece adesso ti siedi,”
rispose Minato, benevolo ma deciso. “Qui, Kakashi.”
Lui lo guardò prendere posto
sul parapetto, sotto quel sole straordinario. Soltanto dopo parecchi secondi,
in cui Minato non smise di fissarlo con benigna ma incrollabile insistenza, si
rassegnò a fare come aveva detto. Si sedette dritto, rigido, con le
piccole mani strette appoggiate sulle gambe e la schiena ben eretta. Si
guardò i piedi continuando a ripetersi che lui non avrebbe pianto,
perché non era debole.
Poi, con suo infinito scorno, la mano
di Minato entrò nel suo campo visivo e stringeva un pezzo di stoffa.
Kakashi la osservò quasi risentito.
“Non mi serve. È il
vento che mi ha fatto venire gli occhi lucidi,” si difese a mezza voce.
“Almeno soffiati il naso, ti
sta colando della schifezza addosso.”
Kakashi sgranò gli occhi, sul
punto di rispondere al jonin che era un visionario, ma si accorse di avere le
labbra umide di qualcosa che effettivamente colava dalle sue narici. E si rese
conto che anche le sue guance erano bagnate, mentre prendeva il fazzoletto con
un gesto brusco.
“Io non sto pian-gendo,”
puntualizzò fiero, e gli si spezzò la voce.
“No, certo,”
confermò Minato annuendo.
Kakashi si coprì il viso col
tessuto, infuriandosi con se stesso, col mondo e con
“Io non sto piangendo. Non
sarò debole anche io,” ribadì con un singhiozzo. “Non
lo sarò!” ripeté con più convinzione, ma senza
togliere lo scudo che gli copriva il volto. Era insopportabile avere una
faccia, così chiunque poteva vedere che era bagnata di lacrime e che,
nonostante lo sforzo dei muscoli, non riusciva in alcun modo ad impedire che le
sue labbra fossero piegate verso il basso e al suo naso di colare. Così
tutti potevano sapere che era debole, e lui non lo poteva essere. Lui era un
Hatake. Nessuno doveva vedere il suo volto in quel modo. Nessuno doveva vederlo
così vulnerabile. Papà era morto, piuttosto che mostrarsi
distrutto.
“Kakashi, non c’è
niente di male,” osservò Minato, poggiando la mano sulla sua
spalla. Il bambino si divincolò, inviperito.
“Sì!”
sbottò rabbioso, la voce soffocata dal tessuto. “Sì,
invece! Io non piango, io non sono un moccioso senza spina dorsale!”
“Va bene,” la presa di
Minato sulla sua spalla si fece più forte, e decisa. “Ora
ascoltami, Kakashi,” aggiunse, grave, facendo per voltarlo verso di
sé.
“E non mi guardare! Non mi devi
guardare!” protestò lui agguerrito attraverso il fazzoletto, il
capo chinato, le mani che avvolgevano le sue guance. “Io sono uno
shinobi, e gli shinobi non piangono!”
Sentì Minato sbuffare
lievemente.
“Essere uno shinobi non
significa non essere persone. Tu sei un figlio, ed è il figlio che sta
piangendo,” osservò calmo il ragazzo.
“Non lo farò più.
Non lo farò mai più,” continuò Kakashi in un
mormorio, ma ormai singhiozzava tanto da sussultare. Si detestò,
perché se suo padre l’avesse visto chissà cos’avrebbe
pensato. Sentì le braccia di Minato circondarlo con una dolcezza forse
inaspettata da parte del più letale guerriero di Konoha.
“Domani, Kakashi,
domani,” lo sentì mormorare a voce bassa. Annegò il viso
contro il suo torace e si lasciò piangere con tutte le sue forze. I
piedi di suo padre penzolavano ancora nel vuoto davanti ai suoi occhi, rigidi e
freddi, e i suoi polmoni facevano male.
“Siamo persone, Kakashi. La
morte ci tocca, che ci piaccia o meno.”
Scosse forte la testa, strofinandola
contro la massa solida del petto di Minato. Lui sarebbe stato diverso, lui
sarebbe stato uno shinobi vero, e avrebbe sempre pensato soltanto alle
missioni.
“Siediti, Kakashi.”
S’irrigidì già
soltanto sentendo la voce, anche se non ne aveva veramente motivo. Mantenne lo
sguardo fisso nel vuoto, sui tetti di Konoha, e il suo occhio scoperto rimase
vacuo e indifferente.
“Ho detto siediti,
Kakashi,” ripeté Minato con fermezza.
Lui scosse lievemente la testa,
assorto. Non poteva parlare – non perché non volesse, ma non gli
riusciva. La sua voce si strozzava in gola e, se anche non fosse stato
così, non aveva parole con cui esprimersi. Non riusciva a trovare una
sola frase da dire, né ne vedeva il motivo per farlo.
“Stai esplicitamente
contravvenendo a un mio comando,” osservò Minato con lontana
severità.
Kakashi deglutì un groppo
d’infinita pesantezza, e insieme a quello inghiottì anni di
convinzioni improvvisamente vuote. Oggi
non sono uno shinobi, pensò nitidamente. Sistemò il coprifronte sull’occhio – gli faceva ancora un
po’ male la ferita – e prese un respiro da annegato, senza sentire
l’ossigeno scendere nei polmoni. Tentò di nuovo, invano, e
finalmente sputò fuori le maledette parole, le uniche che aveva in mente
e che a pronunciarle bruciavano come fiammate.
“E’ stata colpa
mia.”
Sentirlo affermare dalla propria voce
gli diede una vertigine tale che pensò avrebbe vomitato, mentre la frase
gli rimbombava in testa e nello stomaco.
“Non più tua che
mia,” ribatté Minato gravemente.
Kakashi strinse le labbra sotto la
maschera, restando di spalle. Scosse piano la testa, fissando ostinatamente il
nulla. Da qualche parte, nella sua mente, Obito rideva berciando una scusa
strampalata per il proprio ritardo. La sua gola si chiuse, pungendo.
“Te l’ho già detto
tante volte, Kakashi. Siamo persone; le cose ci accadono e noi dobbiamo fare
del nostro meglio. Non sempre funziona.”
Lui restò ancora in silenzio.
Aveva davvero fatto del suo meglio, sbattendo per anni in faccia all’amico
la propria superiorità? Aveva davvero fatto del suo meglio, lasciandolo
andare da solo a cercare Rin?
Il groppo nella sua gola si fece
più pesante, gravandogli su tutto il torace. Gli sembrava di avere nella
trachea una bolla che s’ingigantiva e tagliava come una lama.
“Non siamo perfetti. Alle volte
sbagliamo, e non sempre riusciamo a rendercene conto in anticipo. Quasi mai, in
effetti,” continuò Minato, quasi avesse interpretato il suo
silenzio. “L’importante è fare tutto il possibile, quando si
può, finché si può. È questo che ci si aspetta da
noi.”
Kakashi annuì lentamente,
composto. Si chiese come avesse potuto metterci tanto tempo a capire una cosa
così elementare, e perché Obito avesse dovuto rimetterci
perché lui ci arrivasse. Gli sembrò un’immensa presa in
giro, una beffa infame, tanto che gli sfuggì un amaro riso silenzioso e
brevissimo. Aveva davvero pensato che l’unica cosa importante fosse
preoccuparsi unicamente del buon esito degli incarichi e non di tutto il resto,
l’aveva fatto per tutto quel tempo, e adesso la realtà appariva
ovvia da sfiorare il ridicolo.
C’era qualcosa che andava molto
al di là di questo, c’era il suono di una risata diversa da tutte
le altre, uno sciocco sorriso ed occhialoni colorati.
C’erano, e lui se li era
lasciati passare accanto come aria, senza dar loro la giusta importanza.
“Ti sei battuto bene, Kakashi.
Hai fatto del tuo meglio.”
La voce di Minato gli sbatté
contro i timpani come un pugno. Chinò semplicemente la testa e strinse
le mani sul parapetto, forte da far sbiancare le nocche delle dita.
Serrò i denti ed annuì in silenzio, a testa bassa.
“Sensei,” sussurrò
a labbra strette, a fatica. “Potresti…?”
“Vado,” rispose
unicamente Minato, annuendo mite.
Lui attese ancora qualche secondo,
poi si abbandonò avanti, poggiando la fronte sulla muratura, e la bolla
esplose. Scoppiò in violenti singhiozzi continuando a serrare
spasmodicamente la presa. Nessuno lo poteva vedere, e comunque non contava
molto. Lui non era solo uno shinobi, era un amico. Ed era l’amico –
l’amico, non lo shinobi – a piangere.
Si lasciò andare seduto per
terra, girandosi per appoggiare le spalle al parapetto.
Era l’amico, non lo shinobi, a
spezzarsi dentro.
Se Minato sensei fosse stato
lì, gli avrebbe detto di sedersi. Invece non c’era, c’erano
solo caos e macerie, e il villaggio diviso tra un gioioso sollievo e un lutto
incolmabile; ma Kakashi, per una volta, mise spontaneamente in pratica quel
consiglio che non voleva mai ascoltare, a suo tempo, e si sedette. Per terra,
infischiandosene di tutto quel che lo circondava, della gente che rideva e
piangeva e sembrava come impazzita.
Si sentì orribilmente perso,
come non gli era mai successo prima. Spostò uno sguardo smarrito intorno
a sé e una parte di lui restò scioccamente in trepidante attesa,
aspettandosi che da un istante all’altro lo Yondaime
si fiondasse accanto a lui con la sua solita, pazzesca velocità e lo
confortasse nel suo modo quieto e savio.
Ma Minato sensei, questa volta, non
sarebbe arrivato.
Kakashi respirò profondamente.
Si aggrappò con le unghie al terreno come se anche quello, da un momento
all’altro, avesse potuto sparire da sotto i suoi piedi insieme alle sue
certezze. Restò immobile, con l’impressione che tutto girasse
vorticosamente intorno a lui e l’aria incastrata tra il naso e il
polmoni, da qualche parte.
Guardandosi intorno a quel modo, come
intorpidito, la vide: Rin, addossata a una parete
pericolante, piangeva silenziosamente. Singhiozzava con tutte le sue forze,
sussultando penosamente, con le mani strette a pugno e il viso, chino verso il
basso, rigato di lacrime.
Per qualche istante quella visione
ebbe il potere di accrescere la sua attonita angoscia – Minato era morto,
Kyuubi non li minacciava più ma Minato era morto, se n’era andato
– e soffocarlo nel pensiero che ora nessun sensei avrebbe più
condiviso le loro esitazioni e incoraggiato i loro sforzi, non avrebbe
più cenato sul davanzale dell’ufficio dello Yondaime
né ascoltato in silenzio le sue chiacchiere serali sulla vita del
villaggio. Poi guardò meglio Rin e sembrava
insopportabilmente devastata. Si appese al tronco dietro di sé per
raddrizzarsi, riacquistò la posizione eretta con un senso di pesantezza
che non conosceva a pesargli sulla schiena e si mosse verso di lei come se il
suo corpo non gli fosse appartenuto – e Minato era morto.
“Rin,”
mormorò con uno sforzo.
Lei sollevò la testa di
scatto, si mordeva le labbra per trattenersi ma continuava a singhiozzare.
Kakashi abbassò lo sguardo a terra con impotenza e poi sentì le
braccia di Rin aggrapparsi a lui e il suo corpo
atterrargli contro di slancio, tremando per il pianto. Rimase fermo per qualche
secondo con la pena nel respiro finché non percepì nitidamente i
singulti di lei e mosse con incertezza le braccia per circondarle i fianchi,
più piano che poteva – Rin era esile
come una canna di bambù e lui era così ruvido e squadrato, gli
sembrava sempre che sarebbe bastato un suo movimento troppo brusco per
spezzarla.
Lei affondò il viso contro il
suo collo, lasciando libero sfogo ai singhiozzi. Per una volta, Kakashi non si
ricordò nemmeno che quella non era cosa da shinobi. Appoggiò le
tempia alla sua testa e serrò gli occhi, reggendo il peso della kunoichi.
“Va tutto bene, Rin,” mormorò, più gentilmente che
poteva.
Ma non era vero. Minato era morto.
E, dentro lo shinobi che cresceva,
l’allievo piangeva.
Li guardava piangere e non capiva
bene perché lo stessero facendo. Marito e moglie erano aggrappati
l’uno all’altro, come cercando nel reciproco dolore un sollievo che
non poteva esistere. Ma tutto quello non aveva senso, e lui se lo ripeté
tornando a guardare la barella, ignorando gli sguardo attento e compassionevoli
che gli altri due jonin e il nija medico, la cui
presenza al momento si rivelava perfettamente inutile, lasciavano esitare su di
lui.
Non aveva senso. Quella cosa bruciacchiata che puzzava di cenere
non era Rin. Rin era chiara
come neve e i suoi capelli profumavano sempre come un prato in primavera, e il
suono del suo riso echeggiava di campanelli e cinguettii. Rin
camminava, parlava, saltava e respirava, Rin
sorrideva e gli sfiorava la mano quando sfrecciavano di ramo in ramo per
attraversare la foresta.
Quel corpo irriconoscibile, sporco,
non era Rin.
“Kakashi-san?”
Scrollò le spalle, riemergendo
dall’abisso fremente dell’angoscia, e spostò lo sguardo
sullo shinobi accanto a lui.
“Sì,” emise,
atono.
“Abbiamo pensato fosse meglio
sbrigare la cosa con te che con loro,” iniziò l’altro a voce
bassa, con un cenno del capo verso i genitori di Rin,
devastati. “Abbiamo trovato questi, impigliati in uno spuntone poco
lontano dal cadavere. Puoi conferm…?”
Kakashi tese il braccio e gli
strappò via di mano il braccialettino, senza energia, soltanto per
impulso.
Era un braccialetto di cuoio,
sottile, lavorato, con appeso un campanello, e lui si ricordava del giorno in
cui Minato l’aveva regalato a Rin per la sua
promozione a chunin. Mentre lui glielo sistemava al polso, Rin
gli aveva chiesto di attaccarci il campanello che il sensei le aveva loro il
giorno della nascita del team Minato e da allora aveva sempre ciondolato al suo
polso fine, lei giocherellava spesso con il nodo che lo assicurava
quand’era nervosa. E Rin era nervosa spesso,
tanto quanto lui era calmo e imperscrutabile. Dovevano essere sempre sembrati
ben strani da vedere insieme, lui e Rin.
Eppure funzionava.
Sentì il respiro bloccarsi
dentro la trachea, nei polmoni, nelle vene. Conosceva quella sensazione anche
troppo bene, ma forse non avrebbe mai imparato ad affrontarla. Allungò
di nuovo la mano verso l’interlocutore per rendergli il bracciale col campanello,
tendendo i muscoli perché le sue dita restassero ferme, senza tremare, e
mosse il capo in un cenno d’assenso, perché non c’era
più modo di negare la realtà.
Ma in fondo l’aveva saputo
subito, non appena aveva visto il corpo. L’aveva saputo dal moto assoluto
di disperazione che gli era sgorgato nel torace, quando una devastante
impotenza gli aveva ripetuto nella mente come una triste cantilena che quella
non era Rin, non poteva essere Rin.
Tornò a guardare quella povera
cosa che una volta era la sua migliore amica, la sua compagna di team, la
naturale continuazione di lui. Così stupido, aveva sbagliato tutto
un’altra volta, proprio come con Obito, aveva lasciato andar via come
acqua un tesoro prezioso come
nessun altro. E come avrebbe fatto, adesso, a dirle che lei era la miglior
cosa che gli fosse mai capitata? Aveva pensato che ci sarebbe stato tempo
perché lo capisse da sola, si era dimenticato che loro erano shinobi e
che morivano veloci come le foglie d’autunno.
“…Che idiota.”
“Come hai detto, Kakashi-san?”
Lui scosse la testa, noncurante.
Tutte quelle cose, tutte quelle cose
non dette.
Adesso era troppo tardi, Rin lo poteva più sentire. Tutto quel che restava di
lei era quella cosa accartocciata che puzzava di bruciato. Si voltò
verso la mamma e il papà di Rin, li guardò
e pensò di dir loro qualcosa. Ma ormai non aveva più parole,
quelle che gli premevano la lingue erano destinate a una piccola shinobi
zuccona che non le poteva più ascoltare – e che chissà da
quanto tempo sognava di sentirle.
Girò le spalle a tutto quanto,
fece finta di non notare Sarutobi sama che si
avvicinava, e si allontanò con passo lento, i piedi che pesavano troppo
per non trascinarli. Continuò soltanto a camminare fino a che non si fu
lasciato Konoha alle spalle, e l’unica compagnia rimasta fu quella degli
alberi e dei fruscii della foresta. E di nuovo, un’altra volta, si
sedette. Accoccolato su una radice sporgente, con la fronte poggiata sulle
ginocchia raccolte, Kakashi rimase fermo ad ascoltare in silenzio il ronzio del
proprio dolore, e per la prima volta da quando aveva coscienza si sforzò
di piangere, sperando di alleviarlo. Ma le poche lacrime che strizzò
fuori dagli occhi non ebbero alcun effetto rigenerante.
Non era più tempo di piangere.
Adesso che aveva davvero capito che ciò che più importa non
è il proprio dovere, ma l’amore che spinge l’uomo ad
eseguirlo, non aveva più nessuno per cui farlo.
E dentro lo shinobi come una roccia,
l’innamorato sanguinava, e sanguinava.
<><><><><><><><><><><><>
Quando atterrò col fiato mozzo
per la corsa frenetica e vide il corpo esanime di Naruto, solo, gli fecero male i polmoni. Si avvicinò per verificare
le condizioni del suo allievo – che non fosse morto, per pietà,
era il bambino di Minato, non sapeva far nulla quand’era diventato suo
allievo e lui voleva continuare a vederlo crescere - e quando fu certo che il
suo cuore batteva la prima cosa che fece fu guardarsi intorno, senza vera
speranza. Cercò nella pioggia fitta la piccola sagoma smilza, la chioma
corvina, gli occhi rabbiosi.
Ma sapeva che non li avrebbe
ritrovati, e chinò la testa con amarezza per dedicarsi al ragazzo che
gli rimaneva. Si sentì stanco, forse più di quanto gli fosse mai
capitato prima.
Era di nuovo troppo tardi. Stavolta
aveva cercato di spiegare, ma non era stato capace di farsi capire. Un tempo
era stato anche lui come Sasuke, che non ascoltava altri che se stesso. Aveva
pensato di riuscire a trasmettere a lui la propria esperienza e risparmiargli
una parte di sofferenza, ma nemmeno questo era riuscito a fare.
Si caricò Naruto tra le
braccia, sotto la pioggia battente, per riprendere faticosamente la via del
villaggio, schiacciato dall’impotenza e ancora, come sempre, incapace di
rassegnarsi e abbassar la testa.
Ma dentro lo shinobi che non si
arrendeva, il maestro, silenzioso, gemeva.
Erano belli.
Non è che ci vedesse
granché, con l’occhio logorato dalla battaglia e quello
sfiancamento che a malapena gli consentiva di tener la schiena dritta. E anche
loro erano nella più penosa condizione in cui li avesse mai visti,
sporchi di terra e sangue, Naruto tutto una ferita bruciacchiata e Sasuke con
quegli occhi che colavano rosso e una smorfia di dolore. Nemmeno sapeva se
fossero agonizzanti o se sarebbero sopravvissuti entrambi, ma per ora si
reggevano l’un l’altro cercando di camminare, che poi era una
specie di pietoso trascinarsi avanti quasi gattonando.
Ed erano belli. Così belli che
acciacchi o meno, testa che girava pericolosamente, vista offuscata e gambe
sbrindellate, Kakashi caracollò malamente verso di loro, altrettanto penoso
alla vista ma del tutto incurante degli altri shinobi attorno. Tra tutti e tre,
sai che spettacolo dovevano costituire, e pazienza.
“Siete stati bravi,”
gracchiò a stento.
Naruto gli gettò uno sguardo
parzialmente incosciente e del tutto stordito, mentre Sasuke muoveva appena la
testa intorno.
“Eh?” bofonchiò il
genio, secco.
“Fa niente,”
tagliò corto Kakashi, e allungò le braccia ad afferrare
l’uno e l’altro per tenerli su; piano, ché erano feriti.
“Ahio,”
borbottò comunque Naruto, mentre lui scrollava il capo e poi, folgorato,
sorrideva. Niente sbagli, stavolta.
“Ho detto che siete stati
bravi, Sas’ke,” ripeté, sorreggendoli.
Naruto ridacchiò senza voce,
tronfio. E Sasuke, lui assunse la sua più riuscita espressione altezzosa
prima di lasciarsi andare a peso morto contro il suo fianco. All’ultimo
sorrise appena, nell’istante in cui il suo peso li sbilanciava tutti e
tre.
Kakashi si sentì planare a
terra con i due allievi, ma non importava nulla: con le mani già
ingombre delle bende che stava svolgendo, Sakura correva verso di loro,
solerte.
E lui, lì seduto, si
sentì già molto meglio.
["Né io né te siamo stati fortunati, questo è
certo. Però la nostra condizione non è delle peggiori. Entrambi
abbiamo trovato dei compagni preziosi, no?"]