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Autore: suni    02/10/2009    12 recensioni
Se Minato sensei fosse stato lì, gli avrebbe detto di sedersi. Invece non c’era, c’erano solo caos e macerie, e il villaggio diviso tra un gioioso sollievo e un lutto incolmabile; ma Kakashi, per una volta, mise spontaneamente in pratica quel consiglio che non voleva mai ascoltare, a suo tempo, e si sedette. Per terra, infischiandosene di tutto quel che lo circondava, della gente che rideva e piangeva e sembrava come impazzita.
Col dovuto ritardo, BUON COMPLEANNO, sensei.
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Kakashi Hatake
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Siediti

 

Bene, bene, bene.

Non potevo mancare di festeggiare il compleanno del mio amatissimo, ovviamente. Avrei dovuto postare questa fic il 16 settembre, che era il giorno giusto, ma sono stata presa in ostaggio da un commando di indipendentisti baschi che mi hanno fatto mangiare chili di jamon serrano buonissimo ma non mi lasciavano usare il computer. Poi l’aereo con cui dovevo essere rimpatriata è finito in mezzo a una tempesta elettromagnetica terribile ed ha fatto un atterraggio di fortuna a Sant’Elena, dove il copilota è stato scambiato per il pronipote di Napoleone, e ho dovuto intervenire per evitare un incidente diplomatico internazionale. Così ho fatto due settimane di ritardo. Poi la cifra tonda non mi piaceva e ci ho aggiunto due giorni.

Ecco, sensei, chi semina vento raccoglie tempesta. ^__^

 

Ma soprattutto, sensei mio adorato, buon compleanno.

suni

 

 

Siediti

["Bisogna accettare la realtà ed imparare dalle esperienze."]

 

 

 

Non avrebbe pianto. Lui non avrebbe pianto per nessuna ragione, non l’avrebbe fatto, no, e stringeva forte i denti tanto da farsi male alla mascella sforzandosi di tenere gli occhi bene aperti, che non si inumidissero. Serrava i pugni fino a conficcarsi le unghie nei palmi delle mani e guardava fisso il suolo un paio di metri davanti a sé.

“Vieni, Kakashi-kun.”

Nel sentire quella voce bonaria il bambino voltò il viso di scatto, sentendo le lacrime spingere per uscire fuori, per trovare sfogo a tutto quel dolore – come poteva il suo stomaco stringersi così tanto? Era una cosa umana, sarebbe successo altre volte? No, impossibile, non sarebbe nemmeno sopravvissuto.

“Kakashi, guardami.”

Molto controvoglia, con le labbra che tremavano incontrollatamente, il bambino si rassegnò a sollevare gli occhi in quelli azzurri, tristi e comprensivi dell’interlocutore. Minato-san accennò un sorriso amaro, chinandosi leggermente verso di lui.

“Vieni.”

Kakashi non parlò – aveva paura che gli tremasse la voce, e non voleva fare brutta figura col Lampo Giallo. Suo padre lo stimava tanto, glielo diceva sempre.

Però scosse ripetutamente la testa, raddrizzando le spalle e le ginocchia quasi a dire che lui stava bene lì dov’era. Non voleva andare da nessuna parte o parlare di niente, voleva solo stare con suo padre. Minato sospirò tra sé, scrollò le spalle e lo prese per un braccio. Poi Kakashi si sentì schizzare in aria come se l’avessero incoccato su un arco e scagliato come una freccia.

Lo chiamavano Lampo Giallo perché era lo shinobi più veloce di Konoha. Tanto che ora, mentre Minato-san lo trasportava rapidissimo chissà dove, gli occhi gli lacrimavano – ma questo non c’entrava nulla col fatto che volesse piangere. Era l’aria che gli inumidiva le palpebre.

La loro folle corsa s’interruppe d’improvviso su un tetto, su cui Minato atterrò con inattesa leggerezza.

C’era un sole radioso e il cielo era lindo, terso. Una giornata splendida, da aprire il cuore. Era proprio incredibile che suo padre fosse morto in un giorno così. In qualunque giorno, in effetti, ma come poteva esserci una giornata tanto magnifica e succedere una cosa così devastante?

“Siediti, Kakashi-kun.”

Minato lo guardava fisso, serio, e lui sapeva che non avrebbe smesso fino ad ottenere una sua reazione, possibilmente volta ad assecondarlo: lui lo conosceva, Minato, era un amico di papà. Si ricordava di lui da sempre e sapeva che Minato era come le pareti delle montagne. Non come il mare, che attacca e sommerge, ma come la roccia: restava lì, calmo, ma non si smuoveva manco a dargli fuoco.

“Preferirei rimanere in piedi,” si risolse a mormorare con riluttanza. Si morsicò la lingua, stizzito, perché la sua voce aveva tremato.

“Invece adesso ti siedi,” rispose Minato, benevolo ma deciso. “Qui, Kakashi.”

Lui lo guardò prendere posto sul parapetto, sotto quel sole straordinario. Soltanto dopo parecchi secondi, in cui Minato non smise di fissarlo con benigna ma incrollabile insistenza, si rassegnò a fare come aveva detto. Si sedette dritto, rigido, con le piccole mani strette appoggiate sulle gambe e la schiena ben eretta. Si guardò i piedi continuando a ripetersi che lui non avrebbe pianto, perché non era debole.

Poi, con suo infinito scorno, la mano di Minato entrò nel suo campo visivo e stringeva un pezzo di stoffa. Kakashi la osservò quasi risentito.

“Non mi serve. È il vento che mi ha fatto venire gli occhi lucidi,” si difese a mezza voce.

“Almeno soffiati il naso, ti sta colando della schifezza addosso.”

Kakashi sgranò gli occhi, sul punto di rispondere al jonin che era un visionario, ma si accorse di avere le labbra umide di qualcosa che effettivamente colava dalle sue narici. E si rese conto che anche le sue guance erano bagnate, mentre prendeva il fazzoletto con un gesto brusco.

“Io non sto pian-gendo,” puntualizzò fiero, e gli si spezzò la voce.

“No, certo,” confermò Minato annuendo.

Kakashi si coprì il viso col tessuto, infuriandosi con se stesso, col mondo e con la vita. Si nascose dietro la stoffa e ripeté la stessa frase.

“Io non sto piangendo. Non sarò debole anche io,” ribadì con un singhiozzo. “Non lo sarò!” ripeté con più convinzione, ma senza togliere lo scudo che gli copriva il volto. Era insopportabile avere una faccia, così chiunque poteva vedere che era bagnata di lacrime e che, nonostante lo sforzo dei muscoli, non riusciva in alcun modo ad impedire che le sue labbra fossero piegate verso il basso e al suo naso di colare. Così tutti potevano sapere che era debole, e lui non lo poteva essere. Lui era un Hatake. Nessuno doveva vedere il suo volto in quel modo. Nessuno doveva vederlo così vulnerabile. Papà era morto, piuttosto che mostrarsi distrutto.

“Kakashi, non c’è niente di male,” osservò Minato, poggiando la mano sulla sua spalla. Il bambino si divincolò, inviperito.

“Sì!” sbottò rabbioso, la voce soffocata dal tessuto. “Sì, invece! Io non piango, io non sono un moccioso senza spina dorsale!”

“Va bene,” la presa di Minato sulla sua spalla si fece più forte, e decisa. “Ora ascoltami, Kakashi,” aggiunse, grave, facendo per voltarlo verso di sé.

“E non mi guardare! Non mi devi guardare!” protestò lui agguerrito attraverso il fazzoletto, il capo chinato, le mani che avvolgevano le sue guance. “Io sono uno shinobi, e gli shinobi non piangono!”

Sentì Minato sbuffare lievemente.

“Essere uno shinobi non significa non essere persone. Tu sei un figlio, ed è il figlio che sta piangendo,” osservò calmo il ragazzo.

“Non lo farò più. Non lo farò mai più,” continuò Kakashi in un mormorio, ma ormai singhiozzava tanto da sussultare. Si detestò, perché se suo padre l’avesse visto chissà cos’avrebbe pensato. Sentì le braccia di Minato circondarlo con una dolcezza forse inaspettata da parte del più letale guerriero di Konoha.

“Domani, Kakashi, domani,” lo sentì mormorare a voce bassa. Annegò il viso contro il suo torace e si lasciò piangere con tutte le sue forze. I piedi di suo padre penzolavano ancora nel vuoto davanti ai suoi occhi, rigidi e freddi, e i suoi polmoni facevano male.

“Siamo persone, Kakashi. La morte ci tocca, che ci piaccia o meno.”

Scosse forte la testa, strofinandola contro la massa solida del petto di Minato. Lui sarebbe stato diverso, lui sarebbe stato uno shinobi vero, e avrebbe sempre pensato soltanto alle missioni.

 

 

“Siediti, Kakashi.”

S’irrigidì già soltanto sentendo la voce, anche se non ne aveva veramente motivo. Mantenne lo sguardo fisso nel vuoto, sui tetti di Konoha, e il suo occhio scoperto rimase vacuo e indifferente.

“Ho detto siediti, Kakashi,” ripeté Minato con fermezza.

Lui scosse lievemente la testa, assorto. Non poteva parlare – non perché non volesse, ma non gli riusciva. La sua voce si strozzava in gola e, se anche non fosse stato così, non aveva parole con cui esprimersi. Non riusciva a trovare una sola frase da dire, né ne vedeva il motivo per farlo.

“Stai esplicitamente contravvenendo a un mio comando,” osservò Minato con lontana severità.

Kakashi deglutì un groppo d’infinita pesantezza, e insieme a quello inghiottì anni di convinzioni improvvisamente vuote. Oggi non sono uno shinobi, pensò nitidamente. Sistemò il coprifronte sull’occhio – gli faceva ancora un po’ male la ferita – e prese un respiro da annegato, senza sentire l’ossigeno scendere nei polmoni. Tentò di nuovo, invano, e finalmente sputò fuori le maledette parole, le uniche che aveva in mente e che a pronunciarle bruciavano come fiammate.

“E’ stata colpa mia.”

Sentirlo affermare dalla propria voce gli diede una vertigine tale che pensò avrebbe vomitato, mentre la frase gli rimbombava in testa e nello stomaco.

“Non più tua che mia,” ribatté Minato gravemente.

Kakashi strinse le labbra sotto la maschera, restando di spalle. Scosse piano la testa, fissando ostinatamente il nulla. Da qualche parte, nella sua mente, Obito rideva berciando una scusa strampalata per il proprio ritardo. La sua gola si chiuse, pungendo.

“Te l’ho già detto tante volte, Kakashi. Siamo persone; le cose ci accadono e noi dobbiamo fare del nostro meglio. Non sempre funziona.”

Lui restò ancora in silenzio. Aveva davvero fatto del suo meglio, sbattendo per anni in faccia all’amico la propria superiorità? Aveva davvero fatto del suo meglio, lasciandolo andare da solo a cercare Rin?

Il groppo nella sua gola si fece più pesante, gravandogli su tutto il torace. Gli sembrava di avere nella trachea una bolla che s’ingigantiva e tagliava come una lama.

“Non siamo perfetti. Alle volte sbagliamo, e non sempre riusciamo a rendercene conto in anticipo. Quasi mai, in effetti,” continuò Minato, quasi avesse interpretato il suo silenzio. “L’importante è fare tutto il possibile, quando si può, finché si può. È questo che ci si aspetta da noi.”

Kakashi annuì lentamente, composto. Si chiese come avesse potuto metterci tanto tempo a capire una cosa così elementare, e perché Obito avesse dovuto rimetterci perché lui ci arrivasse. Gli sembrò un’immensa presa in giro, una beffa infame, tanto che gli sfuggì un amaro riso silenzioso e brevissimo. Aveva davvero pensato che l’unica cosa importante fosse preoccuparsi unicamente del buon esito degli incarichi e non di tutto il resto, l’aveva fatto per tutto quel tempo, e adesso la realtà appariva ovvia da sfiorare il ridicolo.

C’era qualcosa che andava molto al di là di questo, c’era il suono di una risata diversa da tutte le altre, uno sciocco sorriso ed occhialoni colorati.

C’erano, e lui se li era lasciati passare accanto come aria, senza dar loro la giusta importanza.

“Ti sei battuto bene, Kakashi. Hai fatto del tuo meglio.”

La voce di Minato gli sbatté contro i timpani come un pugno. Chinò semplicemente la testa e strinse le mani sul parapetto, forte da far sbiancare le nocche delle dita. Serrò i denti ed annuì in silenzio, a testa bassa.

“Sensei,” sussurrò a labbra strette, a fatica. “Potresti…?”

“Vado,” rispose unicamente Minato, annuendo mite.

Lui attese ancora qualche secondo, poi si abbandonò avanti, poggiando la fronte sulla muratura, e la bolla esplose. Scoppiò in violenti singhiozzi continuando a serrare spasmodicamente la presa. Nessuno lo poteva vedere, e comunque non contava molto. Lui non era solo uno shinobi, era un amico. Ed era l’amico – l’amico, non lo shinobi – a piangere.

Si lasciò andare seduto per terra, girandosi per appoggiare le spalle al parapetto.

Era l’amico, non lo shinobi, a spezzarsi dentro.

 

 

Se Minato sensei fosse stato lì, gli avrebbe detto di sedersi. Invece non c’era, c’erano solo caos e macerie, e il villaggio diviso tra un gioioso sollievo e un lutto incolmabile; ma Kakashi, per una volta, mise spontaneamente in pratica quel consiglio che non voleva mai ascoltare, a suo tempo, e si sedette. Per terra, infischiandosene di tutto quel che lo circondava, della gente che rideva e piangeva e sembrava come impazzita.

Si sentì orribilmente perso, come non gli era mai successo prima. Spostò uno sguardo smarrito intorno a sé e una parte di lui restò scioccamente in trepidante attesa, aspettandosi che da un istante all’altro lo Yondaime si fiondasse accanto a lui con la sua solita, pazzesca velocità e lo confortasse nel suo modo quieto e savio.

Ma Minato sensei, questa volta, non sarebbe arrivato.

Kakashi respirò profondamente. Si aggrappò con le unghie al terreno come se anche quello, da un momento all’altro, avesse potuto sparire da sotto i suoi piedi insieme alle sue certezze. Restò immobile, con l’impressione che tutto girasse vorticosamente intorno a lui e l’aria incastrata tra il naso e il polmoni, da qualche parte.

Guardandosi intorno a quel modo, come intorpidito, la vide: Rin, addossata a una parete pericolante, piangeva silenziosamente. Singhiozzava con tutte le sue forze, sussultando penosamente, con le mani strette a pugno e il viso, chino verso il basso, rigato di lacrime.

Per qualche istante quella visione ebbe il potere di accrescere la sua attonita angoscia – Minato era morto, Kyuubi non li minacciava più ma Minato era morto, se n’era andato – e soffocarlo nel pensiero che ora nessun sensei avrebbe più condiviso le loro esitazioni e incoraggiato i loro sforzi, non avrebbe più cenato sul davanzale dell’ufficio dello Yondaime né ascoltato in silenzio le sue chiacchiere serali sulla vita del villaggio. Poi guardò meglio Rin e sembrava insopportabilmente devastata. Si appese al tronco dietro di sé per raddrizzarsi, riacquistò la posizione eretta con un senso di pesantezza che non conosceva a pesargli sulla schiena e si mosse verso di lei come se il suo corpo non gli fosse appartenuto – e Minato era morto.

Rin,” mormorò con uno sforzo.

Lei sollevò la testa di scatto, si mordeva le labbra per trattenersi ma continuava a singhiozzare. Kakashi abbassò lo sguardo a terra con impotenza e poi sentì le braccia di Rin aggrapparsi a lui e il suo corpo atterrargli contro di slancio, tremando per il pianto. Rimase fermo per qualche secondo con la pena nel respiro finché non percepì nitidamente i singulti di lei e mosse con incertezza le braccia per circondarle i fianchi, più piano che poteva – Rin era esile come una canna di bambù e lui era così ruvido e squadrato, gli sembrava sempre che sarebbe bastato un suo movimento troppo brusco per spezzarla.

Lei affondò il viso contro il suo collo, lasciando libero sfogo ai singhiozzi. Per una volta, Kakashi non si ricordò nemmeno che quella non era cosa da shinobi. Appoggiò le tempia alla sua testa e serrò gli occhi, reggendo il peso della kunoichi.

“Va tutto bene, Rin,” mormorò, più gentilmente che poteva.

Ma non era vero. Minato era morto.

E, dentro lo shinobi che cresceva, l’allievo piangeva.

 

 

Li guardava piangere e non capiva bene perché lo stessero facendo. Marito e moglie erano aggrappati l’uno all’altro, come cercando nel reciproco dolore un sollievo che non poteva esistere. Ma tutto quello non aveva senso, e lui se lo ripeté tornando a guardare la barella, ignorando gli sguardo attento e compassionevoli che gli altri due jonin e il nija medico, la cui presenza al momento si rivelava perfettamente inutile, lasciavano esitare su di lui.

Non aveva senso. Quella cosa bruciacchiata che puzzava di cenere non era Rin. Rin era chiara come neve e i suoi capelli profumavano sempre come un prato in primavera, e il suono del suo riso echeggiava di campanelli e cinguettii. Rin camminava, parlava, saltava e respirava, Rin sorrideva e gli sfiorava la mano quando sfrecciavano di ramo in ramo per attraversare la foresta.

Quel corpo irriconoscibile, sporco, non era Rin.

Kakashi-san?”

Scrollò le spalle, riemergendo dall’abisso fremente dell’angoscia, e spostò lo sguardo sullo shinobi accanto a lui.

“Sì,” emise, atono.

“Abbiamo pensato fosse meglio sbrigare la cosa con te che con loro,” iniziò l’altro a voce bassa, con un cenno del capo verso i genitori di Rin, devastati. “Abbiamo trovato questi, impigliati in uno spuntone poco lontano dal cadavere. Puoi conferm…?”

Kakashi tese il braccio e gli strappò via di mano il braccialettino, senza energia, soltanto per impulso.

Era un braccialetto di cuoio, sottile, lavorato, con appeso un campanello, e lui si ricordava del giorno in cui Minato l’aveva regalato a Rin per la sua promozione a chunin. Mentre lui glielo sistemava al polso, Rin gli aveva chiesto di attaccarci il campanello che il sensei le aveva loro il giorno della nascita del team Minato e da allora aveva sempre ciondolato al suo polso fine, lei giocherellava spesso con il nodo che lo assicurava quand’era nervosa. E Rin era nervosa spesso, tanto quanto lui era calmo e imperscrutabile. Dovevano essere sempre sembrati ben strani da vedere insieme, lui e Rin.

Eppure funzionava.

Sentì il respiro bloccarsi dentro la trachea, nei polmoni, nelle vene. Conosceva quella sensazione anche troppo bene, ma forse non avrebbe mai imparato ad affrontarla. Allungò di nuovo la mano verso l’interlocutore per rendergli il bracciale col campanello, tendendo i muscoli perché le sue dita restassero ferme, senza tremare, e mosse il capo in un cenno d’assenso, perché non c’era più modo di negare la realtà.

Ma in fondo l’aveva saputo subito, non appena aveva visto il corpo. L’aveva saputo dal moto assoluto di disperazione che gli era sgorgato nel torace, quando una devastante impotenza gli aveva ripetuto nella mente come una triste cantilena che quella non era Rin, non poteva essere Rin.

Tornò a guardare quella povera cosa che una volta era la sua migliore amica, la sua compagna di team, la naturale continuazione di lui. Così stupido, aveva sbagliato tutto un’altra volta, proprio come con Obito, aveva lasciato andar via come acqua un tesoro prezioso come  nessun altro. E come avrebbe fatto, adesso, a dirle che lei era la miglior cosa che gli fosse mai capitata? Aveva pensato che ci sarebbe stato tempo perché lo capisse da sola, si era dimenticato che loro erano shinobi e che morivano veloci come le foglie d’autunno.

“…Che idiota.”

“Come hai detto, Kakashi-san?”

Lui scosse la testa, noncurante.

Tutte quelle cose, tutte quelle cose non dette.

Adesso era troppo tardi, Rin lo poteva più sentire. Tutto quel che restava di lei era quella cosa accartocciata che puzzava di bruciato. Si voltò verso la mamma e il papà di Rin, li guardò e pensò di dir loro qualcosa. Ma ormai non aveva più parole, quelle che gli premevano la lingue erano destinate a una piccola shinobi zuccona che non le poteva più ascoltare – e che chissà da quanto tempo sognava di sentirle.

Girò le spalle a tutto quanto, fece finta di non notare Sarutobi sama che si avvicinava, e si allontanò con passo lento, i piedi che pesavano troppo per non trascinarli. Continuò soltanto a camminare fino a che non si fu lasciato Konoha alle spalle, e l’unica compagnia rimasta fu quella degli alberi e dei fruscii della foresta. E di nuovo, un’altra volta, si sedette. Accoccolato su una radice sporgente, con la fronte poggiata sulle ginocchia raccolte, Kakashi rimase fermo ad ascoltare in silenzio il ronzio del proprio dolore, e per la prima volta da quando aveva coscienza si sforzò di piangere, sperando di alleviarlo. Ma le poche lacrime che strizzò fuori dagli occhi non ebbero alcun effetto rigenerante.

Non era più tempo di piangere. Adesso che aveva davvero capito che ciò che più importa non è il proprio dovere, ma l’amore che spinge l’uomo ad eseguirlo, non aveva più nessuno per cui farlo.

E dentro lo shinobi come una roccia, l’innamorato sanguinava, e sanguinava.

 

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Quando atterrò col fiato mozzo per la corsa frenetica e vide il corpo esanime di Naruto, solo, gli fecero male i polmoni. Si avvicinò per verificare le condizioni del suo allievo – che non fosse morto, per pietà, era il bambino di Minato, non sapeva far nulla quand’era diventato suo allievo e lui voleva continuare a vederlo crescere - e quando fu certo che il suo cuore batteva la prima cosa che fece fu guardarsi intorno, senza vera speranza. Cercò nella pioggia fitta la piccola sagoma smilza, la chioma corvina, gli occhi rabbiosi.

Ma sapeva che non li avrebbe ritrovati, e chinò la testa con amarezza per dedicarsi al ragazzo che gli rimaneva. Si sentì stanco, forse più di quanto gli fosse mai capitato prima.

Era di nuovo troppo tardi. Stavolta aveva cercato di spiegare, ma non era stato capace di farsi capire. Un tempo era stato anche lui come Sasuke, che non ascoltava altri che se stesso. Aveva pensato di riuscire a trasmettere a lui la propria esperienza e risparmiargli una parte di sofferenza, ma nemmeno questo era riuscito a fare.

Si caricò Naruto tra le braccia, sotto la pioggia battente, per riprendere faticosamente la via del villaggio, schiacciato dall’impotenza e ancora, come sempre, incapace di rassegnarsi e abbassar la testa.

Ma dentro lo shinobi che non si arrendeva, il maestro, silenzioso, gemeva.

 

 

Erano belli.

Non è che ci vedesse granché, con l’occhio logorato dalla battaglia e quello sfiancamento che a malapena gli consentiva di tener la schiena dritta. E anche loro erano nella più penosa condizione in cui li avesse mai visti, sporchi di terra e sangue, Naruto tutto una ferita bruciacchiata e Sasuke con quegli occhi che colavano rosso e una smorfia di dolore. Nemmeno sapeva se fossero agonizzanti o se sarebbero sopravvissuti entrambi, ma per ora si reggevano l’un l’altro cercando di camminare, che poi era una specie di pietoso trascinarsi avanti quasi gattonando.

Ed erano belli. Così belli che acciacchi o meno, testa che girava pericolosamente, vista offuscata e gambe sbrindellate, Kakashi caracollò malamente verso di loro, altrettanto penoso alla vista ma del tutto incurante degli altri shinobi attorno. Tra tutti e tre, sai che spettacolo dovevano costituire, e pazienza.

“Siete stati bravi,” gracchiò a stento.

Naruto gli gettò uno sguardo parzialmente incosciente e del tutto stordito, mentre Sasuke muoveva appena la testa intorno.

“Eh?” bofonchiò il genio, secco.

“Fa niente,” tagliò corto Kakashi, e allungò le braccia ad afferrare l’uno e l’altro per tenerli su; piano, ché erano feriti.

Ahio,” borbottò comunque Naruto, mentre lui scrollava il capo e poi, folgorato, sorrideva. Niente sbagli, stavolta.

“Ho detto che siete stati bravi, Sas’ke,” ripeté, sorreggendoli.

Naruto ridacchiò senza voce, tronfio. E Sasuke, lui assunse la sua più riuscita espressione altezzosa prima di lasciarsi andare a peso morto contro il suo fianco. All’ultimo sorrise appena, nell’istante in cui il suo peso li sbilanciava tutti e tre.

Kakashi si sentì planare a terra con i due allievi, ma non importava nulla: con le mani già ingombre delle bende che stava svolgendo, Sakura correva verso di loro, solerte.

E lui, lì seduto, si sentì già molto meglio.

 

 

["Né io né te siamo stati fortunati, questo è certo. Però la nostra condizione non è delle peggiori. Entrambi abbiamo trovato dei compagni preziosi, no?"]

   
 
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