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Autore: BaschVR    05/10/2009    1 recensioni
La città, quella mattina, appariva vuota, silente, libera. Aveva nevicato per tutta la notte, e il bianco aveva ricoperto ogni cosa. Il pallido sole invernale era sorto, eppure Midgar era rimasta dormiente. Tutto appariva ovattato in quell’onirica visione, quasi irreale. L’unico rumore che Tseng sentiva era il tonfo dei suoi passi sulla neve. Era un rumore leggero, quasi impercettibile, eppure era l’unico che probabilmente la città stesse udendo. Un rumore ritmico e costante.
Dedicata a tutti coloro che amano questo pairing e, naturalmente, alla nostra inimitabile Zia Polly.
2^ classificata allo Tserith Contest indetto da Valy_Chan
Genere: Romantico, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Aeris Gainsborough, Altro Personaggio, Reno, Tseng
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo I

 

Un raggio di sole le illuminava il viso. Scosse lievemente la testa, gli occhi ancora socchiusi nell’ombra di quel pomeriggio di Primavera.  Si era addormentata con la testa sulle braccia, poggiata al freddo marmo di una delle colonne della sua chiesa.
Lentamente si stropicciò gli occhi, aprendoli, dopo la breve pennichella che si era concessa. Il sole arrivava ancora quasi perpendicolarmente, passando per le fenditure lasciate dalle tegole rotte. Doveva essere passato da poco mezzogiorno.
Si alzò, poggiando una mano contro il levigato legno di una delle panche della chiesa, che, sotto il suo peso, scricchiolò sonoramente. L’usura stava lentamente consumando quel luogo, giorno dopo giorno.
La ragazza emerse dalla penombra nella quale finora, ad eccezione del viso, era stata immersa, in una delle nicchie più lontane dall’abside. Portava un limpido vestito azzurro, che metteva in evidenza la sua esile figura e il seno, non ancora del tutto sviluppato; i grandi occhi verdi erano simili a due specchi luminosi, che risplendevano nella luce bianca del meriggio assolato; era un po’ goffa nei movimenti, ma aveva un portamento aggraziato, eretto e composto, che traspariva dalle sue movenze. Sul viso si intravedeva un timido e sempiterno sorriso, di quelli naturali, che la vita concedeva solo dopo lunghe sofferenze. La giovane si mosse,  producendo piccoli tonfi sul parquet della chiesa. Si avvicinò ad un punto dell’edificio dove il parquet si era rotto, e dove ora crescevano moltissime specie diverse di fiori.
Si avvicinò alle rose rosse e sentì il loro profumo, delicato ed intenso come non mai. Sua madre, una volta, le aveva detto che nessun odore era simile a quello delle rose di Maggio; ed aveva ragione, quell’odore era inebriante, ammaliatore, sensuale ed appagante. Aerith aveva sempre amato quel particolare profumo.
Colse una rosa scarlatta, stando ben attenta a non pungersi. Le sue dita affusolate si strinsero intorno allo stelo ben spesso del fiore. Si sedette sul polveroso parquet della chiesa, sollevando una nuvola di pulviscolo ben visibile alla luce del sole. Stette ad osservare l’aura di purezza di quella rosa, come intarsiata in un groviglio di petali da un esperto artigiano. Quel rosso acceso le ricordava tante cose, tanti avvenimenti diversi tra loro, ma uniti dal sottile filo del destino. Le ricordavano le fragole che aveva mangiato tanti anni prima, all’ombra di un Salice verdeggiante; il vestito che sua madre le aveva regalato, di un cremisi acceso, in un giorno di pioggia che ricordava vagamente come il suo compleanno; il volto paonazzo di un ragazzo che aveva visto morire in un vicolo, e che non aveva potuto aiutare in alcun modo; il rossore negli occhi stanchi di sua madre, mentre le rimboccava le coperte la sera, dopo una lunga giornata di lavoro per cercare di guadagnare qualcosa; il colore del fuoco dei capelli di un ragazzo, poco più grande di lei, che le diceva di nascondersi e mettersi al riparo, nel vicolo di una fredda Midgar di tempo prima; le macchie di colore rosso che insozzavano la neve, e una voce, così simile alla sua, una voce che era lei ma che al tempo stesso non lo era, che urlava; “Mamma!”.
Scosse la testa, per dimenticare quell’orribile giorno passato nella maleodorante oscurità di quel vicolo umido, in cui una persona a lei cara aveva trovato la morte.
Aveva provato a dimenticare, aveva provato a cancellare dalla sua memoria quella mattina d’Inverno in cui sua madre aveva perso la vita, ma era stato impossibile. La scena era stata registrata dai suoi occhi da bambina, a quel tempo lontani dalle ingiustizie del mondo. Le urla, il sangue, la neve rossa, il corpo di sua madre semicoperto dalla neve appena pochi minuti dopo lo sparo, la puzza del vicolo, il volto del Turk dai capelli rosso fuoco, il suo grido di disperazione, la voglia di voler ridurre a brandelli quel signore dai capelli neri che l’aveva uccisa. L’unica cosa che il tempo aveva lasciato scorrere nel flusso dell’oblio era il volto di quell’uomo. Non ricordava nulla di lui, se non i capelli neri. Nient’altro. A volte il fato era crudele.
Scosse la testa, per allontanare quelle reminescenze lontane. Lasciò cadere la rosa per terra, sul parquet, ed osservò alcuni petali scarlatti allontanarsi dalla corolla, ormai irrimediabilmente rovinata.
Si alzò da terra e si allontanò dai fiori, che splendevano, rigogliosi, colpiti dalla luce solare. Attraversò la navata, verso la grande porta di quercia. Sfiorò le venature del legno, lentamente, fino ad arrivare alla fredda maniglia. Fece cigolare la porta e, per un momento, irradiò di luce il corridoio alle sue spalle; mosse qualche passo e si ritrovò fuori, a respirare la libertà di quella giornata così luminosa e tranquilla.
In verità, lì nei bassifondi tutte le stagioni erano molto simili. Non arrivava la neve dell’Inverno, lì sotto, né il caldo afoso dell’Estate; la pioggia giungeva solo attraverso i canali di scolo della città che si articolava sopra il piatto, se non da qualche sporadico buco come quello che la ragazza aveva nella propria chiesa.
Quello che, nei bassifondi, rendeva le stagioni così diverse tra loro, erano le persone che li abitavano. Nella stagione estiva, tutto si animava di una nuova vita, come lo scoiattolo si anima dopo il letargo invernale: i bambini giocavano per le affollate vie del mercato, le voci della gente erano allegre, spensierate, nonostante la povertà in cui trascorrevano le proprie vite.
Adesso, per quei vicoli si respirava già l’aria dell’Estate alle porte.
Camminò lentamente per i vicoli della città, salutando conoscenti e godendo della brezza fresca di Primavera che caratterizzava quelle tiepide giornate. I pensieri che, fino a poco tempo prima, l’avevano rattristata, adesso apparivano lontani, come portati via da quel vento che le solleticava il volto.
“Che ci fai qui da sola, Aerith?” domandò una voce, in tono severo, alle sue spalle. Voltandosi, riconobbe Tseng, in uniforme, che la guardava come se fosse diventata matta.
“In che senso?” chiese la ragazza di nome Aerith, sorridendogli. Tra gli agenti che la ShinRa le aveva mandato, Tseng era senza dubbio quello che preferiva. L’aveva preferito a pelle, già il primo giorno in cui lui era venuto a visitarla, in una fredda giornata di Febbraio, a pochi mesi da quella fatidica mattinata in cui tutto era andato per il verso sbagliato. L’aveva visto subito impacciato, timido, taciturno, quasi fuori luogo in quell’incarico, come se non avesse mai parlato con una ragazzina. E da quando lei gli aveva sorriso, e lui l’aveva guardata, strano, come se non avesse mai visto qualcuno ridere, Aerith aveva deciso che, per lui, avrebbe riso più spesso, tutte le volte che lo avrebbe visto.
“Nel senso” rispose Tseng, un po’ scocciato dal tono canzonatorio di Aerith “che dovresti essere in un luogo più sicuro, no di certo qui, in mezzo a questa folla, piena di… delinquenti, o assassini, scippatori…”
“Naah, tranquillo” fece Aerith, guardandosi intorno “Chi sarebbe il matto che avrebbe voglia di attaccarmi con questa folla?”
“Non si può mai sapere!” esclamò Tseng, guardandosi intorno. “Non sai mai con chi hai a che fare in questo mondo!”
“Mmm…” si mise a riflettere Aerith, osservando gli uomini che le passavano davanti “Nessuno di questi ha l’aria del maniaco assassino, però!”
“E che ne sai tu?” chiese Tseng, diffidente.
“Beh, ma allora fughiamo ogni dubbio e chiediamo a qualcuno!” esclamò Aerith, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
“Ehi, ma che…?”
“Sssh” lo zittì Aerith voltandosi per un momento verso di lui. “Sta’ a guardare!”
La ragazza si avvicinò ad un vecchino che sembrava reggersi a malapena in piedi, appoggiato ad un bastone da passeggio e con la schiena ricurva. L’uomo la guardò sbieco, come se non volesse essere disturbato.
“Mi scusi!” chiese Aerith, rivolgendosi all’anziano. “Per caso lei è un assassino?”
Tseng si coprì il volto con una mano, per non guardare.
Ci furono parecchi secondi, in cui il vecchio guardò Aerith come se fosse pazza. Le piantò addosso gli occhi, e, lentamente, si fece paonazzo in volto, pronto alla sfuriata.
“Ma come ti permetti, piccola ragazzina insolente?!” urlò l’uomo con quanto fiato aveva in gola, facendola rabbrividire. “Sono forse domande da fare, queste?!”
“Me vede” cercò di spiegarsi Aerith, senza perdere il tono pratico e diretto con cui gli si era rivolta in precedenza “Io e il mio amico pensavamo...”
“Non coinvolgere anche me!” gli sussurrò in risposta Tseng, dandole una gomitata.
“Tu e il tuo amico pensavate che io fossi un assassino?!” chiese il vecchio, spostando lo sguardo da Aerith a Tseng.
“No, mi scusi, è solo un’idea un po’ strana che è venuta ad Ae…” cominciò Tseng, cercando di scusarsi prima che quell’uomo li cacciasse dal mercato.
“L’assassino sarai tu, semmai! Hai l’aria del tipo losco!” gli urlò contro il vecchio, prima che Tseng potesse finire la frase. “Ora andatevene e lasciatemi in pace!”.
“D’accordo, buona giornata!” esclamò Aerith sorridendo, salutandolo calorosamente prima di allontanarsi.
Tseng la seguì, mentre udiva l’uomo che, alle sue, spalle, inveiva contro i ragazzini perdigiorno di quei tempi. Aspettò che fossero abbastanza lontani da quest’ultimo, prima di cominciare a biasimarla.
“Ma che ti è passato per la testa?” le domandò, confuso dal suo gesto.
“A dir la verità, mi aspettavo un altro tipo di reazione” sussurrò Aerith, più a sé stessa che a Tseng, con lo sguardo chino verso il basso. Poi lo rialzò, guardandolo negli occhi scuri. “Ma non puoi negare che sia stato divertente!”
“Beh, a me è sembrato imbarazzante” rispose Tseng, pensieroso.
“Dici?” chiese Aerith, poco convinta.
“Si, insomma, non si può andare dal primo uomo che vedi e chiedere una cosa del genere… non sta bene!”
Aerith rifletté un po’, mentre camminava a passo svelto accanto al ragazzo.
“Già, non sta proprio bene” disse dopo un po’ “Ma dopotutto, che ti importa?”
“Come?” chiese Tseng, non capendo dove la ragazza volesse arrivare.
“Non abbiamo fatto nulla di male, era solo una domanda innocente” spiegò Aerith, guardandolo negli occhi. “è così importante l’imbarazzo, o il pudore?”
“No, ma...”
“Allora converrai con me sul fatto che non deve importarti di ciò che la gente pensa di te!” esclamò Aerith, non lasciandogli il tempo di rispondere.
Tseng sospirò, capitolando. “Forse hai ragione… ma rimane il fatto che non saresti dovuta uscire da sola. Il pericolo è sempre in agguato!”
La ragazza posò il suo luminoso e limpido sguardo su di lui. “Si, ma adesso ci sei tu con me, no? Non sono al sicuro?”
Tseng chiuse per un attimo gli occhi, non sapendo cosa rispondere. Si, voleva dirle che era al sicuro, che in quegli anni l’aveva sempre protetta, e che avrebbe continuato a farlo per sempre. Di sua spontanea volontà, senza volere nulla in cambio. Avrebbe potuto dirglielo, e lei gli avrebbe sorriso, rassicurata.
Ma avrebbe mentito a sé stesso. Certo, Aerith non lo sapeva, ma era stata lui la principale causa dei mali che l’avevano afflitta in tutti quegli anni. E la protezione che le stava dando, l’apprensione che aveva per lei, il sentimento che provava nei suoi confronti… forse era solo senso di colpa.
Lo stava facendo per essere perdonato?
Ma chi avrebbe mai potuto perdonare il suo gesto? Non certo lei. Non lei, che aveva sofferto per le sue azioni e che ora, ignara, passeggiava tranquillamente con il carnefice di sua madre.
“Che hai?” chiese Aerith, guardandolo attentamente, con curiosità.
Tseng si ridestò di colpo dai suoi pensieri. “Non è niente, tranquilla!”
La ragazza continuò ancora ad osservarlo, non del tutto convinta. “Sembri... pensieroso!”
“Forse sono solo un po’ stanco...” rispose lui, evitando di guardarla negli occhi.
Aerith annuì, distogliendo lo sguardo. Si avvicinarono al parco giochi del Settore 5, a quell’ora pieno di bambini che giocavano tra di loro, spensierati.
Si sedettero entrambi su una panchina, lì vicino, alla portata delle grida vivaci dei fanciulli. Qualche romito raggio di sole filtrava da sopra il piatto, e faceva splendere di un nuovo colore la sabbia dove i bambini giocavano, che si tingeva di un dorato acceso. L’aria era frizzante, si respirava la libertà dell’estate imminente persino in quei vicoli angusti e sporchi, dove regnava la povertà.
“Come va?” chiese Tseng, pensando che, fino a quel momento, non avevano ancora avuto una normale conversazione.
“Va… bene, credo! I fiori stanno venendo su ottimamente, questa stagione è magnifica!” esclamò Aerith, lo sguardo fisso verso i ragazzini che giocavano.
“E... tu? Come stai?” chiese ancora, volgendo anche lui lo sguardo verso i bambini.
Aerith ci mise un po’ prima di rispondere. Avrebbe potuto raccontargli tutto, su come si sentiva, su quello che provava, su come la notte singhiozzava sommessamente, tra le coperte, perché quello era il solo posto dove poteva ostentare le sua debolezza, lì, lontana da tutto, sola. Sul tremendo senso di solitudine che le attanagliava il cuore. Sull’incrinato muro di bugie che aveva eretto intorno a sé, e che si crepava sempre di più, ogni giorno che passava, verso un crudele baratro di disperazione.
“Sto meglio” mentì Aerith, con una sottile sfumatura della voce che sembrava voler dire il contrario, e che Tseng riuscì a cogliere. “Si, direi che sto… piuttosto bene. E… tu? Tutto bene alla ShinRa?”
Tseng ebbe l’impressione che Aerith volesse solo cambiare discorso.
“Si, tutto… tutto bene” concluse Tseng, anche se non era vero. In effetti, nulla di quello che le stava dicendo riguardo la ShinRa era vero.
“Perfetto!” rispose Aerith, imbarazzata, non sapendo come continuare il discorso.
Trascorse qualche minuto, in cui entrambi i ragazzi non proferirono parola. Ogni tanto, Aerith gettava una curiosa occhiata a Tseng, che sembrava immerso in chissà quali pensieri. Lo vedeva pensieroso, con la testa leggermente inclinata, a fissare l’infantile gioco dei bambini senza in realtà vederlo. Cos’è che lo spingeva tanto a riflettere? Cosa si nascondeva dietro ad una mente così calcolatrice e riflessiva? C’era sicuramente qualcosa di cui non era a conoscenza. Qualcosa sul suo passato, magari, qualcosa che Tseng aveva ritenuto opportuno nascondere a tutti. Ma che nella sua mente riaffiorava, e che puntualmente lo tormentava.
Lo osservò ancora, mentre sentiva sulla sua pelle il tiepido calore della Primavera inoltrata. Si stava bene lì, in quel parco. Il sole non arrivava direttamente nei bassifondi, se non per qualche sporadico e solitario caso, ma il suo tepore inondava comunque tutti i viali, i vicoli e i lo squallore delle vite. Quel calore infondeva speranza alla gente.
“Allora, perché eri uscita?” chiese d’un tratto Tseng, risvegliandosi dai propri pensieri.
“Non c’è un vero e proprio motivo... diciamo che amo questa stagione, e mi piace viverla al meglio!” esclamò Aerith con un sorriso. Un tempo aveva amato anche l’Inverno, seppur in una strana maniera. Adesso, il rapporto che aveva con quella stagione si era inasprito, ma non interrotto del tutto; per quanto potesse odiarlo, Aerith non smetteva mai di esserne in qualche modo ammaliata.
“Si, la Primavera piace a molta gente!” rispose l’uomo, alzandosi dalla panchina come se nulla fosse. “Chissà perché, poi...”
“Libertà” rispose Aerith, alzandosi a sua volta e muovendo qualche passo verso l’uscita del Parco giochi.
“Come?” chiese Tseng, seguendola.
“Hai chiesto il perché la gente ama la Primavera, e io ho risposto!” esclamò Aerith, voltandosi verso di lui.
“Libertà?” chiese il ragazzo, non capendo dove l’altra volesse arrivare.
“Si!” esclamò lei, sorridendo.
Tseng non capiva dove Aerith volesse arrivare con quell’affermazione. Le lanciò un’occhiata interrogativa, che trovò risposta in un ghigno divertito della ragazza.
“Chiudi gli occhi.” disse Aerith, guardandolo in volto.
“Perché?” si stupì Tseng, con uno sguardo un po’ incerto.
“Fidati.”
Tseng non sapeva se assecondare o meno le parole di Aerith. Un po’ incerto, sbatte un paio di volte le palpebre, prima di decidere di chiuderle del tutto.
“Bene!” esclamò la ragazza, entusiasta. “Adesso... mi rendo conto che, per una persona abituata a vivere al di sopra del piatto può risultare difficile, ma... che cosa senti?”
“In che senso?” chiese Tseng, ancora ad occhi chiusi.
“Beh... lascia andare i pensieri che hai in testa. Falli defluire. Concentrati sul calore del Sole indiretto e sulla brezza che viene dalla colline qui vicino. Poi ascolta le risate dei bambini del parco giochi, le voci allegre che gridano al mercato, i migliaia di passi che fanno vibrare la terra sotto di noi. Tieni in mente tutte queste cose, delicatamente, senza forzarne alcuna. Se senti una di esse lasciare i tuoi pensieri, falla allontanare per poi riprenderla nuovamente, con la stessa sensibilità con cui l’hai portata nella tua mente. Capisci fin qui?”
“Si” rispose lui, ancora un po’ riluttante, ma cercando comunque di mettere in pratica le parole della ragazza.
“Pensa all’allegria della gente, che può di nuovo uscire di casa, parlare, vivere dopo i freddi mesi invernali, passati rintanati in casa a desiderare tutto quello che adesso possono avere. Pensa al sentimento che provano adesso. Qual è?” chiese Aerith, divertita.
“Libertà” sussurrò Tseng, a bassa voce, lasciando che quella parola riecheggiasse dentro di lui.
“Visto?” esclamò Aerith, soddisfatta, mentre riprendevano il cammino. “Sapevo ci saresti arrivato. Di solito gli abitanti che vivono sopra il piatto non pensano a come, nel loro piccolo, anche gli abitanti dei Bassifondi possano essere felici.”
Tseng non rispose. Era sempre stato un tipo taciturno, un po’ timido e a volte scontroso. Ma perché con Aerith tutto era differente? Ogni emozione che credeva di aver provato nella sua vita, con Aerith era diversa e totalmente nuova.
Quando era con lei, tutto era diverso. Bisognava avere una dose assurda di follia, masochismo e sadismo per ammetterlo, ma con lei tutto era diverso.
Sarebbe stato inutile negarlo.
Nonostante Tseng sapesse che se Aerith fosse venuta a conoscenza di ciò che aveva fatto, e di come le aveva rovinato la vita, non lo avrebbe più nemmeno considerato come umano,  non riusciva a separarsi da lei, adesso che questo nuovo sentimento era emerso. Non dopo tutti quegli anni trascorsi al suo fianco, passati a capirla, consolarla, proteggerla.
Certo. Proteggerla. Proteggerla dall’assassino di sua madre, forse?
“Di nuovo perso tra i tuoi pensieri…” disse Aerith ad alta voce, riuscendo a stento a trattenere un sorriso. “Tranquillo, non mi da fastidio!” continuò lei, impedendogli di scusarsi “E’ solo che… è curioso, ecco. Non ho mai conosciuto un pensatore come te!”
“Un… pensatore?” chiese Tseng, non capendo cosa volesse dirgli.
“Si! Si vede dalla tua espressione che non pensi a stupidaggini, o frivolezze…”  cominciò Aerith, incerta su ciò che volesse davvero dire. “Diciamo che… hai l’espressione corrucciata quando pensi, e così sembra che tu stia riflettendo su qualcosa di serio!”
Tseng abbassò lo sguardo, senza avere il coraggio di rispondere a quell’affermazione.
“Scusa” si affrettò ad aggiungere Aerith, mortificata dalla sua reazione. “Non pensavo che...”
 “E’ tutto a posto, tranquilla!” la rassicurò Tseng, in tono calmo.
La ragazza continuò a camminare, silenziosa. “Si sta facendo tardi” disse poi, dando un’occhiata al cielo che, oltre il piatto, si tingeva del rame del tramonto. 
“Ti accompagno a casa” rispose Tseng, forse un po’ più freddo di quanto avesse voluto, in un tono che non ammetteva repliche.
Aerith non disse nulla, quindi probabilmente non aveva niente in contrario.
Non parlarono molto nel percorso verso la casa della ragazza. Aerith non osava proferire parola davanti a Tseng, per paura che si fosse infuriato. Quest’ultimo, d’altra parte, ne approfittò per chiudersi nella sua mente e riflettere, senza neanche prestare occhio a dove mettesse i piedi.
Poteva vedersi, in quel momento, come se si stesse guardando dall’esterno: con lo sguardo fisso davanti a sé e quell’aria infuriata dipinta in volto, accanto a quella ragazza minuta, fragile e spaventata. No, non era stata una buona idea farla sentire in colpa. Doveva cercare di scusarsi, di farla sorridere. Aveva già troppi debiti nei confronti di Aerith Gainsborough, senza dover aggiungere anche quello sgradevole episodio.
“Io…” cominciò a dire, senza avere idea di come avrebbe finito il discorso.
“No.” esclamò Aerith, interrompendolo, a sguardo chino. “Non scusarti… Non devi…”
Tseng restò in silenzio, per un momento. Poi un sorriso sarcastico gli affiorò sulle labbra. “Vorrà dire che non mi scuserò, allora!” concluse, osservandola con la coda dell’occhio.
“Non è una cattiva idea!” esclamò Aerith ricambiando il sorriso.
Le case ai lati del sentiero che stavano seguendo, brillavano ormai della calda luce del tramonto, che tingeva d’arancio le colline appena visibili oltre la fitta rete di vicoli e capanne dei bassifondi. L’energia benevola e positiva che i vicoli avevano raccolto, durante quella giornata di allegria e spensieratezza, si diradava già nella soffusa luce del crepuscolo nascente.
Aerith Gainsborough, durante il viaggio di ritorno verso casa, ripensò più volte agli eventi accaduti in quel pomeriggio luminoso. Ripensò alla tristezza dei suoi pensieri, quando, con la rosa in mano, si era abbandonata ai ricordi di un passato ormai lontano; ripensò al misto di pace, felicità ed inquietudine che aveva provato, nell’arco di quel pomeriggio, accanto a quello strano Turk, così timido, introverso, a volte anche cinico, ma al tempo stesso protettivo, leale, onesto nei suoi confronti. Ripensò ad ogni gesto, ogni parola, ogni sguardo che lui le aveva rivolto. C’era qualcosa, nel modo in cui la proteggeva dal mondo esterno, che andava ben oltre il semplice rapporto lavorativo.
Raggiunsero la casa di Aerith dopo qualche minuto. La ragazza osservò da fuori il buio che regnava, ormai da tanti anni, in quell’abitazione, così vuota, solitaria, situata nel centro dei bassifondi ma pur sempre attorniata dal nulla.
Si diresse verso la porta di casa, immersa nei suoi pensieri. Poggiò una mano sullo stipite e con l’altra spinse la maniglia, pronta ad entrare. Si voltò per salutare Tseng, ma lui se n’era già andato, svanito nell’aria fresca della sera.
Sospirando, richiuse la porta alle sue spalle, rimanendo prigioniera di quella casa e della sua mente.
   
 
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