Capitolo
I
Un
raggio di sole le illuminava il viso. Scosse lievemente la testa, gli
occhi
ancora socchiusi nell’ombra di quel pomeriggio di Primavera. Si era addormentata con la
testa sulle
braccia, poggiata al freddo marmo di una delle colonne della sua
chiesa.
Lentamente
si stropicciò gli occhi, aprendoli, dopo la breve
pennichella che si era
concessa. Il sole arrivava ancora quasi perpendicolarmente, passando
per le
fenditure lasciate dalle tegole rotte. Doveva essere passato da poco
mezzogiorno.
Si
alzò, poggiando una mano contro il levigato legno di una
delle panche della
chiesa, che, sotto il suo peso, scricchiolò sonoramente.
L’usura stava
lentamente consumando quel luogo, giorno dopo giorno.
La
ragazza emerse dalla penombra nella quale finora, ad eccezione del
viso, era
stata immersa, in una delle nicchie più lontane
dall’abside. Portava un limpido
vestito azzurro, che metteva in evidenza la sua esile figura e il seno,
non
ancora del tutto sviluppato; i grandi occhi verdi erano simili a due
specchi
luminosi, che risplendevano nella luce bianca del meriggio assolato;
era un po’
goffa nei movimenti, ma aveva un portamento aggraziato, eretto e
composto, che
traspariva dalle sue movenze. Sul viso si intravedeva un timido e
sempiterno
sorriso, di quelli naturali, che la vita concedeva solo dopo lunghe
sofferenze.
La giovane si mosse, producendo
piccoli
tonfi sul parquet della chiesa. Si avvicinò ad un punto
dell’edificio dove il
parquet si era rotto, e dove ora crescevano moltissime specie diverse
di fiori.
Si
avvicinò alle rose rosse e sentì il loro profumo,
delicato ed intenso come non
mai. Sua madre, una volta, le aveva detto che nessun odore era simile a
quello
delle rose di Maggio; ed aveva ragione, quell’odore era
inebriante,
ammaliatore, sensuale ed appagante. Aerith aveva sempre amato quel
particolare
profumo.
Colse
una rosa scarlatta, stando ben attenta a non pungersi. Le sue dita
affusolate
si strinsero intorno allo stelo ben spesso del fiore. Si sedette sul
polveroso
parquet della chiesa, sollevando una nuvola di pulviscolo ben visibile
alla
luce del sole. Stette ad osservare l’aura di purezza di
quella rosa, come
intarsiata in un groviglio di petali da un esperto artigiano. Quel
rosso acceso
le ricordava tante cose, tanti avvenimenti diversi tra loro, ma uniti
dal
sottile filo del destino. Le ricordavano le fragole che aveva mangiato
tanti
anni prima, all’ombra di un Salice verdeggiante; il vestito
che sua madre le
aveva regalato, di un cremisi acceso, in un giorno di pioggia che
ricordava
vagamente come il suo compleanno; il volto paonazzo di un ragazzo che
aveva
visto morire in un vicolo, e che non aveva potuto aiutare in alcun
modo; il
rossore negli occhi stanchi di sua madre, mentre le rimboccava le
coperte la
sera, dopo una lunga giornata di lavoro per cercare di guadagnare
qualcosa; il
colore del fuoco dei capelli di un ragazzo, poco più grande
di lei, che le
diceva di nascondersi e mettersi al riparo, nel vicolo di una fredda
Midgar di
tempo prima; le macchie di colore rosso che insozzavano la neve, e una
voce,
così simile alla sua, una voce che era lei ma che al tempo
stesso non lo era,
che urlava; “Mamma!”.
Scosse
la testa, per dimenticare quell’orribile giorno passato nella
maleodorante
oscurità di quel vicolo umido, in cui una persona a lei cara
aveva trovato la
morte.
Aveva
provato a dimenticare, aveva provato a cancellare dalla sua memoria
quella
mattina d’Inverno in cui sua madre aveva perso la vita, ma
era stato
impossibile. La scena era stata registrata dai suoi occhi da bambina, a
quel
tempo lontani dalle ingiustizie del mondo. Le urla, il sangue, la neve
rossa,
il corpo di sua madre semicoperto dalla neve appena pochi minuti dopo
lo sparo,
la puzza del vicolo, il volto del Turk dai capelli rosso fuoco, il suo
grido di
disperazione, la voglia di voler ridurre a brandelli quel signore dai
capelli
neri che l’aveva uccisa. L’unica cosa che il tempo
aveva lasciato scorrere nel
flusso dell’oblio era il volto di quell’uomo. Non
ricordava nulla di lui, se
non i capelli neri. Nient’altro. A volte il fato era crudele.
Scosse
la testa, per allontanare quelle reminescenze lontane.
Lasciò cadere la rosa
per terra, sul parquet, ed osservò alcuni petali scarlatti
allontanarsi dalla
corolla, ormai irrimediabilmente rovinata.
Si
alzò da terra e si allontanò dai fiori, che
splendevano, rigogliosi, colpiti
dalla luce solare. Attraversò la navata, verso la grande
porta di quercia.
Sfiorò le venature del legno, lentamente, fino ad arrivare
alla fredda
maniglia. Fece cigolare la porta e, per un momento, irradiò
di luce il
corridoio alle sue spalle; mosse qualche passo e si ritrovò
fuori, a respirare
la libertà di quella giornata così luminosa e
tranquilla.
In
verità, lì nei bassifondi tutte le stagioni erano
molto simili. Non arrivava la
neve dell’Inverno, lì sotto, né il
caldo afoso dell’Estate; la pioggia giungeva
solo attraverso i canali di scolo della città che si
articolava sopra il
piatto, se non da qualche sporadico buco come quello che la ragazza
aveva nella
propria chiesa.
Quello
che, nei bassifondi, rendeva le stagioni così diverse tra
loro, erano le
persone che li abitavano. Nella stagione estiva, tutto si animava di
una nuova
vita, come lo scoiattolo si anima dopo il letargo invernale: i bambini
giocavano per le affollate vie del mercato, le voci della gente erano
allegre,
spensierate, nonostante la povertà in cui trascorrevano le
proprie vite.
Adesso,
per quei vicoli si respirava già l’aria
dell’Estate alle porte.
Camminò
lentamente per i vicoli della città, salutando conoscenti e
godendo della
brezza fresca di Primavera che caratterizzava quelle tiepide giornate.
I
pensieri che, fino a poco tempo prima, l’avevano rattristata,
adesso apparivano
lontani, come portati via da quel vento che le solleticava il volto.
“Che
ci fai qui da sola, Aerith?” domandò una voce, in
tono severo, alle sue spalle.
Voltandosi, riconobbe Tseng, in uniforme, che la guardava come se fosse
diventata matta.
“In
che senso?” chiese la ragazza di nome Aerith, sorridendogli.
Tra gli agenti che
la ShinRa le aveva mandato, Tseng era senza dubbio quello che
preferiva.
L’aveva preferito a pelle, già il primo giorno in
cui lui era venuto a
visitarla, in una fredda giornata di Febbraio, a pochi mesi da quella
fatidica
mattinata in cui tutto era andato per il verso sbagliato.
L’aveva visto subito
impacciato, timido, taciturno, quasi fuori luogo in
quell’incarico, come se non
avesse mai parlato con una ragazzina. E da quando lei gli aveva
sorriso, e lui
l’aveva guardata, strano, come se non avesse mai visto
qualcuno ridere, Aerith
aveva deciso che, per lui, avrebbe riso più spesso, tutte le
volte che lo
avrebbe visto.
“Nel
senso” rispose Tseng, un po’ scocciato dal tono
canzonatorio di Aerith “che
dovresti essere in un luogo più sicuro, no di certo qui, in
mezzo a questa
folla, piena di… delinquenti, o assassini,
scippatori…”
“Naah,
tranquillo” fece Aerith, guardandosi intorno “Chi
sarebbe il matto che avrebbe
voglia di attaccarmi con questa folla?”
“Non
si può mai sapere!” esclamò Tseng,
guardandosi intorno. “Non sai mai con chi
hai a che fare in questo mondo!”
“Mmm…”
si mise a riflettere Aerith, osservando gli uomini che le passavano
davanti “Nessuno
di questi ha l’aria del maniaco assassino,
però!”
“E
che ne sai tu?” chiese Tseng, diffidente.
“Beh,
ma allora fughiamo ogni dubbio e chiediamo a qualcuno!”
esclamò Aerith, come se
fosse la cosa più ovvia del mondo.
“Ehi,
ma che…?”
“Sssh”
lo zittì Aerith voltandosi per un momento verso di lui.
“Sta’ a guardare!”
La
ragazza si avvicinò ad un vecchino che sembrava reggersi a
malapena in piedi,
appoggiato ad un bastone da passeggio e con la schiena ricurva.
L’uomo la
guardò sbieco, come se non volesse essere disturbato.
“Mi
scusi!” chiese Aerith, rivolgendosi all’anziano.
“Per caso lei è un assassino?”
Tseng
si coprì il volto con una mano, per non guardare.
Ci
furono parecchi secondi, in cui il vecchio guardò Aerith
come se fosse pazza.
Le piantò addosso gli occhi, e, lentamente, si fece paonazzo
in volto, pronto
alla sfuriata.
“Ma
come ti permetti, piccola ragazzina insolente?!”
urlò l’uomo con quanto fiato
aveva in gola, facendola rabbrividire. “Sono forse domande da
fare, queste?!”
“Me
vede” cercò di spiegarsi Aerith, senza perdere il
tono pratico e diretto con
cui gli si era rivolta in precedenza “Io e il mio amico
pensavamo...”
“Non
coinvolgere anche me!” gli sussurrò in risposta
Tseng, dandole una gomitata.
“Tu
e il tuo amico pensavate che io fossi un assassino?!” chiese
il vecchio,
spostando lo sguardo da Aerith a Tseng.
“No,
mi scusi, è solo un’idea un po’ strana
che è venuta ad Ae…”
cominciò Tseng,
cercando di scusarsi prima che quell’uomo li cacciasse dal
mercato.
“L’assassino
sarai tu, semmai! Hai l’aria del tipo losco!” gli
urlò contro il vecchio, prima
che Tseng potesse finire la frase. “Ora andatevene e
lasciatemi in pace!”.
“D’accordo,
buona giornata!” esclamò Aerith sorridendo,
salutandolo calorosamente prima di
allontanarsi.
Tseng
la seguì, mentre udiva l’uomo che, alle sue,
spalle, inveiva contro i ragazzini
perdigiorno di quei tempi. Aspettò che fossero abbastanza
lontani da
quest’ultimo, prima di cominciare a biasimarla.
“Ma
che ti è passato per la testa?” le
domandò, confuso dal suo gesto.
“A
dir la verità, mi aspettavo un altro tipo di
reazione” sussurrò Aerith, più a
sé stessa che a Tseng, con lo sguardo chino verso il basso.
Poi lo rialzò,
guardandolo negli occhi scuri. “Ma non puoi negare che sia
stato divertente!”
“Beh,
a me è sembrato imbarazzante” rispose Tseng,
pensieroso.
“Dici?”
chiese Aerith, poco convinta.
“Si,
insomma, non si può andare dal primo uomo che vedi e
chiedere una cosa del
genere… non sta bene!”
Aerith
rifletté un po’, mentre camminava a passo svelto
accanto al ragazzo.
“Già,
non sta proprio bene” disse dopo un po’
“Ma dopotutto, che ti importa?”
“Come?”
chiese Tseng, non capendo dove la ragazza volesse arrivare.
“Non
abbiamo fatto nulla di male, era solo una domanda innocente”
spiegò Aerith,
guardandolo negli occhi. “è così
importante l’imbarazzo, o il pudore?”
“No,
ma...”
“Allora
converrai con me sul fatto che non deve importarti di ciò
che la gente pensa di
te!” esclamò Aerith, non lasciandogli il tempo di
rispondere.
Tseng
sospirò, capitolando. “Forse hai
ragione… ma rimane il fatto che non saresti
dovuta uscire da sola. Il pericolo è sempre in
agguato!”
La
ragazza posò il suo luminoso e limpido sguardo su di lui.
“Si, ma adesso ci sei
tu con me, no? Non sono al sicuro?”
Tseng
chiuse per un attimo gli occhi, non sapendo cosa rispondere. Si, voleva
dirle
che era al sicuro, che in quegli anni l’aveva sempre
protetta, e che avrebbe
continuato a farlo per sempre. Di sua spontanea volontà,
senza volere nulla in
cambio. Avrebbe potuto dirglielo, e lei gli avrebbe sorriso,
rassicurata.
Ma
avrebbe mentito a sé stesso. Certo, Aerith non lo sapeva, ma
era stata lui la
principale causa dei mali che l’avevano afflitta in tutti
quegli anni. E la
protezione che le stava dando, l’apprensione che aveva per
lei, il sentimento
che provava nei suoi confronti… forse era solo senso di
colpa.
Lo
stava facendo per essere perdonato?
Ma
chi avrebbe mai potuto perdonare il suo gesto? Non certo lei.
Non lei, che aveva sofferto per le sue azioni e che ora,
ignara, passeggiava tranquillamente con il carnefice di sua madre.
“Che
hai?” chiese Aerith, guardandolo attentamente, con
curiosità.
Tseng
si ridestò di colpo dai suoi pensieri. “Non
è niente, tranquilla!”
La
ragazza continuò ancora ad osservarlo, non del tutto
convinta. “Sembri...
pensieroso!”
“Forse
sono solo un po’ stanco...” rispose lui, evitando
di guardarla negli occhi.
Aerith
annuì, distogliendo lo sguardo. Si avvicinarono al parco
giochi del Settore 5,
a quell’ora pieno di bambini che giocavano tra di loro,
spensierati.
Si
sedettero entrambi su una panchina, lì vicino, alla portata
delle grida vivaci
dei fanciulli. Qualche romito raggio di sole filtrava da sopra il
piatto, e
faceva splendere di un nuovo colore la sabbia dove i bambini giocavano,
che si
tingeva di un dorato acceso. L’aria era frizzante, si
respirava la libertà
dell’estate imminente persino in quei vicoli angusti e
sporchi, dove regnava la
povertà.
“Come
va?” chiese Tseng, pensando che, fino a quel momento, non
avevano ancora avuto
una normale conversazione.
“Va…
bene, credo! I fiori stanno venendo su ottimamente, questa stagione
è
magnifica!” esclamò Aerith, lo sguardo fisso verso
i ragazzini che giocavano.
“E...
tu? Come stai?” chiese ancora, volgendo anche lui lo sguardo
verso i bambini.
Aerith
ci mise un po’ prima di rispondere. Avrebbe potuto
raccontargli tutto, su come
si sentiva, su quello che provava, su come la notte singhiozzava
sommessamente,
tra le coperte, perché quello era il solo posto dove poteva
ostentare le sua
debolezza, lì, lontana da tutto, sola. Sul tremendo senso di
solitudine che le
attanagliava il cuore. Sull’incrinato muro di bugie che aveva
eretto intorno a
sé, e che si crepava sempre di più, ogni giorno
che passava, verso un crudele
baratro di disperazione.
“Sto
meglio” mentì Aerith, con una sottile sfumatura
della voce che sembrava voler
dire il contrario, e che Tseng riuscì a cogliere.
“Si, direi che sto… piuttosto
bene. E… tu? Tutto bene alla ShinRa?”
Tseng
ebbe l’impressione che Aerith volesse solo cambiare discorso.
“Si,
tutto… tutto bene” concluse Tseng, anche se non
era vero. In effetti, nulla di
quello che le stava dicendo riguardo la ShinRa era vero.
“Perfetto!”
rispose Aerith, imbarazzata, non sapendo come continuare il discorso.
Trascorse
qualche minuto, in cui entrambi i ragazzi non proferirono parola. Ogni
tanto,
Aerith gettava una curiosa occhiata a Tseng, che sembrava immerso in
chissà
quali pensieri. Lo vedeva pensieroso, con la testa leggermente
inclinata, a
fissare l’infantile gioco dei bambini senza in
realtà vederlo. Cos’è che lo
spingeva tanto a riflettere? Cosa si nascondeva dietro ad una mente
così
calcolatrice e riflessiva? C’era sicuramente qualcosa di cui
non era a
conoscenza. Qualcosa sul suo passato, magari, qualcosa che Tseng aveva
ritenuto
opportuno nascondere a tutti. Ma che nella sua mente riaffiorava, e che
puntualmente lo tormentava.
Lo
osservò ancora, mentre sentiva sulla sua pelle il tiepido
calore della
Primavera inoltrata. Si stava bene lì, in quel parco. Il
sole non arrivava
direttamente nei bassifondi, se non per qualche sporadico e solitario
caso, ma
il suo tepore inondava comunque tutti i viali, i vicoli e i lo
squallore delle
vite. Quel calore infondeva speranza alla gente.
“Allora,
perché eri uscita?” chiese d’un tratto
Tseng, risvegliandosi dai propri
pensieri.
“Non
c’è un vero e proprio motivo... diciamo che amo
questa stagione, e mi piace
viverla al meglio!” esclamò Aerith con un sorriso.
Un tempo aveva amato anche
l’Inverno, seppur in una strana maniera. Adesso, il rapporto
che aveva con
quella stagione si era inasprito, ma non interrotto del tutto; per
quanto
potesse odiarlo, Aerith non smetteva mai di esserne in qualche modo
ammaliata.
“Si,
la Primavera piace a molta gente!” rispose l’uomo,
alzandosi dalla panchina
come se nulla fosse. “Chissà perché,
poi...”
“Libertà”
rispose Aerith, alzandosi a sua volta e muovendo qualche passo verso
l’uscita
del Parco giochi.
“Come?”
chiese Tseng, seguendola.
“Hai
chiesto il perché la gente ama la Primavera, e io ho
risposto!” esclamò Aerith,
voltandosi verso di lui.
“Libertà?”
chiese il ragazzo, non capendo dove l’altra volesse arrivare.
“Si!”
esclamò lei, sorridendo.
Tseng
non capiva dove Aerith volesse arrivare con
quell’affermazione. Le lanciò
un’occhiata interrogativa, che trovò risposta in
un ghigno divertito della
ragazza.
“Chiudi
gli occhi.” disse Aerith, guardandolo in volto.
“Perché?”
si stupì Tseng, con uno sguardo un po’ incerto.
“Fidati.”
Tseng
non sapeva se assecondare o meno le parole di Aerith. Un po’
incerto, sbatte un
paio di volte le palpebre, prima di decidere di chiuderle del tutto.
“Bene!”
esclamò la ragazza, entusiasta. “Adesso... mi
rendo conto che, per una persona
abituata a vivere al di sopra del piatto può risultare
difficile, ma... che
cosa senti?”
“In
che senso?” chiese Tseng, ancora ad occhi chiusi.
“Beh...
lascia andare i pensieri che hai in testa. Falli defluire. Concentrati
sul
calore del Sole indiretto e sulla brezza che viene dalla colline qui
vicino.
Poi ascolta le risate dei bambini del parco giochi, le voci allegre che
gridano
al mercato, i migliaia di passi che fanno vibrare la terra sotto di
noi. Tieni
in mente tutte queste cose, delicatamente, senza forzarne alcuna. Se
senti una
di esse lasciare i tuoi pensieri, falla allontanare per poi riprenderla
nuovamente, con la stessa sensibilità con cui
l’hai portata nella tua mente.
Capisci fin qui?”
“Si”
rispose lui, ancora un po’ riluttante, ma cercando comunque
di mettere in
pratica le parole della ragazza.
“Pensa
all’allegria della gente, che può di nuovo uscire
di casa, parlare, vivere dopo i
freddi mesi invernali,
passati rintanati in casa a desiderare tutto quello che adesso possono
avere.
Pensa al sentimento che provano adesso. Qual è?”
chiese Aerith, divertita.
“Libertà”
sussurrò Tseng, a bassa voce, lasciando che quella parola
riecheggiasse dentro
di lui.
“Visto?”
esclamò Aerith, soddisfatta, mentre riprendevano il cammino.
“Sapevo ci saresti
arrivato. Di solito gli abitanti che vivono sopra il piatto non pensano
a come,
nel loro piccolo, anche gli abitanti dei Bassifondi possano essere
felici.”
Tseng
non rispose. Era sempre stato un tipo taciturno, un po’
timido e a volte
scontroso. Ma perché con Aerith tutto era differente? Ogni
emozione che credeva
di aver provato nella sua vita, con Aerith era diversa e totalmente
nuova.
Quando
era con lei, tutto era diverso. Bisognava avere una dose assurda di
follia,
masochismo e sadismo per ammetterlo, ma con lei tutto era diverso.
Sarebbe
stato inutile negarlo.
Nonostante
Tseng sapesse che se Aerith fosse venuta a conoscenza di ciò
che aveva fatto, e
di come le aveva rovinato la vita, non lo avrebbe più
nemmeno considerato come
umano, non riusciva
a separarsi da lei,
adesso che questo nuovo sentimento era emerso. Non dopo tutti quegli
anni
trascorsi al suo fianco, passati a capirla, consolarla, proteggerla.
Certo.
Proteggerla. Proteggerla
dall’assassino di sua madre, forse?
“Di
nuovo perso tra i tuoi pensieri…” disse Aerith ad
alta voce, riuscendo a stento
a trattenere un sorriso. “Tranquillo, non mi da
fastidio!” continuò lei,
impedendogli di scusarsi “E’ solo che…
è curioso, ecco. Non ho mai conosciuto
un pensatore come te!”
“Un…
pensatore?” chiese Tseng, non capendo cosa volesse dirgli.
“Si!
Si vede dalla tua espressione che non pensi a stupidaggini, o
frivolezze…”
cominciò Aerith, incerta su ciò che
volesse
davvero dire. “Diciamo che… hai
l’espressione corrucciata quando pensi, e così
sembra che tu stia riflettendo su qualcosa di serio!”
Tseng
abbassò lo sguardo, senza avere il coraggio di rispondere a
quell’affermazione.
“Scusa”
si affrettò ad aggiungere Aerith, mortificata dalla sua
reazione. “Non pensavo
che...”
“E’
tutto a posto, tranquilla!” la rassicurò
Tseng, in tono calmo.
La
ragazza continuò a camminare, silenziosa. “Si sta
facendo tardi” disse poi,
dando un’occhiata al cielo che, oltre il piatto, si tingeva
del rame del
tramonto.
“Ti
accompagno a casa” rispose Tseng, forse un po’
più freddo di quanto avesse
voluto, in un tono che non ammetteva repliche.
Aerith
non disse nulla, quindi probabilmente non aveva niente in contrario.
Non
parlarono molto nel percorso verso la casa della ragazza. Aerith non
osava
proferire parola davanti a Tseng, per paura che si fosse infuriato.
Quest’ultimo, d’altra parte, ne
approfittò per chiudersi nella sua mente e
riflettere, senza neanche prestare occhio a dove mettesse i piedi.
Poteva
vedersi, in quel momento, come se si stesse guardando
dall’esterno: con lo
sguardo fisso davanti a sé e quell’aria infuriata
dipinta in volto, accanto a
quella ragazza minuta, fragile e spaventata. No, non era stata una
buona idea
farla sentire in colpa. Doveva cercare di scusarsi, di farla sorridere.
Aveva
già troppi debiti nei confronti di Aerith Gainsborough,
senza dover aggiungere
anche quello sgradevole episodio.
“Io…”
cominciò a dire, senza avere idea di come avrebbe finito il
discorso.
“No.”
esclamò Aerith, interrompendolo, a sguardo chino.
“Non scusarti… Non devi…”
Tseng
restò in silenzio, per un momento. Poi un sorriso sarcastico
gli affiorò sulle
labbra. “Vorrà dire che non mi scuserò,
allora!” concluse, osservandola con la
coda dell’occhio.
“Non
è una cattiva idea!” esclamò Aerith
ricambiando il sorriso.
Le
case ai lati del sentiero che stavano seguendo, brillavano ormai della
calda
luce del tramonto, che tingeva d’arancio le colline appena
visibili oltre la
fitta rete di vicoli e capanne dei bassifondi. L’energia
benevola e positiva
che i vicoli avevano raccolto, durante quella giornata di allegria e
spensieratezza, si diradava già nella soffusa luce del
crepuscolo nascente.
Aerith
Gainsborough, durante il viaggio di ritorno verso casa,
ripensò più volte agli
eventi accaduti in quel pomeriggio luminoso. Ripensò alla
tristezza dei suoi
pensieri, quando, con la rosa in mano, si era abbandonata ai ricordi di
un
passato ormai lontano; ripensò al misto di pace,
felicità ed inquietudine che
aveva provato, nell’arco di quel pomeriggio, accanto a quello
strano Turk, così
timido, introverso, a volte anche cinico, ma al tempo stesso
protettivo, leale,
onesto nei suoi confronti. Ripensò ad ogni gesto, ogni
parola, ogni sguardo che
lui le aveva rivolto. C’era qualcosa, nel modo in cui la
proteggeva dal mondo
esterno, che andava ben oltre il semplice rapporto lavorativo.
Raggiunsero
la casa di Aerith dopo qualche minuto. La ragazza osservò da
fuori il buio che
regnava, ormai da tanti anni, in quell’abitazione,
così vuota, solitaria,
situata nel centro dei bassifondi ma pur sempre attorniata dal nulla.
Si
diresse verso la porta di casa, immersa nei suoi pensieri.
Poggiò una mano
sullo stipite e con l’altra spinse la maniglia, pronta ad
entrare. Si voltò per
salutare Tseng, ma lui se n’era già andato,
svanito nell’aria fresca della
sera.
Sospirando,
richiuse la porta alle sue spalle, rimanendo prigioniera di quella casa
e della
sua mente.