Capitolo
II
Tseng
sospirò sonoramente, mentre ripercorreva le ormai buie
strade dei bassifondi di
Midgar. Diede un calcio ad un ciottolo, lì vicino, e lo osservò
sparire tra l’oscurità di un
vicolo che puzzava di letame. Qualcuno grugnì alle sue
spalle, ma lui non diede
peso alla cosa; probabilmente era un senzatetto che si aggirava tra le
spire
nere della notte appena sorta.
Un
lampione, in lontananza, si spense per un momento; poi si riaccese,
subito
dopo, per poi rispegnersi nell’attimo immediatamente
successivo. La luce
soffusa illuminava il volto di una ragazza, forse una prostituta, con
la
schiena poggiata sul palo e che lanciava sguardi ammiccanti ai
passanti. Tseng
la superò, sdegnato, con il volto chino e la mente protesa
verso arcani
pensieri.
I
bassifondi la notte erano irriconoscibili. Le strade si riempivano di
criminali, di tipi poco raccomandabili, di ubriaconi in cerca di
ragazze da
importunare. Sembrava che la serenità e la voglia di vivere
che accompagnava le
giornate illuminate dalla calda luce solare, la notte sparisse. Ed era
allora,
al chiaro della pallida luna, che emergeva il lato più
oscuro di ogni uomo che
viveva in quella città, corrotta dall’odio e dalla
povertà.
A
Tseng pareva quasi di sentirla, quella corruzione che aleggiava per i
vicoli
malfamati: gli sembrò di udire i sospiri licenziosi di una
coppia di amanti,
immersi nell’oscurità di un vicolo, o di sentire
alcuni spari non lontani dal
luogo dove si trovava.
Quei
rumori secchi, così familiari ma al tempo estranei, lo
riportarono con la mente
a quella gelida mattina di ormai quasi quattro anni prima. A differenza
della
versione confusa che ricordava Aerith, a lui non era sfuggito nulla: i
suoi
ricordi si basavano più sulle sensazioni, sui ricordi dei
pensieri, sugli
attimi infiniti che cambiavano definitivamente lo scorrere degli
eventi. Quella
giornata era stata marchiata nei suoi ricordi, guadagnandosi un posto
d’onore;
e non passava giorno senza che il suo sonno, o i suoi pensieri, non
venissero
disturbati dal sangue sulla gelida e candida neve, o dalle grida
disperate di
Aerith, che urlava sconvolta. Probabilmente quest’ultima non
ricordava molto a
causa del forte shock che l’avvenimento le aveva causato.
Non
ricordava il motivo che l’aveva spinto a sparare; in seguito
aveva pensato che
sarebbe stato meglio limitarsi ad inseguire il malvivente, e solo in
seguito
provare a liberare la donna. Tuttavia aveva agito impulsivamente; la
sua mente,
così fredda, calcolatrice, riflessiva, aveva reagito
d’istinto, senza
riflettere. E quella volta, seguire l’istinto gli era costato
molto caro.
Gli
omicidi erano ormai una consuetudine, a Midgar, una cruda
realtà con cui
persino i bambini entravano in contatto in età precoce. Ma
non ci si abituava
mai, ed ogni volta era più dolorosa della precedente.
In
verità, Tseng non aveva mai avuto una netta distinzione tra
bene e male. La
linea labile che sanciva quella profonda differenza era per lui
invisibile,
come se non esistesse. I due diversi pensieri si fondevano nella sua
mente, ed
agivano in base al suo buonsenso. Fin dalla più tenera
età Tseng non si era mai
fatto problemi su ciò che era giusto e ciò che
non lo era; tutto è più facile
se distingui il mondo in persone che ti sono ostili e in alleati.
Uccideva
coloro il cui nome figurava tra i nemici della ShinRa e non si creava
nessun
problema, dimenticando in fretta i volti delle sue vittime. Talvolta
nemmeno li
osservava in viso. Ma quella volta... l’ultimo suo omicidio
era stata il più
gravoso. Non che non fosse mai successo che qualche innocente rimanesse
ucciso
durante una missione, ma quella volta era stato differente. A volte
pensava di
aver sparato con l’intenzione di uccidere quella donna. Di
colpire lei, anziché
quell’uomo – quel nemico – che doveva
essere punito.
Erano
stati quei pensieri che l’avevano spinto a difficili scelte.
Senso di colpa.
Espiazione. Perdono. Rinascita. Un ciclo che sperava di poter
percorrere per
fare ammenda dei propri errori. Eppure, sbagliava ancora nel tenere
Aerith
all’oscuro della verità. Ma in quegli anni, le si
era tanto affezionato dal non
poter sopportare l’idea di perderla.
Flashback
Tutto
gli appariva confuso, più sfocato del normale. La testa
stava per scoppiargli,
ogni rumore sembrava amplificato fino all’inverosimile. Era
seduto sul
pavimento di un gelido corridoio della ShinRa, con la schiena poggiata
al muro,
anche se non ricordava con esattezza come fosse arrivato lì.
Nella sua testa,
un’entropia di parole, immagini e suoni si fondeva
ininterrottamente e senza
sosta. Il sangue, la neve, e lo sguardo dell’assassino
– lui, era lui
l’assassino! –, e il malvivente che fuggiva,
indisturbato, tra il bianco di
Midgar, e le urla di una marmocchia che gli trapanavano il
cervello…
Accanto
a lui Reno non smetteva di parlare, velocemente, come se non riuscisse
a fare
altro. Era da quando Scarlet li aveva chiamati nei suoi uffici che non
faceva
altro che blaterare, nervoso.
“Lo
so già, ci butteranno fuori entrambi!”
esclamò il Turk più giovane, alzandosi
da terra e comminando avanti e indietro, torcendosi le mani.
“Abbiamo combinato
un casino! Adesso finirò come mio zio Al, a spalare cacche
di Chocobo dalle
piste del Gold Saucer, e quando morirò verrò
utilizzato come concime per i
Chocobo, e poi…”
“Basta!”
esclamò Tseng, forse più forte di quanto avrebbe
voluto. “Reno, tu non c’entri
nulla con quello che è successo, non possono punirti, stai
tranquillo…”
“No!
So già che verrò licenziato! Tanto vale chiamare
lo zio Al e dirgli che da
domani avrà due nuovi operai!” esclamò
Reno, prendendo dalla tasca il proprio
cellulare e cominciando a battere i tasti con furia.
Tseng
gli prese il telefono di mano e lo scagliò sul pavimento,
stizzito. Ma perché
non la piantava quell’idiota? Sapeva benissimo a cosa stava
andando incontro,
non c’era alcun bisogno che Reno glielo ricordasse
insistentemente.
Il
ragazzo accanto a lui alzò le spalle. “Fa
nulla…” disse, mentre raccoglieva il
cellulare ormai inutilizzabile. “Tanto da spalatore di cacche
di Chocobo non me
ne farei nulla!”
“Vuoi
stare un po’ zitto, dannazione?!” sibilò
stizzito Tseng, mentre Reno,
mortificato, si sedeva accanto a lui in silenzio. Gli dispiaceva averlo
trattato così, dopotutto il ragazzo non aveva fatto niente
di male. Reno aveva
avuto il buon senso di non compiere un gesto che l’avrebbe
segnato per tutta la
vita.
Molti
lo credevano come freddo, vuoto, privo di emozioni. Lo era, certo. Ma
solo in
parte. Credevano forse che non avrebbe più pensato alla
morte di quella donna?
Che sarebbe passato avanti, come aveva sempre fatto? No, non era
possibile. Non
esternare i sentimenti non vuol dire automaticamente non provarne, ma
solo
avere una buona capacità di autocontrollo. Che spesso poteva
diventare una
maschera.
Adesso,
alla luce di ciò che era accaduto, non si poteva
più tornare indietro. Alea iacta
est* (Il dado è tratto).
Il
cigolio di una porta che scorreva sui propri cardini lo riscosse dal
torpore
nel quale era caduto. Si alzò di scatto, osservando il fante
della ShinRa che
lo squadrava da capo a piedi, sotto l’elmo che gli copriva in
gran parte il
volto.
“Seguitemi!”
disse, voltandosi e riattraversando la porta dal quale era venuto.
“Scarlet vi
sta aspettando.”
“Dobbiamo
proprio?” chiese Reno, abbozzando un sorriso. Il fante
ricambiò con un’occhiata
glaciale che lo zittì. A Tseng quel ragazzo così
gelido stava già simpatico.
Li
condusse attraverso dei corridoi grigi e spogli, intervallati da
qualche
finestra dalla quale si poteva osservare la tempesta di neve abbattersi
su
Midgar. Ogni tanto, il ragazzo si voltava verso di loro, senza parlare,
con
l’abbozzo di un sorriso malvagio sul volto.
“Posso
spaccargli la testa?” chiese Reno, sottovoce.
“Siamo già nei guai, tanto vale
che…”
“Eccoci,
siamo arrivati!” esclamò il soldato,
interrompendolo e gettandogli un’occhiata
di puro disgusto. “Scarlet vi aspetta qui dentro.”
“Grazie.”
gli rispose Tseng. “Puoi andare.”
Il
Fante si allontanò a grandi passi, sparendo oltre
l’angolo del corridoio.
“Entriamo?”
chiese Reno, guardandosi intorno.
Tseng
non rispose, allungando una mano verso la maniglia in ottone della
porta.
“Sai
che si dice che Scarlet abbia mozzato la testa a tredici dipendenti con
una
mannaia tutti in una volta?” disse Reno, da una parte
intimorito e dall’altra
ammirato dalle gesta della donna.
“Sai
che ne dubito molto?” rispose Tseng, ancora sulla soglia
dell’ufficio.
“Beh,
in verità non sarebbe così difficile, basterebbe
mettere una materia All sulla
mannaia e cominciare la
strage!”
“Certo…”
rispose Tseng per farlo tacere, abbassando la maniglia e aprendo la
porta.
Titubanti,
entrarono nell’ufficio di colei che, secondo la leggenda,
passava il suo tempo
a decapitare dipendenti e ad infierire sui loro cadaveri.
La
prima cosa che li colpì fu la luce abbagliante. Dalle alte
vetrate
dell’ufficio, la città di Midgar non era
più visibile, ricoperta da un manto
bianco ed abbagliante. Il cielo era opaco, perlaceo, plumbeo; le alte
nuvole da
lì sembravano più vicine, quasi raggiungibili.
La
figura di Scarlet si stagliava davanti ad una della alte vetrate della
stanza,
proiettando un’appena visibile ombra alle sue spalle. Li
accolse con un sorriso
mellifluo, falso, che sembrava farsi beffe della loro condizione.
Quando parlò,
il tono della voce era canzonatorio, come se si stesse divertendo a
vederli
trepidanti e in attesa di conoscere il proprio destino.
“Guardate
chi ci onora della nostra presenza, quest’oggi...”
disse Scarlet, camminando
verso di loro con le braccia incrociate al petto. “Tseng e il
suo fido
assistente-Turk Reno!”
I
due non risposero, in attesa che la donna cominciasse a sputare veleno
su di
loro. E in effetti, non tardò molto prima che la donna
riprendesse il suo
discorso, assumendo il cipiglio di un’aquila che plana sulla
propria preda.
“Sapete,
stamattina, quando mi sono svegliata nel mio letto, era tranquilla come
non
mai. La neve, il silenzio… a dire la verità, mi
sentivo in sintonia con
l’intero universo…” cominciò
a narrare Scarlet, lentamente, facendo in modo che
né Tseng né Reno potessero perdersi una parola.
“Felice come non mai, arrivo
nei miei uffici e scopro che, all’alba è accaduto
qualcosa di veramente strano.
Non siete curiosi di sapere cosa?”
“C-credo
di saperlo…” sussurrò Reno, a testa
china.
“Scopro
che due Turk, mentre erano in missione, hanno combinato un disastro, e
che uno
dei due, un Turk di cui mi fidavo, uno tra i nostri migliori
dipendenti, che
era candidato per il controllo della divisione Turk, ha commesso un errore. Badate bene, non un piccolo
errore. Non una quisquilia, niente di risolvibile con un paio di
pratiche e
qualche insabbiamento. Questo Turk ha ucciso una donna, in piena luce
del
giorno, ed ha lasciato andare un malvivente che trafficava Materie
illegali,
che potrebbero dare non pochi grattacapi alla ShinRa. Così
mi sono vista
affidata il caso, come se fosse piovuto dal cielo insieme alla
neve.”
“Ma...
sarebbe dovuta essere l’area di competenza di
Reev…” cominciò Reno, ma non fece
in tempo a finire la frase perché la donna lo
zittì di nuovo.
“Senza
offesa, ma Reeve Tuesti è solo uno stronzo senza cervello
che ha saputo mandare
Midgar allo scatafascio, finora!” rispose Scarlet,
seccamente. Il Turk più
giovane si pentì di averla interrotta. “Lo stesso
Presidente ShinRa ha deliberato
che fossi io a comunicare la punizione che i piani alti hanno decretato
per
voi. Cosa potevo fare se non accettare?” Scarlet rise, una
risata fredda,
acuta, fastidiosa.
Tseng
sentì una nuova fitta alla testa. Non si sentiva per niente
bene.
“Reno,”
continuò Scarlet, voltandosi verso la maestosa Midgar
ricoperta dalla neve.
“l’assemblea ha valutato le tue doti, durante
quest’ultima missione. A
differenza di altri, hai mantenuto la lucidità e hai cercato
di fare la cosa
giusta per la ShinRa. Congratulazioni, sei stato promosso da
Assistente-Turk a
Turk. Entro un paio di ore ti verrà assegnato un partner che
ti accompagnerà
nelle tue missioni”.
Il
ragazzo alzò gli occhi e guardò Scarlet,
meravigliato. Tseng ebbe l’impressione
che lo scopo di tutto ciò fosse stato umiliare ulteriormente
lui, ed ebbe
l’insano desiderio di spingere la donna dalla finestra del
proprio ufficio.
Strinse i pugni, il volto impassibile, mentre osservava Scarlet
congratularsi
con Reno e spiegargli i suoi nuovi incarichi.
Quell’orrenda
donna aveva preparato le cose per bene, quella volta.
Tseng
si sentì uno schifo. E Scarlet era una maestra per far
sentire così le persone
che le stavano accanto. Un paio di volte, mentre la donna parlava, gli
aveva
lanciato un’occhiata sfuggente, con il suo solito ghigno sul
volto, cercando di
intravedere una reazione sul suo volto impassibile. Probabilmente si
aspettava
di vederlo abbassare gli occhi, ma non gli avrebbe dato
quest’ulteriore
soddisfazione. L’avrebbe licenziato, ma di certo non
l’avrebbe umiliato.
“Puoi
andare, Reno” disse alla fine Scarlet, stringendogli la mano.
Mentre
usciva, Reno gli lanciò un’occhiata furtiva e
preoccupata.
“Veniamo
a noi, Tseng.” Scarlet lo guardò, non riuscendo
nemmeno a trattenere il proprio
ghigno. “Potrei parlare per ore del danno causato alla
ShinRa, di come
sbagliando hai derubato tutti i dipendenti della Corporazione eccetera
eccetera. Potrei. Forse dovrei. Non credi anche tu?”
Tseng
non rispose, limitandosi a fissarla nei suoi glaciali occhi azzurri.
“Si,”
riprese Scarlet, mettendosi a camminare su e giù per
l’ufficio. “dovrei. Ma non
lo farò. Sarebbe un tale spreco di tempo, visto la sorte che
ti aspetta!” la
donna rise di nuovo, e Tseng strinse i pugni così forte da
farsi male. “Anzi,
ti dirò una cosa. Sai perché
quest’uccisione ha causato così tanto scalpore?
Non è la prima volta che qualche passante ci rimette la vita
durante una
missione. In un altro caso, ci saremmo limitati ad occultare il
cadavere. Ma
stavolta, non andrà così. Il problema non
è stato aver ucciso la donna, ma
l’aver messo in pericolo quella
bambina.
Probabilmente non lo sai ancora, ma quella ragazzina è molto
importante per la
ShinRa. Un giorno capirai cosa intendo.
Ora,
l’aver ucciso la madre comporta l’averla resa
diffidente nei confronti della
ShinRa. Avremmo voluto che lavorasse in squadra con noi, quando sarebbe
giunto
il momento. Ma ora… tutto sarà più
complicato. Non mi stupirei, Tseng, di
sapere che hai compromesso l’equilibrio del pianeta. Questo è il motivo per cui
abbiamo deciso di allontanarti a tempo
indeterminato dalla Sezione Turk.”
Il
ragazzo non si mosse ancora, né parlò. Non voleva
che Scarlet considerasse il
suo congedo come una vittoria personale. Maledetta Arpia…
“Verrai
dimesso dal servizio oggi stesso. Ritorni un civile, e, come tale, le
questioni
private della ShinRa non saranno più tuo interesse. Se parli
con qualcuno di
quello che sai sui nostri progetti Top Secret, sapremo dove
trovarti.” Concluse
Scarlet, gettandosi una ciocca di capelli biondi oltre
l’orecchio.
Scese
il silenzio tra i due.
“Allora?
Non hai nulla da dirmi?” chiese Scarlet, sperando in una sua
reazione di
qualche tipo.
Tseng
non rispose. Si alzò in piedi e, con la mente rivolta ad
altri pensieri,
camminò verso la porta che dava sul corridoio grigio dal
quale erano venuti,
senza nemmeno degnarla di uno sguardo.
“Te
ne vai così?” domandò Scarlet dalla sua
scrivania. “Senza nemmeno dire una
parola?”
Tseng
si fermò, senza voltarsi verso la sua interlocutrice.
“Quello che non ho detto
è stato più eloquente di qualunque discorso
carico di sentimento che avrei
potuto fare” disse poi, con la solita voce calma e priva di
emozione.
Avvertendo
il gelido metallo sotto le dita, aprì la porta e
uscì dalla luminosa stanza,
sotto gli occhi di una donna che non avrebbe mai più
rivisto, almeno
fisicamente, per il resto della sua vita.
A
quel tempo, Tseng era completamente all’oscuro di
ciò che sarebbe accaduto in
seguito; non immaginava che avrebbe vagato per tutta la notte per le
strade di
una gelida Midgar, cercando rifugio dal gelo che non concedeva scampo
ai
viandanti notturni; non sapeva che avrebbe trovato rifugio nei
Bassifondi della
città, e che, da quel momento, la sua esistenza sarebbe
stata segnata, ogni
notte, dai sogni, o forse erano incubi, su quella donna e sulle urla di
una
bambina che chiamava la sua mamma. Non era nemmeno a conoscenza di
quando, per
vincere il senso di colpa, avrebbe cercato la bambina, e di come
l’avrebbe
trovata, dopo giorni di ricerche, in un rudere abbandonato che un tempo
era
stato una chiesa.
Lei
non l’avrebbe riconosciuto, Tseng avrebbe pensato che forse
lo shock aveva
cancellato il volto del killer dalla sua giovane mente. E lui le
avrebbe
mentito. Le avrebbe detto che era uno dei Turk che vigilavano su di
lei, e da
allora, ogni giorno, ogni momento che passava con lei, sarebbe stato un
tentativo di espiazione.
Strano
destino, il suo, da quel giorno; eppure sentiva di meritarselo.
FINE
FLASHBACK
Si
ridestò dai suoi pensieri quando riconobbe un insegna
familiare posta sul lato
di un vicolo. Smarrito nelle reminescenze di quel particolare giorno
innevato,
non aveva notato di essere ormai giunto in prossimità della
sua casa.
Oltrepassò i rifiuti che ingombravano gran parte
dell’asfalto e scavalcò il
corpo di un senzatetto che dormiva profondamente, russando.
Superò un locale
dall’aria discutibile ed un paio di ragazzi che lo
osservarono malevoli, fino a
giungere davanti ad una porta corrosa dalla ruggine.
Aprendola,
si ritrovò davanti ad una stanza spoglia, quasi del tutto
vuota se non per un
letto, un piccolo armadio ed uno scrittoio all’angolo. Non
poteva permettersi
altro, con la miseria che riceveva dai suoi clienti. Ma non li
biasimava,
dopotutto lì nei bassifondi il denaro era una merce rara.
Nessuno poteva permettersi
spese inutili, neanche per assoldare una spia del suo calibro.
Si
sedette su un letto, ad osservare il soffitto basso da cui penzolava un
lampadario squallido.
Era
strano pensare come quella bambina avesse cambiato la sua vita in ogni
suo
singolo aspetto, anche se non sapeva dire se in meglio o in peggio.
Vivere nei
bassifondi era… strano. I primi tempi era stato come se
fosse invisibile. Tutti
erano presi dalle proprie preoccupazioni, e raramente notavano quel
ragazzo in
giacca e cravatta, spaesato in quel devastato mondo di
povertà.
Successivamente, aveva imparato che lì nei bassifondi si
entrava gradualmente,
giorno dopo giorno: uno sguardo, un sorriso, l’offrirsi di
aiutare qualcuno a
portare i sacchi di cianfrusaglie dopo una giornata al mercato; e in
breve si
imparava a riconoscere un volto amico, e a scambiare qualche parola con
lui, e
magari anche a stringere amicizia. A quattro anni dal suo
trasferimento, poteva
ben dire di non ricordare quasi nulla della sua vita precedente. A
pensarci era
incredibile, ma non ricordava un tempo in cui non era solito svegliarsi
con il
rumore del rubinetto che perdeva o con i tubi di scarico che
puntualmente
gettavano il loro contenuto sul tetto della sua abitazione. I ricordi
che
precedevano il suo arrivo nei bassifondi erano ormai avvolti da una
fitta
nebbia, come se fossero stati solo una lunga digressione narrativa
della sua
vita ormai conclusa da parecchio tempo. Da parecchio sentiva che quello
era
ormai il suo posto, la sua casa.
La
sua casa era vicino a lei.
Odiava
ammetterlo, ma una delle cose che più amava dei bassifondi
era lei. La sua
presenza. Si, il giorno in cui Aerith Gainsborough per la prima volta
gli aveva
sorriso era entrato a far parte definitivamente dei bassifondi. Quando
era con
lei tutto era diverso, da parecchio tempo.
Aveva
sempre pensato che non si sarebbe mai innamorato di nessuno.
L’amore era una
debolezza dell’uomo, il preludio della sconfitta. In guerra
è così: non bisogna
provare nessuna emozione verso il nemico; se provi compassione, o pena,
o
altro, presto perirai sotto le armi di un nemico che non si cura di te
e che è
stato più furbo, perché ha capito il vero gioco
nella vita.
Eppure,
con lei tutto era diverso. Quando stava con lei, era debole, lo
sentiva, perché
provava delle emozioni. Quasi mai nella sua vita, si era lasciato
ferire dagli
altri: non all’orfanotrofio, sopportando le
crudeltà degli altri bambini senza
batter ciglio, né durante il lungo periodo in cui aveva
servito la ShinRa come
Turk. Ma adesso, sentiva quella debolezza invadergli la mente,
insinuarsi nei
suoi più profondi pensieri, e non poteva fare nulla per
fermarla. Qualcuno una
volta gli aveva detto che quelle emozioni facevano parte
dell’essere umano, e
che non poteva privarsene. Tseng aveva sempre compatito coloro che ne
erano
schiavi. Ma adesso... non sapeva più cosa pensare.
Sospirò
mentre si distendeva sul suo giaciglio, con lo sguardo rivolto verso il
soffitto da cui, ogni tanto, cadevano pezzi di intonaco. Chiuse gli
occhi e,
lentamente, scivolò in un sonno profondo, in cui forza e
debolezza si
mischiavano con il rosso del sangue sulla neve bianca di un vicolo di
periferia.