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Autore: BaschVR    05/10/2009    1 recensioni
La città, quella mattina, appariva vuota, silente, libera. Aveva nevicato per tutta la notte, e il bianco aveva ricoperto ogni cosa. Il pallido sole invernale era sorto, eppure Midgar era rimasta dormiente. Tutto appariva ovattato in quell’onirica visione, quasi irreale. L’unico rumore che Tseng sentiva era il tonfo dei suoi passi sulla neve. Era un rumore leggero, quasi impercettibile, eppure era l’unico che probabilmente la città stesse udendo. Un rumore ritmico e costante.
Dedicata a tutti coloro che amano questo pairing e, naturalmente, alla nostra inimitabile Zia Polly.
2^ classificata allo Tserith Contest indetto da Valy_Chan
Genere: Romantico, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Aeris Gainsborough, Altro Personaggio, Reno, Tseng
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo II

 

Tseng sospirò sonoramente, mentre ripercorreva le ormai buie strade dei bassifondi di Midgar. Diede un calcio ad un ciottolo, lì vicino,  e lo osservò sparire tra l’oscurità di un vicolo che puzzava di letame. Qualcuno grugnì alle sue spalle, ma lui non diede peso alla cosa; probabilmente era un senzatetto che si aggirava tra le spire nere della notte appena sorta.
Un lampione, in lontananza, si spense per un momento; poi si riaccese, subito dopo, per poi rispegnersi nell’attimo immediatamente successivo. La luce soffusa illuminava il volto di una ragazza, forse una prostituta, con la schiena poggiata sul palo e che lanciava sguardi ammiccanti ai passanti. Tseng la superò, sdegnato, con il volto chino e la mente protesa verso arcani pensieri.
I bassifondi la notte erano irriconoscibili. Le strade si riempivano di criminali, di tipi poco raccomandabili, di ubriaconi in cerca di ragazze da importunare. Sembrava che la serenità e la voglia di vivere che accompagnava le giornate illuminate dalla calda luce solare, la notte sparisse. Ed era allora, al chiaro della pallida luna, che emergeva il lato più oscuro di ogni uomo che viveva in quella città, corrotta dall’odio e dalla povertà.
A Tseng pareva quasi di sentirla, quella corruzione che aleggiava per i vicoli malfamati: gli sembrò di udire i sospiri licenziosi di una coppia di amanti, immersi nell’oscurità di un vicolo, o di sentire alcuni spari non lontani dal luogo dove si trovava.
Quei rumori secchi, così familiari ma al tempo estranei, lo riportarono con la mente a quella gelida mattina di ormai quasi quattro anni prima. A differenza della versione confusa che ricordava Aerith, a lui non era sfuggito nulla: i suoi ricordi si basavano più sulle sensazioni, sui ricordi dei pensieri, sugli attimi infiniti che cambiavano definitivamente lo scorrere degli eventi. Quella giornata era stata marchiata nei suoi ricordi, guadagnandosi un posto d’onore; e non passava giorno senza che il suo sonno, o i suoi pensieri, non venissero disturbati dal sangue sulla gelida e candida neve, o dalle grida disperate di Aerith, che urlava sconvolta. Probabilmente quest’ultima non ricordava molto a causa del forte shock che l’avvenimento le aveva causato.
Non ricordava il motivo che l’aveva spinto a sparare; in seguito aveva pensato che sarebbe stato meglio limitarsi ad inseguire il malvivente, e solo in seguito provare a liberare la donna. Tuttavia aveva agito impulsivamente; la sua mente, così fredda, calcolatrice, riflessiva, aveva reagito d’istinto, senza riflettere. E quella volta, seguire l’istinto gli era costato molto caro.
Gli omicidi erano ormai una consuetudine, a Midgar, una cruda realtà con cui persino i bambini entravano in contatto in età precoce. Ma non ci si abituava mai, ed ogni volta era più dolorosa della precedente.
In verità, Tseng non aveva mai avuto una netta distinzione tra bene e male. La linea labile che sanciva quella profonda differenza era per lui invisibile, come se non esistesse. I due diversi pensieri si fondevano nella sua mente, ed agivano in base al suo buonsenso. Fin dalla più tenera età Tseng non si era mai fatto problemi su ciò che era giusto e ciò che non lo era; tutto è più facile se distingui il mondo in persone che ti sono ostili e in alleati. Uccideva coloro il cui nome figurava tra i nemici della ShinRa e non si creava nessun problema, dimenticando in fretta i volti delle sue vittime. Talvolta nemmeno li osservava in viso. Ma quella volta... l’ultimo suo omicidio era stata il più gravoso. Non che non fosse mai successo che qualche innocente rimanesse ucciso durante una missione, ma quella volta era stato differente. A volte pensava di aver sparato con l’intenzione di uccidere quella donna. Di colpire lei, anziché quell’uomo – quel nemico – che doveva essere punito.
Erano stati quei pensieri che l’avevano spinto a difficili scelte. Senso di colpa. Espiazione. Perdono. Rinascita. Un ciclo che sperava di poter percorrere per fare ammenda dei propri errori. Eppure, sbagliava ancora nel tenere Aerith all’oscuro della verità. Ma in quegli anni, le si era tanto affezionato dal non poter sopportare l’idea di perderla.
 

 

Flashback

 

Tutto gli appariva confuso, più sfocato del normale. La testa stava per scoppiargli, ogni rumore sembrava amplificato fino all’inverosimile. Era seduto sul pavimento di un gelido corridoio della ShinRa, con la schiena poggiata al muro, anche se non ricordava con esattezza come fosse arrivato lì. Nella sua testa, un’entropia di parole, immagini e suoni si fondeva ininterrottamente e senza sosta. Il sangue, la neve, e lo sguardo dell’assassino – lui, era lui l’assassino! –, e il malvivente che fuggiva, indisturbato, tra il bianco di Midgar, e le urla di una marmocchia che gli trapanavano il cervello…
Accanto a lui Reno non smetteva di parlare, velocemente, come se non riuscisse a fare altro. Era da quando Scarlet li aveva chiamati nei suoi uffici che non faceva altro che blaterare, nervoso.
“Lo so già, ci butteranno fuori entrambi!” esclamò il Turk più giovane, alzandosi da terra e comminando avanti e indietro, torcendosi le mani. “Abbiamo combinato un casino! Adesso finirò come mio zio Al, a spalare cacche di Chocobo dalle piste del Gold Saucer, e quando morirò verrò utilizzato come concime per i Chocobo, e poi…”
“Basta!” esclamò Tseng, forse più forte di quanto avrebbe voluto. “Reno, tu non c’entri nulla con quello che è successo, non possono punirti, stai tranquillo…”
“No! So già che verrò licenziato! Tanto vale chiamare lo zio Al e dirgli che da domani avrà due nuovi operai!” esclamò Reno, prendendo dalla tasca il proprio cellulare e cominciando a battere i tasti con furia.
Tseng gli prese il telefono di mano e lo scagliò sul pavimento, stizzito. Ma perché non la piantava quell’idiota? Sapeva benissimo a cosa stava andando incontro, non c’era alcun bisogno che Reno glielo ricordasse insistentemente.
Il ragazzo accanto a lui alzò le spalle. “Fa nulla…” disse, mentre raccoglieva il cellulare ormai inutilizzabile. “Tanto da spalatore di cacche di Chocobo non me ne farei nulla!”
“Vuoi stare un po’ zitto, dannazione?!” sibilò stizzito Tseng, mentre Reno, mortificato, si sedeva accanto a lui in silenzio. Gli dispiaceva averlo trattato così, dopotutto il ragazzo non aveva fatto niente di male. Reno aveva avuto il buon senso di non compiere un gesto che l’avrebbe segnato per tutta la vita.
Molti lo credevano come freddo, vuoto, privo di emozioni. Lo era, certo. Ma solo in parte. Credevano forse che non avrebbe più pensato alla morte di quella donna? Che sarebbe passato avanti, come aveva sempre fatto? No, non era possibile. Non esternare i sentimenti non vuol dire automaticamente non provarne, ma solo avere una buona capacità di autocontrollo. Che spesso poteva diventare una maschera.
Adesso, alla luce di ciò che era accaduto, non si poteva più tornare indietro. Alea iacta est* (Il dado è tratto).
Il cigolio di una porta che scorreva sui propri cardini lo riscosse dal torpore nel quale era caduto. Si alzò di scatto, osservando il fante della ShinRa che lo squadrava da capo a piedi, sotto l’elmo che gli copriva in gran parte il volto.
“Seguitemi!” disse, voltandosi e riattraversando la porta dal quale era venuto. “Scarlet vi sta aspettando.”
“Dobbiamo proprio?” chiese Reno, abbozzando un sorriso. Il fante ricambiò con un’occhiata glaciale che lo zittì. A Tseng quel ragazzo così gelido stava già simpatico.
Li condusse attraverso dei corridoi grigi e spogli, intervallati da qualche finestra dalla quale si poteva osservare la tempesta di neve abbattersi su Midgar. Ogni tanto, il ragazzo si voltava verso di loro, senza parlare, con l’abbozzo di un sorriso malvagio sul volto.
“Posso spaccargli la testa?” chiese Reno, sottovoce. “Siamo già nei guai, tanto vale che…”
“Eccoci, siamo arrivati!” esclamò il soldato, interrompendolo e gettandogli un’occhiata di puro disgusto. “Scarlet vi aspetta qui dentro.”
“Grazie.” gli rispose Tseng. “Puoi andare.”
Il Fante si allontanò a grandi passi, sparendo oltre l’angolo del corridoio.
“Entriamo?” chiese Reno, guardandosi intorno.
Tseng non rispose, allungando una mano verso la maniglia in ottone della porta.
“Sai che si dice che Scarlet abbia mozzato la testa a tredici dipendenti con una mannaia tutti in una volta?” disse Reno, da una parte intimorito e dall’altra ammirato dalle gesta della donna.
“Sai che ne dubito molto?” rispose Tseng, ancora sulla soglia dell’ufficio.
“Beh, in verità non sarebbe così difficile, basterebbe mettere una materia All sulla mannaia e cominciare la strage!”
“Certo…” rispose Tseng per farlo tacere, abbassando la maniglia e aprendo la porta.
Titubanti, entrarono nell’ufficio di colei che, secondo la leggenda, passava il suo tempo a decapitare dipendenti e ad infierire sui loro cadaveri.
La prima cosa che li colpì fu la luce abbagliante. Dalle alte vetrate dell’ufficio, la città di Midgar non era più visibile, ricoperta da un manto bianco ed abbagliante. Il cielo era opaco, perlaceo, plumbeo; le alte nuvole da lì sembravano più vicine, quasi raggiungibili.
La figura di Scarlet si stagliava davanti ad una della alte vetrate della stanza, proiettando un’appena visibile ombra alle sue spalle. Li accolse con un sorriso mellifluo, falso, che sembrava farsi beffe della loro condizione. Quando parlò, il tono della voce era canzonatorio, come se si stesse divertendo a vederli trepidanti e in attesa di conoscere il proprio destino.
“Guardate chi ci onora della nostra presenza, quest’oggi...” disse Scarlet, camminando verso di loro con le braccia incrociate al petto. “Tseng e il suo fido assistente-Turk Reno!”
I due non risposero, in attesa che la donna cominciasse a sputare veleno su di loro. E in effetti, non tardò molto prima che la donna riprendesse il suo discorso, assumendo il cipiglio di un’aquila che plana sulla propria preda.
“Sapete, stamattina, quando mi sono svegliata nel mio letto, era tranquilla come non mai. La neve, il silenzio… a dire la verità, mi sentivo in sintonia con l’intero universo…” cominciò a narrare Scarlet, lentamente, facendo in modo che né Tseng né Reno potessero perdersi una parola. “Felice come non mai, arrivo nei miei uffici e scopro che, all’alba è accaduto qualcosa di veramente strano. Non siete curiosi di sapere cosa?”
“C-credo di saperlo…” sussurrò Reno, a testa china.
“Scopro che due Turk, mentre erano in missione, hanno combinato un disastro, e che uno dei due, un Turk di cui mi fidavo, uno tra i nostri migliori dipendenti, che era candidato per il controllo della divisione Turk, ha commesso un errore. Badate bene, non un piccolo errore. Non una quisquilia, niente di risolvibile con un paio di pratiche e qualche insabbiamento. Questo Turk ha ucciso una donna, in piena luce del giorno, ed ha lasciato andare un malvivente che trafficava Materie illegali, che potrebbero dare non pochi grattacapi alla ShinRa. Così mi sono vista affidata il caso, come se fosse piovuto dal cielo insieme alla neve.”
“Ma... sarebbe dovuta essere l’area di competenza di Reev…” cominciò Reno, ma non fece in tempo a finire la frase perché la donna lo zittì di nuovo.
“Senza offesa, ma Reeve Tuesti è solo uno stronzo senza cervello che ha saputo mandare Midgar allo scatafascio, finora!” rispose Scarlet, seccamente. Il Turk più giovane si pentì di averla interrotta. “Lo stesso Presidente ShinRa ha deliberato che fossi io a comunicare la punizione che i piani alti hanno decretato per voi. Cosa potevo fare se non accettare?” Scarlet rise, una risata fredda, acuta, fastidiosa.
Tseng sentì una nuova fitta alla testa. Non si sentiva per niente bene.
“Reno,” continuò Scarlet, voltandosi verso la maestosa Midgar ricoperta dalla neve. “l’assemblea ha valutato le tue doti, durante quest’ultima missione. A differenza di altri, hai mantenuto la lucidità e hai cercato di fare la cosa giusta per la ShinRa. Congratulazioni, sei stato promosso da Assistente-Turk a Turk. Entro un paio di ore ti verrà assegnato un partner che ti accompagnerà nelle tue missioni”.
Il ragazzo alzò gli occhi e guardò Scarlet, meravigliato. Tseng ebbe l’impressione che lo scopo di tutto ciò fosse stato umiliare ulteriormente lui, ed ebbe l’insano desiderio di spingere la donna dalla finestra del proprio ufficio. Strinse i pugni, il volto impassibile, mentre osservava Scarlet congratularsi con Reno e spiegargli i suoi nuovi incarichi.
Quell’orrenda donna aveva preparato le cose per bene, quella volta.
Tseng si sentì uno schifo. E Scarlet era una maestra per far sentire così le persone che le stavano accanto. Un paio di volte, mentre la donna parlava, gli aveva lanciato un’occhiata sfuggente, con il suo solito ghigno sul volto, cercando di intravedere una reazione sul suo volto impassibile. Probabilmente si aspettava di vederlo abbassare gli occhi, ma non gli avrebbe dato quest’ulteriore soddisfazione. L’avrebbe licenziato, ma di certo non l’avrebbe umiliato.
“Puoi andare, Reno” disse alla fine Scarlet, stringendogli la mano.
Mentre usciva, Reno gli lanciò un’occhiata furtiva e preoccupata.
“Veniamo a noi, Tseng.” Scarlet lo guardò, non riuscendo nemmeno a trattenere il proprio ghigno. “Potrei parlare per ore del danno causato alla ShinRa, di come sbagliando hai derubato tutti i dipendenti della Corporazione eccetera eccetera. Potrei. Forse dovrei. Non credi anche tu?”
Tseng non rispose, limitandosi a fissarla nei suoi glaciali occhi azzurri.
“Si,” riprese Scarlet, mettendosi a camminare su e giù per l’ufficio. “dovrei. Ma non lo farò. Sarebbe un tale spreco di tempo, visto la sorte che ti aspetta!” la donna rise di nuovo, e Tseng strinse i pugni così forte da farsi male. “Anzi, ti dirò una cosa. Sai perché quest’uccisione ha causato così tanto scalpore? Non è la prima volta che qualche passante ci rimette la vita durante una missione. In un altro caso, ci saremmo limitati ad occultare il cadavere. Ma stavolta, non andrà così. Il problema non è stato aver ucciso la donna, ma l’aver messo in pericolo quella bambina. Probabilmente non lo sai ancora, ma quella ragazzina è molto importante per la ShinRa. Un giorno capirai cosa intendo.
Ora, l’aver ucciso la madre comporta l’averla resa diffidente nei confronti della ShinRa. Avremmo voluto che lavorasse in squadra con noi, quando sarebbe giunto il momento. Ma ora… tutto sarà più complicato. Non mi stupirei, Tseng, di sapere che hai compromesso l’equilibrio del pianeta. Questo è il motivo per cui abbiamo deciso di allontanarti a tempo indeterminato dalla Sezione Turk.”
Il ragazzo non si mosse ancora, né parlò. Non voleva che Scarlet considerasse il suo congedo come una vittoria personale. Maledetta Arpia…
“Verrai dimesso dal servizio oggi stesso. Ritorni un civile, e, come tale, le questioni private della ShinRa non saranno più tuo interesse. Se parli con qualcuno di quello che sai sui nostri progetti Top Secret, sapremo dove trovarti.” Concluse Scarlet, gettandosi una ciocca di capelli biondi oltre l’orecchio.
Scese il silenzio tra i due.
“Allora? Non hai nulla da dirmi?” chiese Scarlet, sperando in una sua reazione di qualche tipo.
Tseng non rispose. Si alzò in piedi e, con la mente rivolta ad altri pensieri, camminò verso la porta che dava sul corridoio grigio dal quale erano venuti, senza nemmeno degnarla di uno sguardo.
“Te ne vai così?” domandò Scarlet dalla sua scrivania. “Senza nemmeno dire una parola?”
Tseng si fermò, senza voltarsi verso la sua interlocutrice. “Quello che non ho detto è stato più eloquente di qualunque discorso carico di sentimento che avrei potuto fare” disse poi, con la solita voce calma e priva di emozione.
Avvertendo il gelido metallo sotto le dita, aprì la porta e uscì dalla luminosa stanza, sotto gli occhi di una donna che non avrebbe mai più rivisto, almeno fisicamente, per il resto della sua vita.
A quel tempo, Tseng era completamente all’oscuro di ciò che sarebbe accaduto in seguito; non immaginava che avrebbe vagato per tutta la notte per le strade di una gelida Midgar, cercando rifugio dal gelo che non concedeva scampo ai viandanti notturni; non sapeva che avrebbe trovato rifugio nei Bassifondi della città, e che, da quel momento, la sua esistenza sarebbe stata segnata, ogni notte, dai sogni, o forse erano incubi, su quella donna e sulle urla di una bambina che chiamava la sua mamma. Non era nemmeno a conoscenza di quando, per vincere il senso di colpa, avrebbe cercato la bambina, e di come l’avrebbe trovata, dopo giorni di ricerche, in un rudere abbandonato che un tempo era stato una chiesa.
Lei non l’avrebbe riconosciuto, Tseng avrebbe pensato che forse lo shock aveva cancellato il volto del killer dalla sua giovane mente. E lui le avrebbe mentito. Le avrebbe detto che era uno dei Turk che vigilavano su di lei, e da allora, ogni giorno, ogni momento che passava con lei, sarebbe stato un tentativo di espiazione.
Strano destino, il suo, da quel giorno; eppure sentiva di meritarselo.

 

FINE FLASHBACK

 

Si ridestò dai suoi pensieri quando riconobbe un insegna familiare posta sul lato di un vicolo. Smarrito nelle reminescenze di quel particolare giorno innevato, non aveva notato di essere ormai giunto in prossimità della sua casa. Oltrepassò i rifiuti che ingombravano gran parte dell’asfalto e scavalcò il corpo di un senzatetto che dormiva profondamente, russando. Superò un locale dall’aria discutibile ed un paio di ragazzi che lo osservarono malevoli, fino a giungere davanti ad una porta corrosa dalla ruggine.
Aprendola, si ritrovò davanti ad una stanza spoglia, quasi del tutto vuota se non per un letto, un piccolo armadio ed uno scrittoio all’angolo. Non poteva permettersi altro, con la miseria che riceveva dai suoi clienti. Ma non li biasimava, dopotutto lì nei bassifondi il denaro era una merce rara. Nessuno poteva permettersi spese inutili, neanche per assoldare una spia del suo calibro.
Si sedette su un letto, ad osservare il soffitto basso da cui penzolava un lampadario squallido.
Era strano pensare come quella bambina avesse cambiato la sua vita in ogni suo singolo aspetto, anche se non sapeva dire se in meglio o in peggio. Vivere nei bassifondi era… strano. I primi tempi era stato come se fosse invisibile. Tutti erano presi dalle proprie preoccupazioni, e raramente notavano quel ragazzo in giacca e cravatta, spaesato in quel devastato mondo di povertà. Successivamente, aveva imparato che lì nei bassifondi si entrava gradualmente, giorno dopo giorno: uno sguardo, un sorriso, l’offrirsi di aiutare qualcuno a portare i sacchi di cianfrusaglie dopo una giornata al mercato; e in breve si imparava a riconoscere un volto amico, e a scambiare qualche parola con lui, e magari anche a stringere amicizia. A quattro anni dal suo trasferimento, poteva ben dire di non ricordare quasi nulla della sua vita precedente. A pensarci era incredibile, ma non ricordava un tempo in cui non era solito svegliarsi con il rumore del rubinetto che perdeva o con i tubi di scarico che puntualmente gettavano il loro contenuto sul tetto della sua abitazione. I ricordi che precedevano il suo arrivo nei bassifondi erano ormai avvolti da una fitta nebbia, come se fossero stati solo una lunga digressione narrativa della sua vita ormai conclusa da parecchio tempo. Da parecchio sentiva che quello era ormai il suo posto, la sua casa.
La sua casa era vicino a lei.
Odiava ammetterlo, ma una delle cose che più amava dei bassifondi era lei. La sua presenza. Si, il giorno in cui Aerith Gainsborough per la prima volta gli aveva sorriso era entrato a far parte definitivamente dei bassifondi. Quando era con lei tutto era diverso, da parecchio tempo.
Aveva sempre pensato che non si sarebbe mai innamorato di nessuno. L’amore era una debolezza dell’uomo, il preludio della sconfitta. In guerra è così: non bisogna provare nessuna emozione verso il nemico; se provi compassione, o pena, o altro, presto perirai sotto le armi di un nemico che non si cura di te e che è stato più furbo, perché ha capito il vero gioco nella vita.
Eppure, con lei tutto era diverso. Quando stava con lei, era debole, lo sentiva, perché provava delle emozioni. Quasi mai nella sua vita, si era lasciato ferire dagli altri: non all’orfanotrofio, sopportando le crudeltà degli altri bambini senza batter ciglio, né durante il lungo periodo in cui aveva servito la ShinRa come Turk. Ma adesso, sentiva quella debolezza invadergli la mente, insinuarsi nei suoi più profondi pensieri, e non poteva fare nulla per fermarla. Qualcuno una volta gli aveva detto che quelle emozioni facevano parte dell’essere umano, e che non poteva privarsene. Tseng aveva sempre compatito coloro che ne erano schiavi. Ma adesso... non sapeva più cosa pensare.
Sospirò mentre si distendeva sul suo giaciglio, con lo sguardo rivolto verso il soffitto da cui, ogni tanto, cadevano pezzi di intonaco. Chiuse gli occhi e, lentamente, scivolò in un sonno profondo, in cui forza e debolezza si mischiavano con il rosso del sangue sulla neve bianca di un vicolo di periferia.
 
   
 
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